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Basta col rosso e il nero, ma i fascisti amano la pace?
‘‘Mai morti’’ titolava Bebo Storti una sua pièce sul fascismo insepolto, verità palese anche se per anni s’è finto di non vedere ciò che ci girava attorno. Ritoccati i simboli ma soprattutto sdoganati, i post fascisti e i fascisti di ritorno si compiacciono d’essere in società. Lo sdoganamento non lo devono solo al tutor Berlusconi, lui ha provveduto al licet politico. L’altra accettazione è scaturita dal buonismo d’una certa Sinistra o ex tale. Che ricordava come fosse politicamente corretto colloquiare con Storace anche quando aggrediva i colleghi dell’emiciclo, duettare in tivù con Alemanno pur s’era accompagnato da squadristi all’Università, in un clima mica diverso dai tempi di Almirante. E poi comprendere le ragioni dei ragazzi di Salò chiudendo gli occhi sul dicastero Tremaglia, o dialogare con La Russa che partecipava alle cerimonie per Nico Azzi. Tutto mentre Veltroni-sindaco rispolverava gli opposti estremismi intestando strade a militanti di sinistra e missini perché i morti son tutti eguali, tant’è che ora propone il bacio della pace fra mamma Verbano e un fratello Mattei.
Non dubitiamo del sentimento dei due parenti. Certo, retorico o meno, il gesto appare nella sua orchestrazione mediatico-politica presente com’era sul palco d’un comizio del Pd. Allora riflettiamo sulla pacificazione, anche contro il nostro sentire. Sembra che essa nei sessantatre anni della Repubblica nata dalla Resistenza non abbia pagato. Quale maggiore approccio pacificatorio dell’amnistia che il capo dei comunisti Togliatti elargì da Guardasigilli ai fascisti incarcerati? Quarantacinquemila di loro dal giugno 1946 tornarono in libertà. Liberi furono anche un’infinità di criminali di guerra, dal generale-macellaio Graziani, al torturatore Valerio Borghese della X Mas. Non saranno stati quarantacinquemila criminali, ma ricordiamo che tanti fascisti non erano neppure incarcerati, se n’erano fuggiti lontano grazie a Vaticano e Alleati. Eppure cos’accadde? Anziché vivere in pace un razzista come Almirante organizzava un partito fuorilegge attentatore per decenni della neonata democrazia, con nuovo squadrismo, tentati golpe, omicidi, stragi e tanto sangue, come nell’immaginario che ha sempre attratto gl’ideali dei camerati.
Volevano costoro vivere e lasciar vivere? La storia del Ventennio, ma anche quella del sessantennio repubblicano, dicono di no. Erano attratti dalla bella morte cantata nelle sciagurate canzoni e soprattutto inferta, da Stazzema alla stazione di Bologna passando per piazza Fontana. Ora dell’uguaglianza davanti alla morte, su cui Veltroni costruisce la sua politichetta-spettacolo più da tivù di Raffaella che da grancassa mediatica americana, già dall’avvento della cosiddetta Seconda Repubblica si confondono le acque. Il revisionismo storico ha battuto molto su questo tasto: partigiani e repubblichini defunti, tutti venerabili. Smarrendo il filo della scelta morale della Resistenza che usava violenza per liberare non per opprimere. Un revisionismo che in queste stagioni ci ha spiegato che sì, insomma fra Matteotti e Dumini c’è un legame: entrambi erano combattenti. E dal cimitero di Nettuno o dal Campo Dieci di Musocco i lugubri labari della Rsi sono stati tollerati e filmati dai media. Mentre i grandi media di Stato, occupati dai ‘‘ragazzi de Il Secolo d’Italia’’ diventati – ohibò – direttori radiotelevisivi, hanno deliziato gl’italiani con servizi in stile Minculpop su campagne del grano, colonie elioterapiche, bonifiche antimalariche che mostravano quant’era bravo Lui.
Con le istituzioni silenti, coi Veltroni e D’Alema impegnati nelle proprie carriere, imbarazzati da ex comunisti a dover spiegare come morì Antonio Gramsci. Stiamo vedendo cose che da uomini liberi non avremmo pensato, ci aggiriamo fra calendari del Duce in edicola, gadget nazifascisti sulle bancarelle e i semiologi spiegano che sono folklore. La politica delle intese larghe considera folklore anche le svasiche in quelle enclavi del nazifascismo che da vent’anni sono le curve degli stadi, tracimanti violenza inneggiata, mimata, praticata? Gli ultras da stadio organizzati da Boccacci, Todisco e altri caporioni neri guardano più ai paramilitari che agli hooligan e agiscono ormai sul territorio. Come ai tempi dei Ciccio Franco c’è chi duetta con la malavita e lì il cerchio si chiude perché raggiunge l’apice.
Dalla presunta demonizzazione del male o d’un malessere – i fascisti sono maestri di mistificazione aggredendo e atteggiandosi a perseguitati – siamo passati alla sua banalizzazione e giustificazione. Tant’è che riprendono i raid com’è accaduto a Villa Ada, i militanti di Forza Nuova aggrediscono uno studente sotto casa e malmenano un lavoratore del metrò impegnato in un Centro Sociale. Azioni giovani di giovani fascisti come quelli che avevano tolto la vita a coltellate a Renato Biagetti e a Dax Cesare. Mica negli anni di piombo? poco tempo fa nel Terzo Millennio che i fascisti hanno iniziato a insanguinare. A Veltroni non sorge il dubbio che convegni sulle ‘Guardie di ferro’ di Codreanu nella romana Casa Pound gentilmente concessa dalla sua giunta e i proclami televisivi della Santanché, orgogliosa del suo fascismo, non spingano menti farneticanti infatuate da ‘‘Io, l’uomo nero’’ di Concutelli all’uso delle lame?
Enrico Campofreda, 25 febbraio 2008
pubblicato su
www.Dazebao.org