Struttura e scopi della
riforma dei cicli.
Analisi
del contesto e di alcuni degli aspetti più deleteri di una riforma che
tradisce aspettative e necessità di cambiamento della scuola. Della redazione
di Filirossi. Marzo 2001.
La riforma dei
cicli è giunta ormai alla linea d'arrivo: il 1° settembre 2001 entrerà
in vigore coinvolgendo direttamente i bambini e le bambine delle classi prime
e seconde del primo ciclo, e i relativi e le relative insegnanti e famiglie.
In questo numero della rivista intendiamo analizzare alcuni degli aspetti della
riforma che riteniamo tra i più deleteri: un modello pedagogico che non
attribuisce al gruppo-classe e al piano delle relazioni la centralità
che meritano; il rischio di smantellamento del tempo pieno sia come modello
di organizzazione didattica che come opportunità di valenza sociale in
primo luogo per le donne; una definizione dei curricoli contraddittoria e debole
soprattutto nella variabile "tempo"; un sistema pedagogico fondato
sul concetto di competenza senza che sia prima definito che cosa essa sia; l'introduzione
del libretto formativo o portfolio, ovverosia l'introduzione di un sistema di
valutazione pseudoscientifica fondata sull'accertamento dei crediti.
Noi di Filirossi non siamo contrari e contrarie al principio e alla necesstità
di riformare la scuola italiana, ma siamo fortemente critici e critiche verso
contenuti, forme e metodi di definizione e applicazione della presente riforma;
pertanto lanciamo un appello in tal senso, che non vuole sostituirsi ma tuttalpiù
aggiungersi ai diversi altri che sono in circolazione, perché la riforma
non venga attuata e sia profondamente rivista e ripensata.
Il riordino dei
cicli è la prima delle riforme in ordine di tempo ideate da Berlinguer
(gennaio '97). La sua prima veste fu un documento programmatico che ne gettava
le linee guida e i principi ispiratori: scuola più snella nei contenuti,
più omogenea nella preparazione di base, centrata sull'attivazione di
un ventaglio di "competenze e abilità" necessarie per far fronte
a un mondo del lavoro che, tramontato definitivamente il modello fordista-taylorista,
sarà sempre più mutevole e richiderà maggiore flessibilità.
L'espressione più volte ripetuta che sintetizza questa realtà
è la seguente: non è più pensabile che un individuo svolga
nell'arco della sua esistenza sempre la stessa attività; necessariamente
svolgerà molteplici lavori; quindi deve essere "educato" o
meglio formato alla flessibilità. Questo nuovo verbo socio-pedagogico
di matrice confindustriale si è incarnato nella politica scolastica del
centrosinistra.
Non abbiamo qui il tempo di affrontare la critica a questa rappresentazione
della realtà, che viene presentata come naturale, dura forse ma pur sempre
inevitabile. In questa sede pertanto diamo per assodato e dimostrato che essa
è invece il frutto tutt'altro che naturale di precise e discutibili scelte
politiche, che vogliono preservare modelli di sviluppo (e di sottosviluppo)
differenziati, iniqua distribuzione delle ricchezze, gerarchie e stratificazioni
sociali. Siamo pertanto profondamente contrari e contrarie a considerare e progettare
la scuola come un docile strumento finalizzato alla preservazione di questa
orribile realtà.
Riprendiamo perciò il discorso sui cicli. Essi sono un tassello di un
disegno riformatore complesso, che si affianca all'autonomia, ai dimensionamenti,
alla dirigenza scolastica, alla legge di parità, ecc. Insieme questi
tasselli disegnano una strategia politica complessiva volta da un lato a ridurre
l'intervento pubblico nel sistema della formazione e dell'educazione a vantaggio
dei privati (tendenza questa mondiale, vedi articoli) e a istituire dall'altro
una gerarchia nel sistema più funzionale alla riproduzione del modello
sociale esistente.
Ai cicli inoltre si affiancano, da un punto di vista apparentemente più
"tecnico", l'innalzamento dell'obbligo scolastico solo fino
a 15 anni, e dell'obbligo formativo fino a 18. Questa cosa prevede la possibilità
per non dire la delega alle aziende di intervenire direttamente sia come centri
di formazione diretta, sia come supporto strutturale e finanziario, nel sistema
della formazione e dell'educazione. Battaglia storica della sinistra è
stato l'innalzamzento dell'obbligo fino a 18 anni: i 16 anni potevano essere
letti come tappa intermedia in quella direzione. L'obbligo a 15 anni, un solo
anno in più rispetto al recente passato, è il segno evidente di
un ripensamento totale della sinistra di governo circa i destini e le finalità
della scuola pubblica. E' un cedimento grave e costituisce il tradimento del
principio costituzionale fortemente voluto dalla sinistra che poneva la scuola
come elemento centrale e strategico nell'aspirazione a una società più
libera e più giusta, improntata all'uguaglianza sostanziale dei cittadini.
Scuola alla quale la nostra Costituzione assegna l'arduo compito di appianare
le differenze sociali e culturali di partenza tra gli individui. Compito che
richiede enormi fatiche, attenzione, ricerca, investimenti di risorse e di tempo.
Compito che solo in parte la scuola ha voluto e potuto perseguire,
che certamente non è finito, ma che con queste riforme si rinuncia a
finire. Ciò che a noi pare evidente è che la sinistra di governo,
avendo rinunciato a molti dei suoi "antichi" obiettivi, si sia rassegnata
nel caso che a noi qui interessa a ridisegnare una scuola in linea con la società
neocapitalista, fondata strutturalmente sulle differenze (da non confondere
con le diversità) di status, di ruoli, di ricchezza, di istruzione. Differenze
forse sempre meno variegate nel numero e nella qualità, per certi versi
più appiattite, ma nella sostanza più profonde e marcate.
Eppure nonostante ciò enormi interessi e speranze ha suscitato e suscitano
le riforme scolastico dell'ulivo, benché man mano che il quadro meglio
si precisa e le cose si concretizzano crescano di pari passo le disillusioni
e le critiche. Il fatto è che di essere riformata la scuola italiana
aveva ed ha veramente bisogno. Nonostante tutti i progressi fatti in cinquant'anni
di onorato servizio profondi coni d'ombra permangono nel sistema: un autoritarismo
nei metodi e nelle relazioni didattiche e professionali che dopo la stagione
innovativa degli anni settanta è tornato gradatamente e inesorabilmente
a farla da padrone; una scarsa attenzione riservata al piano della comunicazione
e delle relazioni umane; ambienti scolastici sempre meno sereni vuoi per una
competitività crescente vuoi per l'appesantimento del rapporto numerico
docenti/discenti; una pratica valutativa perlopiù di tipo censorio e
penalizzante piuttosto che incoraggiante e valorizzatrice; un'alta dispersione
e selezione soprattutto nel post-obbligo, che diventa sempre più massiccia
man mano si scende nella "gerarchia" degli indirizzi scolastici; una
didattica obsoleta fondata sulla centralità e la trasmissività
dei contenuti disciplinari; una gerarchia delle discipline che penalizzano il
libero e armonioso sviluppo delle capacità individuali; la valorizzazione
assoluta del sacrificio, della fatica e dell'impegno nello studio senza che
sia adeguatamente affrontato il problema del coinvolgimento degli studenti e
delle studentesse; il totale detrimento di un approccio creativo al sapere;
la frustrazione della curiosità, dell'interesse e della passione dei
giovani e dei bambini nei confronti della conoscenza. Queste e numerose altre
pecche della nostra scuola non vengono affatto sanate dalle riforme, ma in molti
casi addirittura aggravate (si pensi ad esempio all'anticipazione delle discipline
nella futura scuola di base). Un discorso a parte meriterebbe la formazione
degli insegnanti, di cui tanto si parla e che sicuramente è necessaria
e fondamentale, ma che date le premesse rischia di produrre non solo lo scatenamento
del mercato formativo, ma l'addestramento controllato in base alle linee di
una pedagogia di regime.
Questo il quadro di fondo su cui si colloca la riforma dei cicli. Vediamone
ora a grandi linee la struttura e le modificazioni rispetto alle proposte iniziali:
Con la riforma
la scuola si articolerà in tre cicli: la scuola dell'infanzia (a partire
dai 3 anni d'età per la durata di 3 anni), il ciclo primario o scuola
di base (durata 7 anni), il ciclo secondario o scuola secondaria (durata 5 anni).
3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17
La scuola dell'infanzia
3 4 5
La scuola dell'infanzia
non è obbligatoria; neppure l'ultimo anno è tale, a differenza
di quelle che erano le prime intenzioni. La carenza di strutture statali in
questo settore deve essere stata la causa principale di questa rinuncia, accanto
a motivazioni di opportunità politica: lo stato non potendo garantire
direttamente il servizio avrebbe dovuto provvedere ad aumentare gli stanziamenti
agli enti locali oltre che finanziare direttamente strutture private. Strada
quella dei finanziamenti diretti e/o indiretti che resta comunque aperta dal
momento che lo stato "garantisce a tutti i bambini e le bambine, in età
compresa tra i tre e i sei anni, la possibilità di frequentare la scuola
dell'infanzia".
Il Tempo-scuola del ciclo dell'infanzia ammonta a 1150-1300 ore (35-40 ore settimanali).
Il 70% (25-28 ore settimanali) rappresentano la quota nazionale per attività
e insegnamenti da distribuire temporalmente secondo quanto stabilito dal POF
d'istituto.
La scuola di base
6 7 8 9 10 11 12
La scuola di base
costituisce il corpo portante dell'istruzione obbligatoria. Essa assorbe in
sé le vecchie elementari e medie, riducendo però la durata complessiva
di un anno: da 8 (5 elementari + 3 medie) a 7.
Il tempo scuola è di 1000 ore (30 ore per 33 settimane) + 10 ore settimanali
opzionali, con una quota nazionale per attività e insegnamenti del 75%.
Nelle intenzioni dovrebbe caratterizzarsi per un "percorso educativo unitario" al posto della vecchia frattura tra elementari e medie, e raccordarsi sia alla scuola dell'infanzia che alla scuola secondaria. Le sue finalità sono così declinate: a) acquisizione e sviluppo delle conoscenze e delle abilità di base; b) apprendimento di nuovi mezzi espressivi; c) potenziamento delle capacità relazionali e di orientamento nello spazio e nel tempo; d) educazione ai princìpi fondamentali della convivenza civile; e) consolidamento dei saperi di base; f) sviluppo delle competenze e delle capacità di scelta individuali atte a consentire scelte fondate sulla pari dignità delle opzioni culturali successive.
Quest'ultima finalità ci dà la cifra del pressapochismo, per non dire di peggio, su cui si basa la riforma. Conosciamo tutti benissimo le difficoltà e le incertezze che hanno i ragazzi e le ragazze in genere al termine delle medie a operare una scelta di studi autonoma e consapevole; sappiamo altresì bene come queste difficoltà aumentino e siano fortemente determinate dalle condizioni socio-economiche delle famiglie. Come si può dunque pretendere di risolvere questi problemi e sviluppare "capacità di scelta individuali" anticipando addirittura di un anno il momento di tale scelta? Solo con l'inganno della "pari dignità delle opzioni culturali successive", giudizio sul quale non vale neppure la pena di spendere una parola!
Neppure l'unitarietà
del percorso educativo è garantita, dal momento che il ciclo viene strutturato
in tre segmenti annuali: 2+3+2: raccordo con la scuola dell'infanzia e prima
alfabetizzazione - emersione dei nuclei disciplinari dagli ambiti più
generali - raccordo con la scuola secondaria. Oltre all'esame conclusivo sembra
si preveda addirittura una sorta di verifica nei momenti di passaggio (la reintroduzione
del vecchio esamino tra la seconda e la terza elementare?) Lo svolgimento dei
segmenti è affidato a docenti con formazione e preparazione professionale
disomogenea, come sono gli insegnanti medi ed elementari. Insieme a ciò
l'introduzione anticipata del piano disciplinare al terzo anno rischia di produrre
non l'auspicata unitarietà ma l'accentuazione delle divisioni e delle
gerarchie professionali e disciplinari, tra insegnanti laureati (dalle medie)
e non laureati (dalle elementari) che si prolungherà ancora a lungo nel
tempo, tra discipline "forti" e discipline secondarie o ambiti predisciplinari.
La scuola secondaria
13 14 15 16 17
La scuola secondaria
è articolata in quattro grandi aree (classico-umanistica, scientifica,
tecnica e tecnologica, artistica e musicale) e divisa in due segmenti, di 2
e 3 anni. Il primo segmento conclude l'obbligo scolastico e indirizza al secondo
un po' più specialistico, o al mondo del lavoro o della formazione professionale.
Il tempo-scuola complessivo è di 1000 ore (30 ore per 33 settimane).
La quota nazionale dei curricoli nel biennio è del 70%, se sono attivati
interventi per il recupero e il riorientamento, oppure dell'80%. Nel triennio
tale quota è dell'80%, di cui il 20% è scelto da ciascuna scuola
su un ventaglio di opzioni stabilito dal ministero.
Il biennio dell'obbligo
è formato da discipline comuni e discipline d'indirizzo con valenza non
specialistica, anche per permettere il passaggio tra aree e indirizzi. Il sistema
che rende ciò più agevole è quello della didattica modulare,
fondato non sulle relazioni significative ma sul "sapere in pillole".
Al termine del biennio viene rilasciato un certificato "attestante il percorso
didattico svolto e le competenze acquisite": non c'è quindi nessun
titolo o diploma ma viene applicato il sistema dei crediti (patentino o portfolio)
Anche il triennio, secondo la filosofia illustrata nell'introduzione non deve
essere troppo caratterizzante, per non creare percorsi diretti a questa o a
quella facoltà e per rispondere meglio ad un mercato del lavoro che richiede
professionalità "ampie". Tutto ciò che attiene a un
sistema di conoscenze più strutturato, a una cultura più solida
è demandato all'ambito universitario.
Breve considerazione
finale
La conclusione dell'intero iter scolastico così com'è organizzato
è in pratica la selezione indolore, nel senso che coloro che non sono
degni o capaci o motivati a farsi una cultura a raggiungere i livelli superiori
dell'istruzione e del sapere sono fermati ai livelli precedenti ma senza l'onta
della bocciatura. La maggior parte di loro, poiché sono tenuti all'obbligo
formativo, avranno di fronte a sé una palestra di tre anni di precariato
e flessibilità da scegliere tra centri di formazione professionale, privati
(la maggior parte, es. salesiani), o regionali (cioè quasi privatizzati),
agenzie formative o direttamente aziende in stretta relazione con le scuole
per l'accertamento dei crediti. Ecco così realizzata la frammistione
tra contratto formativo e contratto di lavoro, la tanto auspicata integrazione
scuola-mondo del lavoro. Anche chi procede negli studi dopo il quindicesimo
anno d'età potrà comunque usufruire di queste opportunità.
Infatti, fortunatamente, "negli ultimi tre anni, ferme restando le discipline
obbligatorie, esercitazioni pratiche, esperienze formative e stages possono
essere realizzati in Italia o all'estero anche con brevi periodi di inserimento
nelle realtà culturali, produttive, professionali e dei servizi".
Compiuto il 18 anno d'età saranno pronti per accedere "liberamente",
cioè senza più obblighi, al mercato del lavoro, del quale in realtà
avranno già fatto ampia conoscenza.
Citazione conclusiva
"Sul terreno della scuola il problema fondamentale, anzi essenziale, non
può essere altro che quello di fornire a tutti i mezzi della conoscenza,
e rendere tutti armati, attrezzati, preparati nello stesso modo per accostarsi
ai libri e alle opere d'arte, e partecipare alle ricerche della cultura. Anche
nel promuovere le riforme più provvisorie non si può non tenerlo
presente. Perché anche la più provvisoria riforma non dovrà
essere rinnegata o smentita nel suo spirito dalle riforme che i tempi renderanno
attuabili in seguito".
Elio Vittorini
Il Politecnico, 6 ottobre 1945