pubblicato il 5.03.23
Le mille strade del rugby popolare ·
Cos’è il rugby popolare? Di cosa parliamo? E quant’è diffuso? Prima di descriverne la geografia, molto variegata e sparsa tra diverse regioni italiane, è importante tracciare il profilo di questo mondo. Negli ultimi 25 anni, a causa della visibilità mediatica sorta dopo i successi della nazionale maschile negli anni ’90, c’è stata una crescita del rugby che è uscito dalla dimensione di nicchia tipica degli sport minori nel nostro paese. Parole come touche o placcaggio sono entrate nel gergo di chi segue lo sport e delle famiglie che hanno introdotto la palla ovale nella propria vita. Fino all’inizio del XXI secolo si approcciava alla palla ovale solo chi era già dentro questo mondo, con lo nascita di dinastie come i Francescato o i Fusco, oppure in località dove si era costruita una tradizione, come Rovigo, l’Aquila e Piacenza. Città normalmente fuori dai grandi giri dello sport che avevano trovato, per un motivo o per un altro, nel rugby la propria dimensione.
Chi era il giocatore di rugby? Ovviamente al maschile perché una giocatrice era vissuta come un’eresia (e in alcuni contesti lo è ancora oggi). Tendenzialmente uno di destra, se non direttamente fascista: esattamente come per le arti marziali o gli sport full contact chi era di sinistra rifiutava questi ambienti e quindi le squadre diventavano terreno fertile per le destre, addirittura si segnalavano squadre dal nome “Fiamma” che erano emanazione diretta del Movimento Sociale Italiano in una congiunzione diretta tra palla ovale e fascismo. Negli ultimi vent’anni le cose sono migliorate: saremmo disonesti se dicessimo che il rugby non attira più i fascisti e non ci siano squadre, più o meno subdolamente, che facciano da bacino per l’estrema destra. Queste realtà ci sono ancora, sebbene siano assenti realtà dichiaratamente fasciste. Al contrario sono nate realtà dichiaratamente antifasciste e protagoniste dentro e fuori il campo, coniugando militanza e pratica sportiva ottenendo riconoscimenti anche da chi governa la palla ovale italiana e si dichiara “fuori dalla politica”. Squadre che abbiano, nei propri cardini e nelle proprie pratiche, valori come l’antisessismo e l’antirazzismo. Questa è la sfida del rugby popolare: ora capiamo quali realtà la combattono e come.
Le pioniere e la nascita del Rugby UISP
L’origine del rugby popolare in Italia va collocata nell’arco di tre anni, tra il 2005 e il 2007: periodo nel quale sono sorte tre realtà storiche del rugby popolare antifascista: All Reds Rugby Roma, Cinghiali del Setta e Stella Rossa Milano. Le prime strade del rugby popolare vengono percorse nelle grandi città che, anche solo numericamente, hanno più possibilità di trovare persone che giocano a rugby o anche solo vogliono buttarsi in questa sfida. Ognuna di queste realtà ha una propria genesi ma con degli elementi in comune: la maggior parte di loro non ha mai giocato a rugby, gravita a vario livello gli ambienti militanti ed è figlia delle trasformazioni politiche post-Genova. Si approcciano al rugby con curiosità ma non con avventatezza: si fanno le idee chiare nel giro di poco tempo e l’intenzione di costruire un percorso credibile è chiara. Ognuna a proprio modo.
All Reds nasce all’interno del LOA Acrobax e del dibattito interno su come rendere fruibile l’ex cinodromo di Roma, occupato nel 2002. Fin da subito si propone la sfida di entrare nel circuito della FIR, Federazione Italiana Rugby, ed essere protagonista del rugby romano, apparentemente saturo di squadre e molto legato ad ambienti destrorsi fin dagli anni ’60 e '70 (la palla ovale sarà una centrale di reclutamento di Terza Posizione e poi dei NAR). Ciò impone un grande lavoro organizzativo e tecnico, senza però rinunciare a quella dimensione dal basso e di crescita collettiva: i saperi vengono condivisi, non c’è una direzione dall’alto, e potenzialmente chiunque può crescere nel percorso di All Reds; ancora oggi la formazione tecnica è condivisa, tra 30 persone, che lavorano sulle formazioni seniores e giovanili. Questo percorso, nel corso degli anni, è stato mutuato dalle realtà venute dopo ed è oggi pratica comune di tutto il rugby popolare. L’altra grande sfida che All Reds coglie da subito è quella del rugby femminile. Lo fa in un momento in cui poche realtà credevano che le donne potessero cimentarsi con la palla ovale, ben lontani dallo sviluppo di questi anni. Oggi le donne e le ragazze che giocano con la maglia All Reds sono tantissime: nella Capitale solo la Capitolina, che però ha mezzi considerevoli e quindi è difficile il paragone, ha numeri superiori.
Il 2005 è anche l’anno dei Cinghiali del Setta, nati un po’ per scherzo un po’ come atto situazionista sulle colline bolognesi. La loro storia viaggia insieme a quella della Stella Rossa Milano, nata dal 2007 da alcuni compagni legati agli spazi sociali meneghini. Entrambe le squadre infatti hanno in un comune uno dei percorsi chiave del rugby popolare: la nascita del campionato UISP, una competizione che va contro alcune delle storture burocratiche della FIR, come il limite d’età a 42 anni (unica federazione ovale al mondo a fare questa scelta), o il limite sulle nazionalità che impedisce a persone rifugiate di poter giocare senza fare i conti con la burocrazia. La sfida è quella di avere un torneo non escludente e costruito dal basso, senza potentati sportivi che possano influire su di esso. Quindici anni dopo il torneo UISP continua a camminare, con una ventina di squadre sparse tra le regioni del Nord Italia: la costruzione del torneo è totalmente dal basso, con dibattiti interni tra le squadre e dialoghi per la risoluzione dei problemi. Non vi partecipano solo squadre del “rugby popolare” ma tutte si riconoscono nella pregiudiziale antifascista e sentono il percorso come proprio. La storia dei Cinghiali e della Stella Rossa, tra alti e bassi, ha camminato lungo quest’eredità e ha avuto degli sviluppi propri: da una parte il trasferimento su Bologna e la crescita della squadra femminile che oggi rappresenta l’unica realtà di tutto il territorio felsineo; dall’altra la sfida per la conquista di un campo, ottenuto infine in zona Gorla (quadrante nord-est di Milano), e lo sviluppo del settore minirugby, obiettivo raggiunto dopo anni di sforzi. A Milano, nell’ultimo anno, si è aggiunto un altro progetto: quello del “Rugby Sportivo”, legato alle lotte per il diritto alla casa e contro la speculazione del territorio. Non ha uno statuto, non ha un campo effettivo ma è una squadra a tutti gli effetti: lo è per le pratiche, per l’organizzazione che si è data, per la presenza sul territorio (i vari campi e parchi dove si allena) e la capacità di coinvolgere persone che mai avevano pensato di giocare a rugby.
Brigante si nasce, rugbista si diventa
Catania è una di quelle città che rispondono perfettamente al ritratto del vecchio rugby: nicchia di grande tradizione, capitale insieme al Benevento del rugby al Sud, e legato profondamente agli ambienti neofascisti. La palla ovale catanese cambia di segno in un momento preciso: con la nascita dei Briganti di Librino. Si tratta dell’esperienza più nota del rugby popolare italiano, di recente ne hanno scritto testate nazionali come l’Essenziale, internazionali come Sports Illustrated, ed è finita ai clamori delle cronache per le intimidazioni ricevute. Librino è un quartiere che troppe volte è stato associato a quelle retoriche del ghetto che tanto piacciono alla stampa mainstream e a chi si riempie la bocca di progetti sociali, poi fallimentari. I Briganti nascono nel 2006 e per molti anni girano senza una meta, nonostante la presenza in quartiere di un campo libero e pronto all’uso (l’impianto San Teodoro, costruito per le Universiadi 1997 e mai aperto). Il 25 Aprile 2012 viene occupato, sfidando il comune di Catania che per anni ha risposto picche alle proposte dei Briganti e perfino alle sollecitazioni della FIR. Da quel momento in poi l’esperienza dei Briganti acquista nuove potenzialità, con squadre giovanili e femminili di qualità, supera i confini del campo aprendo una libreria e un doposcuola e diventa bersaglio della criminalità organizzata. Tra danneggiamenti, furti e attentati dinamitardi i tentativi di stroncare l’esperienza Brigante sono stati numerosi ma ogni volta ci si è rialzati, ricalcando lo spirito del rugby diventando più forti di prima.
L’altra grande realtà del rugby popolare al Sud è la Zona Orientale Salerno. Così come i Briganti anche la Z.O. nasce da un obiettivo sociale: la battaglia per il porticciolo di Pastena, rione della cosiddetta “Zona Orientale” (nata negli anni ’50 e ’60, posizionata a est del fiume Irno, e simbolo della cementificazione selvaggia a Salerno). La zona del porticciolo è l’unica spiaggia libera di quella parte di città, spazio vissuto dagli abitanti del Rione in maniera gratuita e libera. L’idea di trasformarlo in un porto turistico, con annessa speculazione, porta alla nascita di un comitato spontaneo che organizza una serie di iniziative per coinvolgere il quartiere e cancellare questo progetto: tra i protagonisti di quella lotta ci sono alcuni compagni, ex-giocatori di rugby. Insieme ad altre persone, che partecipano alla lotta per il porticciolo, nasce la sfida di creare una squadra di rugby con presupposti diversi: è il 2015. La Z.O., nello spirito in cui è nata, inizia in un altro luogo simbolo del suo territorio, il parco Mercatello, e subito fa i conti con il problema atavico del rugby popolare italiano: la ricerca di un impianto sportivo dove giocare. Anche loro fanno i conti con la burocrazia e l’insipienza dell’amministrazione comunale ma alla fine raggiungono il proprio obiettivo, restituendo alla comunità un campo nato “per i ragazzi dei quartieri” (cit. Vincenzo De Luca) ma poi abbandonato al proprio destino: il campo “24 Maggio 1999”, data drammatica della storia recente di Salerno. Oggi quest’impianto non ospita solo le attività della Z.O.: è polifunzionale, ospita tante squadre che vivono la mancanza di strutture; ospita progetti sociali come quelli attuati durante le ondate della pandemia per fornire cibo alle famiglie bisognose ed è stato il volano per la crescita del progetto rugbistico della Z.O. Il settore minirugby e quello femminile è il più corposo di tutto il rugby salernitano e un pallone continua a essere strumento per la crescita delle battaglie sociali.
Le ultime arrivate e la nascita della rete di rugby popolare
Guardando agli ultimi dieci anni si nota come le esperienze di rugby popolare siano cresciute: sia numericamente sia nella qualità della proposta, sportiva e politica. Le esperienze storiche e il girovagare di chi le ha vissute in giro per l’Italia hanno portato alla nascita di nuove squadre, una specie di apostolato del rugby che ha raggiunto diverse città: Torino, Genova, Brescia, Padova, Teramo. Ognuna di queste storie porta con sé profili nuovi e spunti di interesse. A Brescia e Padova il rugby diventa un’ulteriore proposta nel campo dello sport popolare locale, già ricco di esperienze polisportive (Unione Sportiva Stella Rossa e San Precario); a Torino e Genova nascono squadre da zero che coinvolgono ex-giocatori, stanchi delle dinamiche dei club “standard” e vogliosi di trovare strade nuove dove domina l’inclusione e non la prevaricazione verticistica (Dynamo Dora e La Massa); a Teramo un gruppo di compagni già protagonisti della realtà rugbistica locale provano a coniugare il gioco con l’attivismo, coinvolgendo nuove persone e provando a fare entrare il rugby in un percorso militante.
Gli eventi delle singole squadre, su tutti il Seven Antirazzista del Cinodromo, che si svolge ogni anno ad Acrobax nel mese di giugno, diventano occasioni per conoscersi e confrontarsi. Con questo spirito nel 2019 le squadre che si riconoscono in questa visione del rugby, e del mondo, si radunano a Bologna con l’intento di costruire una rete comune. Il seme gettato allora cresce nel giro di qualche mese, sfidando anche il lockdown, e il 25 Aprile 2020 viene costituita ufficialmente la Rete del Rugby Popolare che coinvolge anche persone che hanno portato il rugby nei percorsi politici sparsi sul territorio, come la lotta No TAV in Valsusa. Nasce un manifesto del Rugby Popolare che viene diffuso sui social e le squadre intrecciano nuove relazioni per la crescita reciproca: condivisione dei saperi, nascita di una franchigia per partecipare ai campionati, dibattito interno e iniziative pubbliche. Il diritto allo sport e l’accessibilità agli impianti sportivi sono tematiche centrali del dibattito odierno e le realtà rugbistiche sono quelle più coinvolte, a causa della difficoltà a trovare un luogo adatto a loro. Il presente delle singole squadre è fatto di alti e bassi ma si può dire che, anno dopo anno, la crescita del rugby popolare è tale da non essere più indifferente a un ambiente, quello della palla ovale, ancora molto conservatore e in lotta per mantenere quel briciolo di potere necessario alla propria sopravvivenza. A scapito del gioco e di chi lo pratica.
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