Due casi emblematici di repressione violenta e di impunità.
L’assassinio dell’avvocatessa Digna Ochoa e l’incarceramento del Generale Josè Francisco Gallardo.


di Roberto De Maria e Christian Elevati, luglio 2003

Con la speranza di contribuire alla soluzione pacifica del conflitto armato in Chiapas, dal 15 febbraio al 3 marzo 2002 si è svolta in Messico la terza Commissione Civile Internazionale di Osservazione dei Diritti Umani (CCIODH).

Sulla base di quell’esperienza, in collaborazione con REDS gli autori hanno scritto una serie di mini-dossier con l’obiettivo di fornire un quadro il più possibile completo della situazione a chi per ragioni politiche, umanitarie o personali desideri avvicinarsi alla ribellione zapatista in Chiapas. Dopo un breve escursus storico sul significato della ribellione zapatista (Chiapas: una storia che ci riguarda), si sono successivamente approfonditi l’organizzazione sociale e le condizioni di vita delle comunità indigene (Le comunità zapatiste del Chiapas) e lo stato d’assedio militare cui sono sottoposte (Lo stato d’assedio in Chiapas), si è scritto dell’impunità generalizzata di cui godono militari e paramilitari, dell’uso della tortura da parte delle istituzioni federali e statali, dell’esistenza di prigionieri politici e di desaparecidos (La giustizia in tempo di guerra), tracciando infine la cornice macroeconomica della ribellione (Lo scenario macroeconomico della ribellione indigena in Chiapas: il Plan Puebla-Panamà).

Per comprendere meglio quali sono le conseguenze sulla vita quotidiana di migliaia di civili, basi d’appoggio oppure semplici simpatizzanti dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), concludiamo questo percorso riferendo di due casi drammatici di persecuzione politica: il caso di Digna Ochoa, avvocatessa uccisa per la sua attività di difensore di attivisti per i Diritti Umani, e la storia del generale Francisco Gallardo, incarcerato ingiustamente per il suo atteggiamento critico nei confronti del ruolo assunto da esercito e forze di polizia in Chiapas e in Messico.

PRIMA PARTE: L’ASSASSINIO DI DIGNA OCHOA Y PLÁCIDO

Hanno pubblicato su "La Jornada" il profilo di Digna, il suo modo di pensare e le sue attività, dicendo che il suo lavoro era contro il Governo. Ma la sua unica colpa fu di andare contro tutte le atrocità.
Jesús Ochoa, fratello di Digna.

Il riconosciuto cammino nazionale e internazionale di Digna Ochoa a favore del rispetto dei diritti umani, le reiterate minacce e intimidazioni che ha sofferto e la maniera brutale in cui è stata assassinata, trasformano questo abominevole crimine in un pericoloso precedente che destabilizza l’ambiente politico e sociale del paese.
Rigoberta Menchù Tum, Premio Nobel per la Pace

Digna Ochoa: avvocatessa per la difesa dei Diritti umani

Digna Ochoa lavorava per denunciare le violazioni dei diritti umani, collaborando per la maggior parte dei casi da lei seguiti con il Centro Miguel Augustin Pro Juarez (di seguito PRODH).

Il Messico è tristemente famoso per le violenze commesse dall’Esercito, dalle cosiddette forze di sicurezza e dai paramilitari: abusi di potere, tortura, omicidi, rapimenti e desaparecidos. Gli stessi attivisti per i diritti umani si trovano a lavorare in un contesto estremamente difficile, fatto di intimidazioni e minacce di morte.

Digna Ochoa, prima di essere uccisa con due colpi di arma da fuoco sparati alla testa e a una gamba, era già stata oggetto di pesanti minacce e maltrattamenti a partire dal 1996. Eccone solo alcuni esempi:

  1. Nell’ agosto del 1996 lei e l’avvocatessa Pilar Noriega ricevettero minacce scritte di morte con il seguente messaggio: "Tutti i membri del PRODH moriranno, specialmente questa coppia di avvocati";
  2. Nell’ agosto del 1999, venne rapita fuori casa e sequestrata per circa quattro ore;
  3. Nell’ottobre del 1999 venne legata a una sedia e interrogata nella sua casa per nove ore sui suoi clienti e sui loro possibili collegamenti con i gruppi ribelli (EZLN, EPR e ERPI). Al termine dell’interrogatorio, prima di andarsene, aprirono una bombola del gas e la lasciarono legata mani e piedi, ma non in modo tale che Digna non potesse liberarsi e salvarsi, come di fatto fece.

I clienti più noti di Digna Ochoa erano due ecologisti dello stato di Guerrero, Rodolfo Montiel e Teodoro Cabrera, arrestati con l’accusa di porto d’armi e spaccio di droga nel maggio del 1999. I due dichiaravano invece di essere stati arrestati semplicemente perché combattevano i devastanti piani di sviluppo del Governo e delle multinazionali nel Guerrero. Raccontarono inoltre di essere stati torturati per più giorni dopo l’arresto. Anche Amnesty International si era interessata al loro caso, dichiarandoli esplicitamente "prigionieri di coscienza", totalmente estranei ai reati loro attribuiti.

La risonanza a livello internazionale delle sue battaglie (vinse, fra gli altri, un premio speciale di Amnesty International, l’Enduring Spirit Award) mise la vita di Digna Ochoa sempre più in pericolo, tanto che la Corte Interamericana dei Diritti Umani (CIDH), il 17 novembre del 1999, emise una risoluzione che ordinava con urgenza al Governo Messicano di proteggere lei e altri elementi del PRODH con interventi di sicurezza concreti, e di procedere a serie indagini sugli autori delle azioni intimidatorie. Il Governo messicano rispose con interventi di facciata, cercando costantemente di convincere la Corte ad abbandonare tale risoluzione, che comunque rimase in vigore per diversi mesi.

Nel 2000, di fronte a ulteriori e reiterate minacce, dietro suggerimento del PRODH, Digna Ochoa si rifugiò per qualche mese a Washington, dove lavorò presso il Centro per la Giustizia e la Legalità Internazionale. Nell’aprile 2001 tornò in Messico, formalmente separando la sua attività da quella del PRODH, ma continuando a occuparsi di casi di gravi violazioni. Fu in questo contesto che assunse la difesa dei fratelli Cerezo Contreras, accusati di avere fatto esplodere delle bombe di fronte a succursali della Banamex (una banca) a Città del Messico. I fratelli erano sospettati di appartenere a un piccolo gruppo di terroristi marxisti, le Forze Armate Rivoluzionarie del Popolo (FARP).

Il 31 maggio 2001 il governo messicano, sostenendo di avere iniziato a svolgere le indagini richieste dalla CIDH e di non avere ricevuto per mesi denunce di minacce da parte di Digna Ochoa, chiese che la risoluzione per la protezione dell’avvocatessa venisse sospesa. Il 22 agosto dello stesso anno, con l’assenso di Digna Ochoa e del PRODH, la Corte confermò che le azioni di tutela avevano raggiunto il loro obiettivo e non oppose obiezioni sulla loro sospensione.

Venerdì 19 ottobre 2001 Digna Ochoa viene assassinata.

Sul suo corpo gli assassini si preoccupano di lasciare una minaccia di morte a tutti gli attivisti del Centro. La prima apparizione davanti alla corte dei due fratelli Cerezo Contreras da lei difesi era prevista per il lunedì successivo.

Il direttore del PRODH, il gesuita Edgar Cortez, affermò che l’assassinio di Digna Ochoa dimostra ancora una volta e in modo terribile che l’impunità in Messico ha tolto ogni significato alla parola "giustizia" e ha ricordato che il caso di Digna Ochoa è solo la punta di un iceberg: sono centinaia le violenze subite dagli osservatori e dai difensori dei diritti umani ogni anno (per non parlare di quelle subite dagli indigeni). Solo a titolo di esempio, un altro avvocato è stato dato alle fiamme presso la propria abitazione e un altro ancora è stato quasi ammazzato da un’automobile lanciata a tutta velocità.

Il contesto politico e l’andamento delle indagini

Digna Ochoa venne uccisa in un frangente politico molto particolare: la sconfitta del Partito Rivoluzionario Istituzionalizzato (PRI), rimasto al potere per oltre 70 anni in Messico, a favore del Partito di Azione Nazionale (PAN) guidato dall’attuale Presidente della Repubblica, Vicente Fox. Il suo assassinio e il modo in cui sono state e vengono tuttora svolte le indagini per risalire ai colpevoli, hanno reso evidente che di "nuovo" in Messico non vi è nulla sul piano del rispetto dei diritti umani e della giustizia. Basti pensare che a distanza di anni dalle promesse di Fox, di aprire inchieste sui passati abusi di potere dell’Esercito e delle forze dell’ordine e di sradicare la corruzione all’interno del Governo, non è stata nemmeno creata una Commissione d’inchiesta degna di questo nome. Più recentemente, la Procura Generale della Giustizia è arrivata persino a ipotizzare il suicidio come causa della morte di Digna.

I giorni successivi all’assassinio sono cruciali per comprendere le modalità e il clima in cui si svolsero le indagini. Cercheremo di sintetizzarli, dando spazio agli eventi a nostro giudizio più significativi.

Al funerale di Digna Ochoa era presente tutta la comunità dei difensori dei diritti umani, che durante la cerimonia chiese a gran voce "giustizia!". Notevole il fatto che al funerale, invece, non partecipò nessun funzionario del Governo Federale e del Distretto Federale (DF, lo Stato di Città del Messico), e nemmeno si presentò il direttore della Commissione Nazionale dei Diritti Umani.

Il direttore del PRODH chiese un intervento forte del presidente Fox e, nello stesso tempo, manifestò il suo rifiuto del fatto che la PGR assumesse le indagini del caso, visto che la PGR già nel maggio archiviò, senza individuare i colpevoli, le denunce di minaccia subite da Digna negli anni precedenti.

Il Procuratore Generale del DF, Bernardo Batiz, in base ai primi dati emersi dalle indagini affermò che il crimine fu commesso da più di una persona, la porta dell’ufficio di Digna non fu forzata e non vennero trovati segni di disordine o di violenza nel luogo.

Il fatto ebbe risonanza internazionale e uscirono alcuni articoli sul New York Times, The Washington Post e Los Angeles Times. Il governo Bush, tramite il portavoce del Dipartimento di Stato Philip Reeker, condannò decisamente l’assassinio e invitò il governo messicano a investigare a fondo e punire i responsabili. Analoghe condanne e inviti giunsero dal direttore della divisione americana di Human Rights Watch e da un totale di 82 ONG.

Fox rispose pubblicamente che il governo messicano condannava "nel modo più energico" l’assassinio di Digna Ochoa e ribadì il suo totale appoggio alle autorità del DF perché giungessero fino alle ultime conseguenze nella risoluzione del caso. Si impegnò altresì affinché i difensori dei diritti umani e le organizzazioni civili potessero contare su tutte le garanzie costituzionali.

Il capo del Governo del DF, Andrés Manuel Lòpez Obrador, disse che la Procura della capitale avrebbe assicurato protezione ai membri del PRODH; nel frattempo il Procuratore Batiz affermò che nelle indagini non escludeva di chiamare a deporre membri dell’Esercito e di sollecitare la collaborazione delle Procure degli Stati di Guerrero e del Chiapas.

Il capo della PGR, il generale Machedo de la Concha, prese le distanze dall’archiviazione delle indagini sulle minacce a Digna Ochoa semplicemente affermando che il caso fu seguito e archiviato dall’amministrazione a lui precedente, nel novembre del 2000. Un articolo apparso su La Jornada smentì tale dichiarazione, confermando invece che l’archiviazione del caso Ochoa da parte della PGR risaliva al maggio del 2001, cioè pochi mesi prima del suo assassinio, ed era contestuale alla richiesta di sospensione della risoluzione della CIDH per le forme di protezione della sua incolumità e di quella di altri membri del PRODH.

Da sottolineare che a tale richiesta di risoluzione, come già anticipato, Digna e gli attivisti del PRODH diedero il loro assenso. Perché? Forse perché lei e i suoi colleghi avevano capito che era inutile farsi proteggere da coloro che archiviavano senza ragione i casi di violenze subiti e che proteggevano i veri colpevoli.

Il 25 ottobre 2001 anche l’ONU scese in campo: prima il rappresentante speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite, poi, in una dichiarazione congiunta, la rappresentante dei Difensori dei Diritti Umani e dei Relatori speciali sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie, il responsabile della commissione contro la tortura e quello della commissione sull’indipendenza dei magistrati e degli avvocati.

Partendo dalla condanna pubblica di Fox, sottolinearono che, al di là delle parole, occorreva investigare a fondo e immediatamente, con l’obiettivo di portare davanti alla giustizia i responsabili, senza perdere tempo.

Il giorno successivo il Procuratore Batiz affermò che il crimine fu un atto dell’estrema destra.

Fox, dopo aver riunito le ONG impegnate nella tutela dei diritti umani in Messico, che lamentavano la tarda reazione del Governo all’assassinio, offrì di aprire gli archivi del Governo Federale al fine di contribuire alla risoluzione delle indagini e ordinò l’apertura di un tavolo di lavoro sulle investigazioni a cui partecipassero le stesse ONG.

Fonti interne alla PGR informarono il quotidiano "La Jornada" che il 9 ottobre del 2000, solo 14 giorni dopo che la procura del DF girò alla PGR le indagini sul sequestro e le minacce di cui fu oggetto Digna nel 1999, la PGR considerò che il caso dovesse avviarsi verso l’archiviazione, cosa che avvenne l’8 novembre del 2000.

I Senatori del PAN, di fronte a tale notizia, chiesero che la PGR e l’Esercito venissero coinvolti nelle indagini sulla morte di Digna Ochoa. Ma Fox, nel corso del suo programma radiofonico settimanale, rifiutò ogni accusa pregiudiziale che attribuisse alle istituzioni del Governo Federale il crimine della morte di Digna Ochoa, trattandosi molto più probabilmente, sempre secondo il Presidente, di un delitto attribuibile alla delinquenza comune.

Nello stesso giorno il New York Times sostenne in un editoriale che l’atteggiamento di Fox nella difesa dei diritti umani fosse troppo "timido" e che l’assassinio dell’avvocatessa aveva tutte le caratteristiche di una "esecuzione politica realizzata da potenti gruppi di interesse che possono confidare nel fatto di poter agire impunemente, come hanno fatto sempre".

Alla fine di ottobre 2001 il Procuratore Batiz annunciò che il PRODH sarebbe stato chiamato a supportare le sue indagini. Ai primi di novembre i membri del consiglio consultivo della Commissione per i Diritti Umani del DF (CDHDF) diedero otto giorni di tempo alla Procura del DF per presentare un dossier sugli autori materiali e intellettuali dell’omicidio; in caso contrario, la Procura avrebbe dovuto passare le indagini a organismi internazionali, come la CIDH.

L’obiettivo della CDHDF, visti i suoi limiti di potere, era più che altro quello di denunciare la lentezza e l’inconsistenza delle indagini. Il 2 novembre la Rete Nazionale di Associazioni "Tutti i Diritti per Tutti" denunciarono le minacce di anonimi a cinque attivisti e chiesero con urgenza interventi a loro protezione. Il Procuratore Batiz rispose che gli autori delle minacce sarebbero stai indagati contestualmente agli autori, ancora ignoti, dell’omicidio dell’avvocatessa e che le indagini preliminari sarebbero state svolte dalla PGR, la quale si sarebbe anche preoccupata di tutelare i difensori dei diritti umani. La reazione del PRODH fu dura: accusò la Procura di muoversi in modo incostituzionale, per la sua decisione di porre dei militari a protezione della vita di membri di una organizzazione civile.

La cronaca delle indagini potrebbe proseguire indefinitamente e con le stesse modalità fino ai nostri giorni. Da una parte la lotta per la giustizia della società civile, delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani nazionali e internazionali e di una minoranza della classe politica, dall’altra il governo messicano, con rimbalzi di responsabilità da parte dei diversi organismi istituzionali, proclami politici di facciata mai seguiti da concrete azioni per trovare i colpevoli e garantire giustizia, continue minacce e violenze ad avvocati e difensori dei diritti umani, indagini svolte dagli stessi organismi governativi e militari coinvolti nell’omicidio ecc.

Ciò che rimane è che Digna Ochoa aveva 37 anni e il suo omicidio poteva essere evitato.

Oltre sei anni di sue denunce per le minacce e per le torture da lei subite non hanno ottenuto mai come effetto l’apertura di indagini che portassero a identificare e a processare i colpevoli, i quali hanno continuato ad agire indisturbati, forti della certezza dell’impunità.

Oggi una parte del governo e dei mezzi di comunicazione cerca di denigrarla, di diffamarla e nel contempo la macchina della giustizia fa di tutto per insabbiare le indagini, nelle quali sono implicati agenti dello Stato e del Governo, incluse autorità appartenenti all’Esercito (in particolare, al Centro di Investigazione e Sicurezza dello stato Nazionale - CISEN) e alla Procura Generale della Repubblica (PGR).

Il 17 marzo 2003, a un anno e mezzo circa dall’assassinio di Digna Ochoa, il giudice speciale per le indagini sull’omicidio, Margarita Guerra, ha dichiarato che vi saranno dei risultati concreti sul caso "in tre o quattro mesi". Nel contempo ha aggiunto che l’ipotesi del suicidio non è stata scartata, così come altre linee di indagine, e che non ne esiste una che pare essere più attendibile delle altre.

Stralcio dell’intervista a Digna Ochoa della II Commissione Civile Internazionale per l’Osservazione dei Diritti Umani (CCIODH) sui suoi sospetti relativamente alle minacce e alle violenze subite

CCIODH: Ci puoi raccontare quello che ti è successo? Chi ti ha molestato?

DIGNA: Anch’io vorrei sapere chi mi molestò, però... noi pensiamo: o servizi segreti militari, o la Polizia Federale Preventiva (PFP), o la PGR o il CISEN. Probabilmente uno di questi gruppi.

Primo, perché hanno tutta un’infrastruttura, sono professionali, e bisogna considerare anche l’escalation delle aggressioni [si vedano le aggressioni descritte all’inizio del presente articolo, ndr].

Io penso che potrebbero essere i servizi segreti militari, per varie ragioni. Fra di esse, perché negli ultimi tempi stavamo lavorando, insistendo nell’integrazione delle indagini preliminari e affinché si trovassero i responsabili dei fatti che stavano commettendo. Penso che possa venire da lì. Sfortunatamente non abbiamo nessuna prova che dia un indizio chiaro per poter affermarlo apertamente. Questo ci limita moltissimo.

Noi pensiamo che siano le autorità a doversi occupare delle indagini; noi non abbiamo la capacità di mettere in piedi un’indagine. Diverse autorità, come la PGR, hanno detto "non si tratta dei nostri", quando sappiamo che non hanno un controllo totale dei loro uomini, quando vediamo che sono implicati in numerosi fatti criminali, di delitti comuni e soprattutto di delinquenza organizzata, a cui stanno partecipando diversi corpi di polizia. Anche la Gobernaciòn ha detto: "non si tratta dei nostri".

Nessuno ammette che si tratta di loro uomini; sarebbe molto ingenuo pensare che, per esempio, la Gobernaciòn dica che i colpevoli vadano ricercati nella Polizia Federale Preventiva!... soprattutto ora che stanno subendo una pressione molto forte da parte di tutti i mezzi di comunicazione, i quali chiedono chiarezza sui fatti. Abbiamo la speranza che un giorno sarà fatta chiarezza, soprattutto per attribuire la responsabilità agli autori di questi fatti.

SECONDA PARTE: L’INCARCERAMENTO DEL GENERALE JOSE’ FRANCISCO GALLARDO RODRIGUEZ

"La liberazione del generale Francisco Gallardo non avvenne riconoscendo la sua innocenza ma travisando la legge, pur di soddisfare gli organismi internazionali e non infastidire la gerarchia dell’esercito".
Subcomandante Insurgente Marcos, gennaio 2003

José Francisco Gallardo Rodrìguez era un generale di brigata dell’esercito messicano.

Nel 1993, dopo la pubblicazione sulla rivista "Forum" della sua tesi "Le necessità di un Ombudsman militare in Messico", fu accusato di diffamazione, ingiurie e calunnie contro l’Esercito Messicano e, il 9 novembre 1993, incarcerato e condannato a 28 anni di reclusione.

Secondo le autorità militari messicane, Gallardo era colpevole perché riteneva necessaria l’istituzione di un Ombudsman per le forze armate, vale a dire di un organismo di mediazione, neutrale e sopra le parti, a cui la popolazione civile potesse rivolgersi in caso di abuso di potere da parte dell’esercito.

Laureato in scienze politiche e Pubblica Amministrazione, una volta conseguito il dottorato in "Pubblica Amministrazione e Ombudsman, teoria e analisi politica, prospettiva politica e scenari strategici internazionali", divenne docente militare e membro della scorta presidenziale, oltre che conferenziere in diversi Pesi, ricevendo numerosi premi e decorazioni durante i trent’anni di servizio nelle forze armate messicane.

Ciononostante, non solo fu condannato sulla base di accuse infondate, ma fu anche privato dei titoli e del grado militare.

L’incarceramento del generale Gallardo, "prigioniero di coscienza" secondo Amnesty International, contraddiceva pesantemente le parole spese dal presidente Fox in tutto il mondo, subito dopo il suo insediamento nel dicembre 2000, a favore del rispetto dei diritti umani in Chiapas e in Messico. Come se la sola intenzione di "cambiare rotta" rispetto al passato fosse già, di per sé, un reale cambiamento della situazione.

Così, anche a seguito di forti pressioni nazionali e internazionali, tra cui 30.000 lettere provenienti da 22 paesi, raccomandazioni della Corte Interamericana dei Diritti Umani e dell’Organizzazione degli Stati Americani, nel novembre del 2001 il governo Fox offrì l’indulto a Gallardo che lo rifiutò, perché ciò avrebbe significato accettare le accuse di colpevolezza.

Nel Rapporto annuale 2001 di Amnesty International, oltre ad affermare che la tortura è ancora diffusa in Messico, nel paragrafo "prigionieri di coscienza" si scrive testualmente che "il Generale José Francisco Gallardo sconta il settimo dei 28 anni di condanna. E’ stato condannato da una corte militare per una serie di reati militari a seguito della pubblicazione di un articolo che richiedeva la nomina di un ombudsman militare in Messico. Nel 1996 la Commissione Interamericana dei Diritti Umani raccomandò al governo messicano l’immediata scarcerazione".

Durante gli otto anni di detenzione, oltre alla scarcerazione la Corte Interamericana dei Diritti Umani raccomandò al governo messicano di adottare le misure necessarie a proteggere il generale Gallardo, in considerazione del fatto che la sua vita e integrità personale erano in "grave pericolo".

Anche in un documento della Commissione Messicana di Difesa e Protezione dei Diritti Umani si parla di una situazione "di urgente e grave pericolo per la vita e l’integrità personale del Generale".

In risposta, il governo messicano informò che, "in applicazione della risoluzione della Corte Interamericana di Diritti Umani", era stato deciso ed eseguito il trasferimento di Gallardo dal carcere di Neza-Bordo al carcere di Chalco.

I familiari dell’ex generale ricordano che sin dal 1996 la Commissione Interamericana dei Diritti Umani decise che Gallardo doveva essere liberato, però il governo non rispettò questa decisione, sfidando apertamente il sistema americano di protezione dei diritti umani al quale, perlomeno formalmente, il Messico aderisce.

Finalmente, il 7 febbraio 2002, Gallardo ottenne la scarcerazione per effetto di una riduzione di pena, senza che gli venisse restituito il grado militare e il risarcimento del danno economico e morale subito. Accettò questa opzione perchè gli permise di uscire dal carcere e di dedicarsi alla battaglia per dimostrare la sua innocenza.

Intervistato, qualche settimana dopo la liberazione, dalla terza Commissione Civile Internazionale di Osservazione dei Diritti Umani in Messico (CCIODH), affermò che l’esercito, assumendo funzioni della vita civile che non gli competono, è l’attore principale delle violazioni dei diritti umani in Messico. Aggiunse anche che per porre fine all’impunità occorre incaricare del problema la giustizia civile in luogo di quella militare e aprire gli archivi governativi.

Oggi Gallardo collabora con gli organismi, nazionali e internazionali, di osservazione e protezione dei diritti umani in Messico.

Recentemente, il 6 maggio 2003, nel corso di un dibattito contro la militarizzazione ha affermato che "in Chiapas il potere reale è nelle mani dell’esercito federale, per rispondere agli interessi del Pentagono e acquisire armi che non sono necessarie al Paese".

Sostenendo che "la militarizzazione è l’antitesi della pace", ha argomentato dicendo che "non si può ottenere giustizia e democrazia in una pozza di sangue e impunità", e che "la partecipazione attiva dei militari nella vita civile contraddice uno dei principi universali degli stati moderni e democratici".

In particolare, "la presenza militare in attività di competenza dell’autorità civile ha sconvolto l’ordine istituzionale e giuridico dello Stato, con la conseguenza di gravi violazioni dei diritti umani e delle libertà dei messicani".

Riguardo la formazione e l’uso governativo dei gruppi armati paramilitari, Gallardo sostiene che "una delle strategie principali dell’esercito messicano nel conflitto armato chiapaneco è quella dei gruppi paramilitari", creati e utilizzati per "materializzare la guerra di bassa intensità", con la quale l’esercito messicano vuole destabilizzare la struttura sociale delle comunità indigene non solo in Chiapas, ma anche negli stati di Veracruz, Oaxaca e Guerrero. Tutto ciò, aggiunge, è "parte dell’accordo realizzato durante la campagna elettorale dal presidente Fox con i gruppi di interesse stranieri".

Infatti "non è un’ipotesi che l’esercito messicano è legato con i gruppi paramilitari. E’ documentato". E dichiara che "effettivi dell’esercito messicano sono stati addestrati in accademie militari non solo negli Stati Uniti ma anche in Israele, Francia, Gran Bretagna e altri paesi. In tutti questi luoghi si utilizzano i manuali di guerra e controinsurrezione prodotti dal Pentagono".

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Fonti:

 

Roberto De Maria (robertodm@virgilio.it)

Christian Elevati (ailender@tiscali.it)

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