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RIFORME/RIVOLUZIONE
nelle tesi per il V congresso del PRC


Sintesi del dibattito

Sia le tesi di minoranza che quelle di maggioranza parlano abbondantemente di rivoluzione. Tutte e due asseriscono che gli spazi per una politica riformista da parte delle classi dominanti si sono esauriti. Ambedue sostengono che l'alternativa possibile alla globalizzazione capitalista è una società socialista. Dove stanno dunque le differenze? Nel concetto di rivoluzione. Le tesi di minoranza sostengono che rivoluzione significa nella sostanza presa del potere. Le tesi di maggioranza, senza negare l'importanza di quel momento, sostengono che fondamentalmente la rivoluzione è un processo. Da qui discendono due diverse concezioni sulle riforme da rivendicare: per le tesi di maggioranza esse sono sempre un portato dei movimenti reali che il partito fa propri e generalizza, per le tesi di minoranza esse sono patrimonio di un partito che deve agitarle per mostrare alle masse e ai movimenti la necessità della presa del potere.


La nostra posizione

Si tratta di uno di quei dibattiti sui quali, al di fuori di esempi concreti di applicazione delle proposte, si rischia di scivolare nella pura astrazione, anche perché appare a tutti evidente che stiamo parlando di prospettive diciamo così, non proprio immediate. Il merito delle tesi di minoranza è di esporre in maniera piuttosto chiara il proprio punto di vista. Quando si parla di "presa del potere" nell'immaginario comunista appaiono subito le immagini della rivoluzione d'Ottobre o dell'entrata all'Havana dei barbudos. Il problema però è che non solo quegli esempi sono piuttosto lontani, ma si riferiscono a Paesi non imperialisti. Sino ad oggi non vi è stata alcuna rivoluzione, e nemmeno un serio tentativo di rivoluzione (anche se vi sono state non poche situazioni rivoluzionarie) in un Paese imperialista. Se ne deduce che le idee che ci possiamo fare al riguardo sono piuttosto vaghe. Le tesi di minoranza però pongono meritatamente una questione di metodo, al quale le tesi di maggioranza non rispondono: l'apparato dello stato è riformabile? Noi pensiamo francamente di no. Se di esempi di rivoluzione nei Paesi imperialsiti non ve ne sono, ancor di più latitano esempi di stati riformati radicalmente, per esempio nei loro apparati repressivi (quando ciò è avvenuto è stato a seguito di una sconfitta militare, come per la Germania e il Giappone, e ciò ha portato a una perdita di autonomia in quel settore controllato da altre potenze dominanti e/o occupanti). La non riformabilità sostanziale dello stato da parte dei soggetti sociali oppressi deve essere apertamente dichiarata dai comunisti, non certo per farne un terreno di agitazione, e nemmeno per trarne la scusa per rinunciare a richieste di democratizzazione degli apparati statali (sindacalizzazione dell'esercito, ecc.), ma perché si tratta di un elemento fondamentale di educazione politica dei comunisti: così come affermiamo che il capitalismo non è riformabile (pur non rinunciando alle lotte per le riforme), allo stesso modo dobbiamo avere tale consapevolezza nei confronti dello stato capitalista.

Nelle tesi di minoranza però quello che per certi versi è un merito per la chiarezza (rivoluzione uguale a presa del potere) per altri è un'estrema riduzione. E su questo ci sentiamo più vicini alle tesi di maggioranza. Se pensiamo alle tre crisi rivoluzionarie conosciute dall'Italia (biennio rosso, resistenza/immediato dopoguerra, prima metà degli anni '70) non possiamo non scorgerne il carattere processuale, anche se ci pare evidente che il limite di questi processi è stato quello di non essere sfociati in una sedimentazione delle conquiste acquisite, possibili solo con la conquista del potere politico. La presa del potere dunque non è una specie di colpo di stato, ma un atto conclusivo e allo stesso tempo un nuovo inizio realizzato dalle vaste maggioranze di un Paese che certo non possono arrivare a questo stadio di consapevolezza senza aver maturato prima esperienze concrete, significative e durevoli di contropotere. Inoltre non consideriamo affatto la presa del potere una condizione sufficiente per la rivoluzione dei rapporti sociali, che è la rivoluzione che a noi interessa. La rivoluzione nei rapporti di genere ad esempio ha assai poco a che vedere, di per sé, con la presa del potere. Educare i militanti al processo rivoluzionario (nella chiarezza e nella consapevolezza dell'irreformabilità dello stato borghese) significa non abituarsi a rimandare la rivoluzione a un mitico e lontano momento, ma costruirne già oggi le condizioni, privilegiando i rapporti con i movimenti di massa, dai quali dobbiamo anche imparare, senza pensare che il partito sia il custode della verità con l'esclusivo compito di pedagogo unilateriale.


Stralci dalle
Tesi di maggioranza

"La globalizzazione neoliberista, in sostanza, non si lascia né umanizzare né riformare né, più di tanto, temperare: il fallimento della Terza Via, venuto ad evidenza politica nelle esperienze di centrosinistra europee e americane, ha alle sue radici questa verità strutturale. Ed infatti i suoi stessi protagonisti l'hanno depennata dal vocabolario politico.
A questo livello delle contraddizioni del nostro tempo si colloca la nascita del movimento antiglobalizzazione, primo frutto maturo della crisi dell'economia e della civiltà globalizzata. Sia pure in forme ancora embrionali questo movimento pone il problema dell'alternativa, di una possibile uscita in avanti dalla barbarie del neo liberismo e della sua crisi. In questo contrasto di fondo si riapre la questione della trasformazione, del superamento del capitalismo: la rivoluzione torna ad essere una possibilità, un approdo possibile della storia umana."

"Un secondo elemento che caratterizza la necessità di un partito comunista è quello di porre l'obiettivo della trasformazione, cioè della costruzione di una società contraddistinta da un nuovo modo di produzione e da istituti democratici qualitativamente superiori a quelli storicamente sperimentati. Essa si prospetta oggi come una costruzione profondamente diversa sia dall'idea insurrezionalista della presa del potere, sia dall'ipotesi strategica riformista (una sequenza di riforme di struttura e di conquiste legislative): in larga misura, va reinventata, sperimentata, verificata nella pratica, in un processo che sarà giocoforza complesso ed originale e che non si lascia certo scrivere a tavolino. Noi, oggi, possiamo soltanto prefigurare una transizione che, per un verso, si avvale di strumenti peculiari della storia del movimento operaio (dall'attivazione del conflitto sociale e territoriale alla "pratica dell'obiettivo"), per l'altro verso, si fonda su una dialettica permanente tra rappresentanza istituzionale e forme di autogoverno, tra poteri centrali e contropoteri diffusi, tra partiti e movimenti. Non ci sarà "la" rottura, ci saranno molti e diversi momenti di rottura. Non ci sarà, forse, "la" sintesi, ma momenti significativi di ricomposizione e unificazione."

"Nella determinazione storica del comunismo italiano, della sua originalità e relativa autonomia, il contributo gramsciano appare di straordinaria attualità. Non soltanto per l'analisi concreta che ci fornisce della società italiana , ricchissima di sollecitazioni non interamente esplorate, non soltanto per la "guida" che ci prospetta sui temi del rapporto tra politica e cultura (e tra etica e politica), ma per l'idea di rivoluzione che ne è alla base, che nega in radice l'autonomia del Politico. La rivoluzione non come pura conquista del potere politico, o delle leve di governo, ma come processo di rivoluzionamento che coinvolge l'insieme delle relazioni sociali e della loro qualità. La rivoluzione come lunga marcia, costruzione di "casematte", trasformazione e autotrasformazione."

"In una prospettiva di transizione, la conquista del potere politico centrale resta, certo, un passaggio ineludibile,: non, tuttavia, come un punto di partenza dal quale avviare il mutamento dei rapporti economici e sociali, ma come la tappa pur rilevante di un percorso di trasformazione politica e sociale più ricco e articolato. Come una rottura che definisce, contestualmente un terreno di lotta più favorevole, gli strumenti del proprio controllo sociale, la possibilità della propria estinzione. In questo senso, il comunismo è anche un'idea radicale di democrazia."

Vedi TESI 3/TESI 48/TESI 52/TESI 55


Stralci dalle
Tesi di minoranza

"Quand'anche consentiti da condizioni eccezionali di prosperità economica e da grandi movimenti di massa, i governi riformatori sono stati sempre, senza eccezione, avversarsi dei lavoratori: le stesse concessioni riformatrici, talora strappate dalla pressione di massa, sono state elargite in funzione del contenimento delle spinte più radicali dei movimenti e della conservazione della società borghese."

"La crisi capitalistica e il crollo dell'URSS, nella loro combinazione, hanno eroso i presupposti materiali delle concessioni riformatrici in Occidente quali erano maturate nel secondo dopoguerra. Ovunque le classi dominanti lavorano a riprendersi con gli interessi quanto in precedenza avevano concesso."

"In particolare va riconosciuto onestamente, in questo quadro, il profondo errore compiuto dal nostro partito nel sostegno all'esperienza del governo Jospin in Francia."

"Nessun nuovo ordine sociale, nessun socialismo, potrà affermarsi all'ombra dell'apparato dominante dello Stato borghese. Né è pensabile che quell'apparato possa essere strumento delle classi subalterne nella transizione ad una società di liberi e di eguali. Al contrario la rottura dell'apparato statale e il suo rovesciamento rappresentano la condizione necessaria di un processo di liberazione sociale. In questo senso la rottura dell'apparato statale borghese è il principio fondante della concezione stessa della rivoluzione. E viceversa l'evocazione della categoria della rivoluzione fuori dal richiamo strategico alla rottura rivoluzionaria con lo Stato si riduce ad una "frase scarlatta" priva di ogni contenuto reale."

In questi anni il nostro partito ha assunto come proprio orizzonte programmatico d'intervento, un orizzonte di riforma della società capitalistica in direzione di un modello di sviluppo non liberista. Ogni rivendicazione immediata, dalla tassazione dei BOT alle 35 ore, ai diritti dei lavoratori, è stata ricondotta a un programma di riforma indicato come terreno realistico di un'alternativa di società oggi "possibile", e di una "sinistra plurale" di governo che la persegua. La rivendicazione della "Tobin Tax" per un'"Europa sociale" è l'esemplificazione attuale di questa impostazione .

"L'impostazione programmatica dell'intervento di classe va allora esattamente rovesciata. I comunisti non possono assumere come proprio orizzonte i cosiddetti obiettivi "tangibili e possibili". Debbono invece costruire la propria politica sulla spiegazione costante che nessun serio obiettivo di progresso sociale può essere raggiunto e consolidato senza mettere in discussione in ultima istanza i rapporti di proprietà e di potere. Non si tratta affatto, com'è ovvio, di rinunciare alle rivendicazioni immediate ed elementari, che anzi vanno articolate e ricomposte in una precisa proposta d'azione (vertenza generale). Si tratta di spiegare, sulla base dell'esperienza pratica dei lavoratori, che ogni riforma, ogni eventuale conquista parziale, ogni eventuale difesa di vecchie conquiste può realizzarsi solo come sottoprodotto di uno scontro generale con la società capitalistica e i suoi governi (comunque colorati). E che solo la rottura dei rapporti capitalistici, solo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, basato sulla loro forza organizzata, può dischiudere una reale alternativa di società."

Vedi Tesi 5/Tesi 6/Tesi 7/Tesi 30