Contro il Liceo Classico.
Modello di scuola elitaria e meritocratica contrapposto alla formazione professionale cui sono destinati i proletari. REDS. Settembre 2001.


In un altro articolo di questo numero della rivista abbiamo trattato la questione della parità scolastica, asse portante della politica scolastica del governo della Casa delle Libertà, secondo le linee tracciate al meeting di CL dalla ministra della pubblica istruzione italiana (vedi Libertà di scelta e attacco alla Costituzione). Ora ci occupiamo di un altro argomento sollevato nella stessa sede da Letizia Moratti: il ruolo del liceo classico, che ritiene fondamentale "per la capacità di insegnare a ragionare in maniera logica e critica e perché è importante la memoria del nostro passato e delle nostre tradizioni" (La Repubblica, 25 agosto). Il liceo dunque è l'elemento di eccellenza in un disegno più ampio di riforma scolastica: "La nostra scuola dovrebbe essere costruita con due sottosistemi: formazione scolastica e formazione professionale. La grande sfida che ci troviamo di fronte è quella di creare un canale formativo continuativo tra i 14 e i 21 anni, che sia un canale di vera formazione professionale" (il manifesto, 25 agosto) (1).

Il centrodestra intende azzerare tutte le conquiste degli anni settanta in campo scolastico per riproporre una scuola decisamente classista nella quale, per dirla con le parole del segretario della CGIL Scuola Enrico Panini "da un lato c'è la formazione scolastica che prepara all'università e dall'altra, per i meno capaci o i meno abbienti, quella professionale che porta al mondo del lavoro senza alcuna possibilità di modificare il percorso strada facendo" (il manifesto, 25 agosto). Siamo sempre stati molto polemici con Panini, ma in questo caso - anche se non ci piace l'accostamento tra meno capaci e meno abbienti, anzi non ci piace per nulla che si ragioni in termini di più o meno capaci - ha ragione da vendere. È proprio questo il modello a cui mira la destra: una scuola d'élite, meglio se privata, il cui accesso è facilitato dal buono-scuola, per le classi dirigenti; una scuola pubblica che si pretende e si vuole dequalificata e la formazione professionale per i proletari e i figli dei disoccupati. Un intellettuale organico della borghesia quale Angelo Panebianco l'ha più volte suggerito sulle pagine del Corriere in una serie di editoriali tra la fine del 1999 e gli inizi del 2000. (2)

Quando la borghesia parla di scuola di qualità intende scuola meritocratica e classista. Il nemico dichiarato è l'egualitarismo sociale e culturale, che secondo gli ideologi del centrodestra si incarna nel monopolio pubblico statale con tutte le sue inefficienze. Si legge nel manifesto per una Scuola libera!, sottoscritto da Panebianco, Moratti, Vittadini, Romiti e molti altri esponenti del mondo laico, cattolico e imprenditoriale: "Il mito della scuola uguale per tutti è l'alibi di una crescente inefficienza per tutti che si risolve in una formidabile fonte di ineguaglianza di opportunità". E poco sopra: "i cittadini hanno interesse a veder garantita a ciascuno l'istruzione. Ma soprattutto hanno interesse che questa sia la più idonea a fornire loro una seconda garanzia: quella dell'ingresso nel mondo del lavoro". E ancora: "Noi riteniamo che siano in coerenza con l'iniziativa che sollecitiamo e con il bene delle nostre strutture scolastiche: a) ogni riforma che favorisca la differenziazione dei percorsi formativi contro la tendenza all'omogeneizzazione sin qui seguita; b) la realizzazione, in particolare, di un serio canale di formazione professionale. La sua mancanza costituisce un gap dell'Italia rispetto agli altri Paesi europei. La sua realizzazione consentirebbe, tra l'altro, di riconquistare allo studio [quale tipo studio? N.d.R.] tanti giovani (la maggioranza) che oggi lo abbandonano; c) ogni intervento volto a migliorare seriamente la qualità dell'insegnamento e la reintroduzione di criteri che valorizzino il merito nella scuola e la coerenza dei diversi percorsi scolastici". Tradotto: Il modello del "doppio canale", rigido e paternalistico, scolastico e universitario per i borghesi e i meritevoli, professionale e lavorativo per i proletari è la soluzione alla scuola dequalificata.

L'ipocrisia di tutti questi discorsi sta non tanto nel modello in sé, che come tutti i modelli è opinabile, quanto nella presupposizione implicita e falsa che i giovani a 14 anni abbiano effettiva libertà di scelta e non siano invece condizionati dalla famiglia, dall'ambiente, dal grado di autostima raggiunto e da numerosi altri fattori psicologici, sociali e morali. Secondo i vari Giovanardi, Aprea, Panebianco e compagnia bella c'è chi "vuole" o "decide" o "ha le capacità" per studiare e chi "vuole" o "decide" di andare a lavorare. Il grave è che questa "ideologia" (così la chiamiamo perché su questa premessa si fonda e si giustifica una linea politica) trova alimento e sostegno in un ipocrita senso comune piccolo-borghese, profondamente radicato anche tra gli stessi insegnanti, che non di rado scaricano le responsabilità della crisi reale della scuola sulla capacità e sulla volontà di applicazione e di studio dei loro studenti.

Fiore all'occhiello di una scuola di qualità di questo tipo è il liceo classico, la cui rivalutazione ha una fortissima valenza simbolica e pratica, ed è assolutamente funzionale all'intera strategia politica. Le parole di Moratti non sono nuove. Gennaro Malgieri, deputato di AN nella passata legislatura sosteneva che con la riforma dei cicli Berlinguer-De Mauro "è facile prevedere soprattutto la morte del liceo classico, sia pure camuffato nell'indirizzo umanistico, non potendo la nuova struttura colmare soddisfacentemente l'esigenza di una formazione classica complessiva. Al liceo, infatti, per come lo abbiamo conosciuto, non si acquisisce un patrimonio di competenze professionali immediatamente spendibili, ma un abito mentale, una coscienza critica, un'attitudine allo studio ed alla conoscenza che non possono essere differiti negli anni universitari, nei quali lo studente deve applicare alle più diverse discipline il metodo di lavoro appreso sui banchi di scuola. La riforma del classico, ridotto ad un mero indirizzo, mette a rischio di estinzione il latino ed il greco".
Questa storia delle tradizioni, del latino e del greco, dello sviluppo delle capacità logiche e critiche è una vera bufala, usata come pretesto e giustificazione culturale di una politica scolastica reazionaria, che è sommamente ingiusta anche nelle sue semplici affermazioni di principio. Anche ammettendo la validità di quelle argomentazioni, perché solo i pochi che frequentano il liceo classico dovrebbero avere la fortuna di essere educati "a ragionare in maniera logica e critica" (Moratti), di acquisire "un abito mentale, una coscienza critica, un'attitudine allo studio ed alla conoscenza"?! Non è forse questo un diritto di ogni cittadino di un paese che pretende di essere civile e progressista? Evidentemente progresso culturale e civile e progresso economico non corrispondono non solo nella realtà ma neppure nelle intenzioni dei nostri governanti di destra e dei loro paladini, intellettuali e non. Se come dichiarano il liceo classico va tutelato perché educa alla critica, va da sé che altri insegnamenti non lo fanno e secondo loro è giusto che non lo facciano. Questo poi viene giustificato con le capacità e le attitudini dei singoli, o con il progetto educativo e di vita - come va di moda oggi dire (3) - che si pretende liberamente scelto ma che invece è determinato dai valori imposti della società borghese: arricchimento, successo, consumo. Valori che spingono a frotte i giovani delle classi popolari, col beneplacito delle famiglie, a preferire il lavoro alla scuola perché consente di guadagnare e di spendere, se non addirittura, nei casi peggiori, di rispondere ad esigenze primarie di sussistenza. Altro che "ineguaglianza di opportunità" che il modello di scuola egualitaria porterebbe necessariamente in sé (4). È vero piuttosto che un principio scolastico avanzato sul piano egualitario entra inevitabilmente in crisi se collocato in una società fondata sull'ineguaglianza. E il fallimento delle politiche scolastiche del centrosinistra sono in gran parte frutto dell'errore di fondo di aver rinunciato a modificare la società.

La difesa del classico, la separazione tra istruzione e formazione professionale, la limitazione degli accessi all'università sono dunque funzionali alla conservazione degli assetti sociali esistenti. Quando i signori e le signore del centrodestra parlano di scuola e di università dimostrano di considerare i giovani e gli studenti catalogabili in due categorie fondamentali (il cui numero corrisponde guarda caso alle due classi portanti della società capitalista): quelli preparati e quelli impreparati, o se si vuole quelli che hanno le capacità, la voglia e le attitudini e quelli che non ci arrivano o gli scansafatiche. Non tengono assolutamente conto (e perché dovrebbero?) delle condizioni di partenza, delle origini sociali e/o geografiche che, come riconoscono gli studi sociologici più seri, predeterminano il successo o l'insuccesso scolastico fin dai primi anni, per una molteplicità di fattori. E' fin troppo facile osservare che tra gli studenti lazzaroni o incapaci ci sono moltissimi borghesi, che non si spezzano certo la schiena sui libri negli anni del liceo, né soprattutto dell'università, preferendo all'impegno gli svaghi e i divertimenti garantiti dai soldi di papà, ma che comunque cadranno sempre in piedi, trovando prima qualcuno che gli faccia la tesi (pagando s'intende) e collocandosi poi grazie alle conoscenze in ambiti lavorativi di prestigio, non certo in fabbrica. L'istruzione di qualità necessaria all'elevazione culturale e civile dei cittadini è riservata ai pochi, quelli che nascono in una determinata famiglia, che appartengono a quella classe sociale e che saranno i quadri della società, la classe dirigente. Agli altri istruzione professionale, lavoro flessibile e precario, obbedienza. E' una bella innovazione quella che ci propongono: un salto all'indietro di cent'anni.

Questa visione élitaria e meritocratica della scuola non è però esclusivo appannaggio dei ceti conservatori e borghesi. Essa ha ed ha avuto numerosi sostenitori e una propria tradizione anche nella sinistra italiana, e tra i suoi esponenti spicca guarda caso un latinista come Concetto Marchesi (5). In un discorso al 5° congresso del PCI del 1946, dopo aver citato Gramsci e difeso il latino traeva conclusioni che potrebbero essere scritte dallo stesso Panebianco e dalla stessa Moratti: "Passati i limiti della scuola obbligatoria, giunti sulle soglie della scuola specializzata, della scuola professionale, della scuola media superiore, si deve iniziare l'opera salutare di selezione che Quintino Sella, il vecchio statista piemontese, auspicava senza vederne i modi e la possibilità di attuazione, quest'opera di selezione la quale deve consistere nel dirigere e nell'avviare tutte le attitudini e le capacità dei singoli individui verso quelle vie in cui possono più degnamente operare e progredire. Selezionare non vuol dire costituire la folla degli umiliati e dei reietti, vuol dire disperdere la folla degli spostati e per spostati intendo semplicemente coloro ai quali le facoltà naturali indicano altre strade degnissime di opera e di profitti che non siano quelle delle scuole superiori".
Le stesse riforme di Berlinguer (che pensiamo non disprezzasse l'insegnamento di Marchesi), accusate di svilire l'istruzione classica, e alle quali ci siamo sempre fermamente opposti, erano anch'esse comunque improntate a uno spirito meritocratico (6). Vogliamo perciò chiudere questa riflessione richiamando il pensiero di Gramsci - quello stesso pensiero gramsciano che è stato spesso stravolto per sostenere il contrario (7) - che ci sembra esprimere chiaramente e compiutamente la nostra opposizione al liceo classico, inteso come scuola per élites, e alle discipline che ne compongono il curricolo, considerate materie altamente formative.
In uno scritto degli anni trenta ora raccolto nei "Quaderni del carcere", col titolo Per la ricerca del principio educativo, Gramsci rifletteva su come avrebbe dovuto essere la scuola post-gentiliana, la scuola della futura società italiana civile e democratica, liberata dalla tirannia fascista e dal dominio borghese. In merito allo studio del latino e del greco così si esprimeva (il grassetto è nostro): "Nella vecchia scuola lo studio grammaticale delle lingue latina e greca, unito allo studio delle letterature e storie politiche rispettive, era un principio educativo in quanto l'ideale umanistico, che si impersona in Atene e Roma, era diffuso in tutta la società, era un elemento essenziale della vita e della cultura nazionale. [...] Ciò non vuol dire (e sarebbe inetto pensarlo) che il latino e il greco, come tali, abbiano qualità intrinsecamente taumaturgiche nel campo educativo. E' tutta la tradizione culturale, che vive anche e specialmente fuori della scuola, che in un dato ambiente, produce tali conseguenze. Si vede, d'altronde, come, mutata la tradizionale intuizione della cultura, la scuola sia entrata in crisi e sia entrato in crisi lo studio del latino e del greco. Bisognerà sostituire il latino e il greco come fulcro della scuola formativa e lo si sostituirà, ma non sarà agevole disporre la nuova materia o la nuova serie di materie in un ordine didattico che dia risultati equivalenti di educazione e formazione generale della personalità, partendo dal fanciullo sino alla soglia della scelta professionale".
E quasi a voler anticipare le critiche alla meritocrazia e all'élitarismo di Marchesi e di quanti come lui, di destra o di sinistra, ne rivendicano i fondamenti educativi, si scagliava contro la differenza tra studi disinteressati e studi interessati, finalizzati gli ultimi alle professioni, ritenendoli quanto di più antidemocratico vi potesse essere. Per Gramsci "lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere (o apparire ai discenti) disinteressato, non avere cioè scopi pratici immediati o troppo immediati, deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete. Nella scuola attuale, per la crisi profonda della tradizione culturale e della concezione della vita e dell'uomo, si verifica un processo di progressiva degenerazione: le scuole di tipo professionale, cioè preoccupate di soddisfare interessi pratici immediati, prendono il sopravvento sulla scuola formativa, immediatamente disinteressata. L'aspetto più paradossale è che questo nuovo tipo di scuola appare e viene predicata come democratica, mentre invece essa non solo è destinata a perpetuare le differenze sociali, ma a cristallizzarle in forme cinesi. [...] Se si vuole spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare o graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria (elementare-media) che conduca il giovinetto fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come persona capace di pensare, di studiare, di dirigere, o di controllare chi dirige".
Con le inevitabili differenze nelle scansioni temporali, tenendo presente che circa settant'anni sono passati da allora, ecco che viene ribadito che le capacità logiche e critiche, lungi dall'essere la caratteristica degli studi classici, debbono costituire invece il bagaglio culturale di base di tutti i cittadini, per determinare una effettiva e consapevole libertà di scelta, che non sia quindi limitata a priori dalle proprie condizioni sociali.


NOTE

1) Questo passaggio, ambiguo e reticente, è meglio chiarito da altri esponenti della coalizione di maggioranza, perché quella della centralità del liceo e soprattutto della collegata differenziazione strutturale tra formazione scolastica e formazione professionale non sono argomenti nuovi, ma costituiscono un cavallo di battaglia nella politica scolastica delle destre. Valentina Aprea, sottosegretaria alla P.I., in suo intervento alla Camera dai banchi dell'opposizione alla fine del 2000, quando si discuteva il programma di attuazione della riforma dei cicli del centrosinistra, sosteneva: "Forza Italia non ha condiviso e non condivide l'idea di un unico sbocco dopo il primo ciclo [che termina a 13 anni, N.d.R.], che diventa addirittura liceale per tutti, anche per coloro che dopo il primo biennio decidano di approdare all'istruzione professionale. Noi abbiamo sostenuto e sosteniamo l'esigenza di un doppio canale di formazione che possa prevedere l'esistenza anche nel nostro paese di un'istruzione professionale iniziale di pari dignità, ma alternativa al canale scolastico". Le fa eco nella stessa sede Carlo Giovanardi del CCD, che auspica "l'attivazione del «doppio canale» nel rapporto di interazione tra sistema d'istruzione e sistema di formazione professionale, in cui quest'ultimo sia autonomo, graduato e abilitato all'assolvimento anche dell'obbligo a partire dal quattordicesimo anno di età". In altre parole, i giovani a 14 anni devono scegliere se proseguire gli studi o intraprendere quello che un tempo si chiamava "avviamento professionale". Un'idea fortemente classista della scuola! Infatti conclude Giovanardi rivolto polemicamente al governo di allora: "terrete nella stessa aula ragazzi che vogliono continuare gli studi scolastici e coloro che vogliono avvicinarsi alla formazione professionale". (Fonte: Scuolanews n° 1, 15 febbraio 2001).

2) Volendo difendere e aumentare la qualità del sistema scolastico e universitario italiano, intaccata a suo dire nei fatti da una istruzione monopolizzata dallo stato, fortemente determinata dal sindacato e infine seriamente minacciata dalle riforme del centrosinistra, lancia la sua accusa: "la «Riforma Educativa» del centrosinistra appare ispirata all'idea di uno scambio fra quantità e qualità. Dopo aver preparato il terreno con continue geremiadi sul basso numero di diplomati e di laureati in Italia rispetto al resto d'Europa [...] si è deciso di aumentare - a tutti i costi, con qualunque mezzo - il numero di diplomati e di laureati. È questa, infatti, la vera filosofia ispiratrice. Per ottenere il risultato, naturalmente, ci si deve adattare a una contrazione delle «pretese», a un drastico abbassamento della qualità e del livello culturale del sistema educativo" (29 dicembre 1999). Egli quindi dopo aver sostenuto che "appellarsi al principio di sussidiarietà, e valorizzare la concorrenza fra scuole statali e scuole non statali, può servire, al tempo stesso, la causa della libertà e quella dell'efficienza" (30 ottobre 1999), ribadisce la necessità di "selezionare gli accessi" all'università, per "spingere i
diplomati della scuola superiore che arrivano in Università, a scegliere solo quei corsi di studi che la loro effettiva preparazione scolastica consente, verosimilmente, di frequentare con profitto" (12 gennaio 2000).

3) Vedi Scuola libera!: "Fermo restando il necessario rispetto del ruolo docente, genitori e figli sono chiamati a contribuire alla realizzazione del progetto educativo apportando la propria domanda di educazione e la propria esperienza di vita".

4) Ibidem.

5) In un'intervista pubblicata dal Politecnico del 6 ottobre 1945 dice: "Penso che a poco a poco, si possa e si debba giungere a ottenere, con una serie di provvidenze, che tutti i veramente meritevoli abbiano accesso agli studi. [...] Lo studente deve venir mantenuto a spese dello Stato. Ma un numero limitato di studenti, per ogni specialità, e molte specialità. Bisogna chiudere buona parte delle scuole, sia medie sia universitarie, e sostituirle con altre di nuovo tipo e di diversi, molteplici generi. Penso che per il rinnovamento della società italiana sia basilare ottenere una severa selezione e un'ampia specializzazione. [...] Dovranno compiere studi superiori solo coloro che hanno per lo studio una inclinazione naturale: e saranno certamente sufficienti per ora ai bisogni della società".
Gli rispondeva Vittorini sullo stesso numero della rivista: "Quando Marchesi propone di portare subito a un complesso di otto anni l'istruzione (gratuita e obbligatoria) egli può anche avere la più generosa e progressiva concezione della scuola. Ma quando poi aggiunge che bisogna chiudere buona parte delle scuole medie e universitarie per ridurre a un minimo di "veramente capaci" i frequentatori di tali scuole e ottenere una "severa selezione" negli studi, egli mostra di condividere le preoccupazioni di chi ancora concepisce gli studi non altro che come un mezzo per formare i "quadri" della società. [...] Ma vi è molto di più che la scuola può insegnare: la scuola può insegnare tutto quanto occorre all'uomo per diventare soggetto di cultura e di coscienza, di libertà, di capacità creativa e di fede nel progresso civile. [...] Ma è nell'interesse della civiltà che anche il più umile lavoratore manuale si trovi, di fronte ai libri, di fronte alle opere di arte, di fronte al pensiero scientifico e filosofico, di fronte alle ideologie politiche, di fronte ad ogni ricerca e ad ogni esperimento della cultura, nelle stesse condizioni di assimilabilità in cui funzionalmente si trova l'ingegnere, il medico o il professore. [...] Sul terreno della scuola il problema fondamentale, anzi essenziale, non può essere altro che quello di fornire a tutti i mezzi della conoscenza, e rendere tutti armati, attrezzati, preparati nello stesso modo per accostarsi ai libri e alle opere d'arte, e partecipare alle ricerche della cultura". Che è l'esatto opposto della scuola meritocratica ed elitaria!

6) Quando Berlinguer risponde alle critiche che gli vengono mosse sul liceo classico non lo fa prendendo le distanze da esso, ma caso mai richiamando la necessità di un più stretto legame tra sapere tecnico-scientifico e sapere umanistico: "Il liceo classico non ha da essere salvato, perché costituisce un ramo di assoluto valore nell'ambito della scuola italiana [...] Ma soprattutto un moderno umanesimo non può contrapporre le lettere alle scienze [...] La nostra più grande tradizione culturale scientifica valorizza le scienze umane non a discapito di quelle sperimentali e matematiche [...] Bisogna finirla con il taglio gentiliano che assicura il bene delle lettere ad un'élite e relega scienza e tecnica in un ambito subalterno diretto ai pratici e non ai dirigenti" (La Repubblica, 25 agosto).
In questa risposta in fondo dimostra anch'egli di essere preoccupato del tipo di contenuti culturali ai quali debbono essere educate le élites e non della necessità di una più ampia e democratica divulgazione di questi contenuti.

7) Nel citato discorso al 5° Congresso del P.C.I. Concetto Marchesi richiama Gramsci per difendere il latino, e ne sostiene la validità con argomenti non dissimili da quelli di Moratti e Malgieri (AN): "esso impone un continuo controllo allo scolaro il quale non può andare avanti se ha dimenticato quello che ha prima imparato. Ma la difficoltà, la noia, la fatica sono alla base di ogni sentiero che porta verso l'alto". E per assicurare che non parla "per amore del latino" ricorre a un paradosso: "se io fossi sicuro che il giuoco degli scacchi potesse portare a uguali risultati, opterei per il giuoco degli scacchi". Perché no, diciamo noi, visto che il gioco degli scacchi educa sicuramente anch'esso al ragionamento, alla meditazione, all'autocontrollo, alla memorizzazione, alla previsione, alla strategia, ecc!