La giustizia in tempo di guerra.
Impunità diffusa, prigionieri politici, desaparecidos.


di Roberto De Maria e Christian Elevati, marzo 2003
Introduzione

Nel dicembre del 1994, dopo quasi un anno di guerra in Chiapas, terminò il mandato presidenziale di Salinas de Gortari e divenne presidente del Messico Ernesto Zedillo, il quale si dichiarò disposto ad aspettare "giorni, settimane, mesi" pur di raggiungere un accordo di pace in Chiapas.

Sempre nel dicembre del 1994 il Governo Federale decise di riconoscere la Commissione Nazionale di Intermediazione (CONAI), capeggiata da Samuel Ruiz, Vescovo di San Cristòbal de Las Casas e formata da eminenti personalità messicane, come organismo di mediazione con l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN).

Purtroppo però, nonostante le promesse di conciliazione, all’inizio del 1995 Zedillo diede avvio a una campagna diffamatoria nei confronti dell'EZLN, accusandolo di volere la guerra e non la pace, cui fece seguire in febbraio un ordine di offensiva militare contro le Comunità zapatiste, giustificandolo con l'esigenza del "recupero della sovranità nazionale".

L'offensiva fu molto violenta e caratterizzata da detenzioni di decine di civili accusati di "zapatismo", assassinii, violazioni dei diritti e saccheggi di villaggi, che causarono oltre trentamila sfollati (si veda a tal proposito l’articolo Chiapas: una storia che ci riguarda).

Con l’offensiva militare Zedillo decretò e diede il via alla persecuzione dei dirigenti zapatisti e delle migliaia di basi d’appoggio dell’EZLN, oltre all’invasione militare della Selva Lacandona ancora in corso. Contemporaneamente diede inizio ad una campagna di controinsurgencia che prevedeva la creazione di gruppi paramilitari (a conferma di ciò, si consulti l’articolo Lo stato d’assedio del Chiapas). Da allora decine di persone hanno perso la libertà per il semplice fatto di essere sospettati di sostenere l’EZLN, accusati di delitti totalmente inventati per nascondere le ragioni politiche degli arresti. Mentre i veri responsabili degli omicidi e delle stragi, come quella di Acteal (22 dicembre 1997), rimangono tutt’oggi impuniti.

Situazione generalizzata di impunità

Uno dei problemi più importanti che il Messico deve ancora considerare e risolvere è quello della giustizia: esiste poca credibilità in essa e un alto grado di impunità.

Il governo messicano ha firmato diversi trattati internazionali, tra cui la Dichiarazione Americana dei Diritti e Doveri dell’Uomo (nel 1948 in seno all’Organizzazione degli Stati Americani) e la Convenzione Americana sui Diritti Umani, sottoscritta nel 1969 da 25 Paesi americani, i quali crearono la Corte e la Commissione Interamericana dei Diritti Umani. Nonostante l’adozione di tali strumenti per la tutela dei diritti umani, il sistema giuridico non è mai stato adeguato a quanto sottoscritto in questi trattati né tantomeno la prassi operativa degli organi di giustizia ne tiene conto. La conseguenza è che, di fatto, i diritti umani in Messico non sono rispettati nemmeno nei tribunali e nelle carceri.

Si considerino, a titolo di esempio, due eventi emblematici.

Il primo risale alla prima visita in Chiapas della Commissione Civile Internazionale di Osservazione dei Diritti Umani (di seguito CCIODH).

Il 21 febbraio 1998 la CCIODH incontrò i rappresentanti di diverse comunità del nord del Chiapas e tra questi José Tila Lòpez Garcìa, che marciò per più di sei ore per consegnare agli osservatori testimonianze e denunce sulla situazione dei diritti umani nella zona.

Durante il ritorno, José e le persone che l’accompagnavano nella strada che va da Jolnixtié a Emiliano Zapata furono intercettati da otto membri pesantemente armati del gruppo paramilitare Desarrollo, Paz y Justicia, che spararono numerosi colpi di arma da fuoco sul gruppo causando un morto (José Tila) e diversi feriti (secondo il rapporto dei sopravvissuti, tra cui lo stesso padre di José Tila).

Sempre secondo i sopravvissuti, gli assassini furono Eulalio Lòpez Garcìa della comunità di Panxcuc e sette individui della comunità La Libertad. Una lista con i loro nomi fu consegnata alla segreteria della CCIODH che la presentò alla Procura Generale della Repubblica. Dopo più di quattro anni e malgrado gli ordini di cattura emessi, i responsabili non solo sono ancora in libertà ma continuano tranquillamente a vivere nella comunità di Jolnixtié.

Il secondo episodio riguarda nuovamente il gruppo di paramilitari Desarrollo, Paz y Justicia, il più organizzato e diffuso sul territorio chiapaneco.

Nell’aprile del 2001 undici loro esponenti furono inspiegabilmente liberati dalla Procura Generale della Giustizia dello stato del Chiapas, nonostante le schiaccianti prove a loro carico. La stessa Procura, però, non fece nulla per la scarcerazione di tre contadini zapatisti della stessa regione, allora in carcere già da sei anni (negli istituti penali di Tacotalpa e Villahermosa), nonostante le numerose irregolarità verificatesi in sede di processo.

Inutili le richieste di destituzione di Armando del Río Leal, allora a capo della "Unità Specializzata riguardo ai Delitti Commessi da Presunti Gruppi di Civili Armati", il cui atteggiamento relativamente al processo a Paz y Justicia, nel migliore dei casi, fu negligente.

Ma anche per i cittadini messicani o per i rappresentanti di associazioni internazionali risulta assai pericoloso collaborare con gli organismi che si preoccupano di verificare e denunciare tale situazione. A titolo di esempio, durante la terza missione della CCIODH (febbraio-marzo 2002) attivisti italiani, spagnoli, tedeschi e austriaci furono sottoposti a pesanti intimidazioni.

Accadde dopo la visita all’Aguascalientes di Morelia, che si trova nei pressi della città chiapaneca di Altamirano. Tre individui bloccarono il furgoncino su cui viaggiavano, ponendovisi davanti lungo la strada e gesticolando come se fossero ubriachi. Successivamente scattarono delle foto e presero nota della targa e, prima di lasciare libero il passaggio, ruppero l’antenna-radio del furgone e picchiarono con violenza sul parabrezza del veicolo col preciso obiettivo di romperlo. Se a ciò si aggiunge che i poteri dello Stato si ostinano a ignorare tutto il lavoro di raccolta di denuncie e di testimonianze svolto dalle associazioni locali e internazionali di difesa dei diritti umani, si può capire a che livello sia il rispetto per la Legge in Chiapas.

L’impunità generalizzata, oltre a rappresentare una palese ingiustizia e a mostrare quanto illegale e clientelare sia la gestione del potere, ha aperto la possibilità a rappresaglie nei confronti delle Comunità zapatiste. Chiunque può massacrare, torturare, cacciare dalle loro terre gli indigeni senza più nessuna preoccupazione di essere punito in base a quanto previsto dalla legge.

Ma non vi potrà mai essere pace in Chiapas se non sarà garantita la legalità e se chi ha commesso delitti può agire nella certezza di rimanere impunito.

Prigionieri politici, tortura e ostacoli nell’accesso alla giustizia

Nonostante il governo dello stato del Chiapas affermi che non esistono prigionieri politici, la CCIODH ha raccolto testimonianze su persone recluse per reati di opinione tanto nelle Comunità zapatiste quanto nelle visite alle diverse carceri.

Secondo Miguel Ángel de Los Santos, avvocato dell’associazione "La voce di Cerro Hueco" (costituitasi nell’agosto del 1996 per iniziativa di alcuni detenuti politici del carcere di Tuxla Gutierrez, capitale del Chiapas), "le autorità legislative e amministrative della giustizia si comportano sempre con evidente parzialità".

Quasi sempre chi accusa appartiene al partito politico al potere e chi è arrestato risulta essere una base d’appoggio dell’EZLN o un simpatizzante di partiti dell’opposizione. Gli esponenti del PRI, che conservano posizioni chiave all’interno del governo messicano anche dopo la sconfitta a favore del PAN di Vicente Fox, non vengono arrestati o comunque godono di un trattamento di favore.

Lo schema accusatorio utilizzato contro indigeni ritenuti basi di appoggio dell’EZLN è sempre lo stesso: un militante del partito di governo si presenta di fronte ad un funzionario del Pubblico Ministero per denunciare un delitto commesso nella sua zona. Il funzionario, con una rapidità estranea alla gestione quotidiana della macchina giudiziaria, informa immediatamente il giudice e sollecita l’ordine di arresto; il giudice risponde con altrettanta rapidità, senza curarsi di verificare la verità dell’impianto accusatorio, comunicando l’ordine di arresto alla Polizia Giudiziaria dello Stato, che viene appoggiata in questo compito dalle centinaia di poliziotti della Sicurezza Pubblica dello Stato, dalla Polizia Giudiziaria Federale, dall’Esercito Federale e dagli Agenti dell’Istituto Nazionale per l’Immigrazione.

In conclusione, le indagini sono parziali e incomplete, le testimonianze infondate oltre che inverosimili, le detenzioni illegali e le garanzie individuali per un giusto processo (in particolare, la "presunzione di innocenza", cioè il fatto che ogni imputato è innocente fino a dimostrazione del contrario) costantemente negate, per non parlare delle pesanti pene che su queste basi sono comminate a persone totalmente innocenti.

Per quanto riguarda gli indigeni, infine, si aggiunge un’ulteriore violazione dei diritti: durante i processi non è quasi mai presente un traduttore (dallo spagnolo alla lingua dell’indigeno e viceversa).

Emblematico, a questo proposito, il caso di Adolfo López Vázquez, indigena Chol, processata per omicidio: non ha mai incontrato un traduttore dalla sua prima dichiarazione. Il giudice che seguì il processo affermò che Adolfo non aveva bisogno di traduttore perché parla benissimo lo spagnolo; del resto, aggiunse, "anche la mia domestica è Chol e parla benissimo lo spagnolo".

Alcuni dei prigionieri intervistati hanno dichiarato che la confessione dei loro reati gli fu estorta con la tortura. La terza CCIODH ha raccolto, del resto, molte prove del fatto che la tortura è ancora praticata in Chiapas. A triste conferma di ciò citiamo il recente Rapporto (giugno 2002) presentato dalla Commissione Nazionale messicana sui Diritti Umani (CNDH), in base al quale l’impiego della tortura da parte dell’esercito e delle forze di polizia è in aumento in Messico. Occorre sottolineare che tale denuncia arriva da una Commissione introdotta con la riforma costituzionale del 1992 con il preciso compito di sorvegliare ogni violazione che provenga da autorità federali (procure, polizie federali ecc.), anche in ambiti quali la salute o l’educazione. In Chiapas, a San Cristòbal de Las Casas è stata creata una sede speciale della Commissione, che di fatto funge da intermediazione fra gli indigeni e gli organi di giustizia federali in merito alle violazioni dei diritti perpetrate dall’esercito messicano.

L’inchiesta della CNDH sottolinea come nei primi sei mesi del 2002 abbia ricevuto 16 denuncie per tortura, contro le 9 dell’anno passato. Inoltre, facendo riferimento a tutte le denuncie per tortura presentate fra il 1988 e il 1999, il Rapporto entra nel dettaglio, fornendo una serie di dati inquietanti, che si riportano sinteticamente qui di seguito:

  • MEZZI DI TORTURA: nel 67,8% dei casi le torture consistevano in pestaggi a mani nude, con pietre oppure oggetti contundenti;
  • MINACCE: nel 74,5% dei casi la vittima ricevette minacce contro se stesso e i suoi famigliari;
  • OBIETTIVI DELLA TORTURA: nel 91% dei casi il proposito dei torturatori era quello di ottenere una determinata dichiarazione o confessione; nel 4,7% alla vittima veniva chiesto denaro in cambio della liberazione; nel 3,8% dei casi si cercava una falsa testimonianza per incolpare un’altra persona;
  • PRESUNTI RESPONSABILI DELLE TORTURE (in base alle denuncie): nel 38% dei casi, agenti della scomparsa Polizia Giudiziaria Federale (PJF); nel 21,6% dei casi, membri della Polizia Giudiziaria dei diversi stati messicani; nel 15,6% dei casi, membri dell’esercito; nel 15,3% dei casi, personale di penitenziari e di centri di detenzione; nel restante 8,7% dei casi si trattava di pubblici ufficiali di altre dipendenze.

Le raccomandazioni contenute nel Rapporto della CNDH per monitorare con maggiore precisione e per debellare il fenomeno della tortura sono molto esplicite.

Innanzitutto, impedire che qualsiasi membro del servizio pubblico accusato di tortura sia indagato dalla stessa istituzione di cui fa parte; in altre parole, il processo deve essere a carico di un’altra istituzione (si veda, a tal proposito, nel penultimo paragrafo, come ciò non stia affatto accadendo nel caso dei desaparecidos). Il Segretario Esecutivo della Commissione, Francisco Olguìn, durante la conferenza stampa di presentazione del Rapporto aggiunse che in un Paese ove non sia possibile combattere ed eliminare la pratica della tortura non è possibile garantire né la democrazia né uno stato di diritto. Sostenne inoltre che non basta potenziare e favorire la raccolta delle denuncie, ma occorre anche rendere certe la compensazione e la riparazione del danno subito da parte delle vittime, oltre che garantire servizi di riabilitazione psico-sociale e fisica a coloro che hanno subito questa pratica degradante.

Le condizioni di detenzione

Nel corso delle visite ai carceri abbiamo costatato che le condizioni di detenzione sono disastrose: sovraffollamento, scarsa salubrità e arbitrarietà nei trasferimenti sono i maggiori problemi riscontrati.

Gli istituti penali in Chiapas prendono il nome di CERESO, acronimo che sta per Centros de Readaptación Social. Nel carcere di Cerro Hueco, il più grande dello Stato, vivono ammassati più di mille detenuti, mentre la struttura è in grado di accoglierne trecento. Vi sono celle di 4 metri per 6 in cui convivono 18 detenuti, i bagni sono collettivi e la disponibilità di acqua potabile è incostante. Nelle brande delle celle i detenuti sono spesso obbligati a dormire seduti uno di fianco all’altro, senza possibilità di stendersi.

I detenuti soggetti a custodia cautelare, ancora in attesa di giudizio, sono incarcerati nelle stesse celle dei condannati. Non esiste nemmeno distinzione di trattamento fra coloro che sono stati riconosciuti colpevoli di delitti gravi e coloro che invece stanno scontando una pena per delitti meno gravi.

Le attività lavorative previste per il reinserimento dei detenuti sono carenti; laddove esistono, per esempio, falegnamerie, mancano i materiali e le attrezzature necessarie a farle funzionare.

Il servizio medico è insufficiente e mancano i farmaci necessari alla cura dei malati. I detenuti indigeni, inoltre, sono spesso trattati con un certo disprezzo dagli stessi dottori. Anche i medicamenti per la cura di ferite e lesioni sono carenti.

In conclusione, i diritti dei detenuti sono continuamente violati. Gli arrestati sono trattati come delinquenti benché la sentenza di colpevolezza nei loro confronti non sia stata ancora pronunciata e i benefici previsti dalla legge in relazione alle forme alternative alla detenzione non sono applicati.

Desaparecidos

Al contrario di quanto generalmente si crede, il problema dei desaparecidos (scomparsi) non è localizzato esclusivamente in Argentina, nella quale, ricordiamo, tra il 1976 e il 1983 sparirono nel nulla oltre 30.000 persone.

A titolo di esempio, si consideri che in Guatemala mancano all’appello circa 35.000 tra uomini e donne e che anche il Messico, seppure con numeri decisamente più contenuti, non è estraneo al fenomeno.

Si stima che nel corso degli anni ‘70-80 nell’intera America latina siano scomparse oltre 90.000 persone, sempre per mano di governi militari appoggiati (quando non imposti) dagli USA.

Nel corso della nostra missione in Messico abbiamo avuto la fortuna di conoscere e intervistare Rosario Ibarra de Piedra, che fu anche deputata al Parlamento Federale e candidata alla Presidenza della Repubblica. Rosario Ibarra è la madre di Jesùs Piedra Ibarra, un desaparecido scomparso il 18 aprile 1975 e la fondatrice del Comité EUREKA!, organizzazione non governativa che, grazie alla sua intensa attività, nel solo anno 1978 ha potuto "liberare" 148 desaparecidos. "Liberare" perché in Messico i desaparecidos non sono stati sistematicamente assassinati, come accadeva in Argentina, ma spesso erano reclusi in luoghi sconosciuti.

Ancora oggi in Messico si contano più di 500 desaparecidos.

Rosario Ibarra sostiene che i responsabili principali di questo fenomeno siano i presidenti della Repubblica e i maggiori esponenti delle forze armate, con la complicità delle forze politiche al potere (PRI e PAN), allo scopo di spaventare il popolo, seminare il terrore tra i messicani e paralizzare la protesta sociale. Del resto, sono solo loro che hanno il potere per fare accadere tutto ciò e sono sempre e solo loro quelli che non possono non sapere che cosa stesse accadendo.

Molte delle persone sequestrate dall’esercito sono state portate via sulla base di accuse improbabili di narcotraffico o di stampa di dollari falsi. Fra i desaparecidos si contano anche ufficiali dell’esercito, agenti giudiziari e spie governative evidentemente invise al governo di volta in volta in carica. Da notare che l’associazione EUREKA! non fa distinzioni nelle sue ricerche: che siano esponenti dell’esercito macchiatisi di terribili delitti o giovani studenti universitari, per tutti chiede al governo una risposta.

I nomi di chi ha fatto scomparire più di 500 persone sono noti e l’associazione EUREKA! ne possiede una lista dettagliata. Anche a Fox è stata posta la domanda sullo stato delle indagini sui desaparecidos, ma il Presidente ha visto bene di delegare la risposta a un suo segretario, il quale ha glissato, finendo per parlare d’altro.

Rosario Ibarra, a causa del suo impegno civile e politico, è stata vittima di pesanti minacce, soprattutto quando accettò di candidarsi alla Presidenza. In particolare, ricevette in totale 40 pagine di intimidazioni. Rosario denunciò immediatamente e pubblicamente la situazione, coinvolgendo anche Amnesty International, e le minacce cessarono.

È di questi giorni la notizia che presso le case dei famigliari di desaparecidos dello stato di Guerrero (in particolare nelle città di Atoyac, Acapulco e Chipancingo) sono cominciate ad arrivare citazioni da parte della Procura Generale di Giustizia Militare (PGJM) affinché si presentino a testimoniare sulle detenzioni-sparizioni occorse a loro parenti durante l’azione dell’esercito contro il gruppo armato ribelle comandato da Lucio Cabañas negli anni ’70. Tali detenzioni-sparizioni vedono implicati, come risulta da circa 200 denuncie, i generali dell’esercito Francisco Quirós Hermosillo e Mario Arturo Acosta Chaparro Escapite, così come il Maggiore Francisco Javier Barquín Alonso, ma con l’accusa di "omicidio", e non di "sparizione violenta di persona" o, in altre parole, di essere i responsabili dei desaparecidos. I famigliari dei desaparecidos sono terrorizzati: si chiedono come sia possibile che l’esercito, accusato dei delitti appena descritti, oggi sia lo stesso che investiga su ciò che hanno commesso trent’anni fa alcuni dei suoi ufficiali. I familiari, infatti, consegnarono le loro denuncie alla Procura Generale della Repubblica (PGR) e non certo alla Procura Generale di Giustizia Militare, che invece sta ora seguendo le indagini. Se la PGR si è dichiarata "non competente" a seguire questi casi, avrebbe dovuto passare le 200 denuncie alla giurisdizione speciale per i desaparecidos e non certo alla Giustizia Militare, implicata nell’inchiesta.

I famigliari degli scomparsi hanno così deciso di fare appello alla Commissione Interamericana dei Diritti Umani (CIDH) e alla Commissione dei Diritti Umani dell’Onu, annunciando inoltre che si riservano di ricorrere alla Commissione Nazionale messicana dei Diritti Umani (CNDH). Secondo Enríque González, avvocato dell’AFADEM (Associazione Famigliari Detenuti Scomparsi), il governo messicano sta cercando di chiudere la questione desaparecidos nel modo meno doloroso possibile per i colpevoli, come in Argentina: "non stanno investigando per fare luce sulle scomparse violente di persone, ma cercano soltanto di punire semplici omicidi". In questo modo tutto ciò che ha portato alle centinaia di desaparecidos rimarrà ancora avvolto nell’oscurità e i numerosi responsabili, materiali e soprattutto politici, impuniti.

Fortunatamente la storia del Messico (e di tutta l’America Latina) degli ultimi trent’anni dimostra il fallimento di questa insulsa e deprecabile strategia governativa. Non solo nessuno "ha dimenticato" o è stato paralizzato dal terrore, ma la rabbia e il desiderio di giustizia si sono estesi a macchia d’olio, allargando la partecipazione.

Diritti degli immigrati

Le condizioni dell’immigrazione attraverso la frontiera sud sono allarmanti.

La CCIODH ha ricevuto molteplici denunce secondo le quali tanto i criminali quanto gli agenti dell’autorità sarebbero responsabili di reati di furto, violazione, maltrattamento, tortura e traffico di persone, così come della detenzione di migranti (anche minori) che possono durare per lunghi periodi in caserme militari, in condizioni che non ottemperano le norme stabilite dall’ONU.

Nella visita a Tapachula risultò preoccupante la presenza e l’intervento di forze militari nell’ambito civile, così come le precarie condizioni nei centri di deportazione.

Prevalgono inoltre la corruzione e l’impunità di alcuni degli elementi di molti corpi di sicurezza pubblica, tra i quali l’esercito e la marina, che illegalmente e con la tolleranza o il consenso del governo federale e, malgrado le denunce e le richieste della società civile, si intromettono nella questione immigrazione per trarne vantaggio.

 

Roberto De Maria (robertodm@virgilio.it)

Christian Elevati (ailender@tiscali.it)

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