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Il Progetto

MAPPA GEOGRAFICA AGGRESSIONI FASCISTE

AGGRESSIONI RAZZISTE - CRIMINI DELL'ODIO
7.04.25 Branco in azione a Torpignattara: due bengalesi aggrediti in poche ore. Si indaga anche su ipotesi razzista
12.12.24 Padova Spedizioni punitive anti gay: sgominata banda di giovanissimi
12.12.24 Castel Volturno, fermati 4 minorenni per il tentato omicidio di un coetaneo
7.07.24 La denuncia dell’artista di strada Clown Idà: “Botte e insulti razzisti fuori da un locale a Torino. Mi dicevano ‘torna al tuo Paese'”
2.02.24 Bastonate e insulti omofobi al Gay Center di Roma in zona Testaccio: video del blitz ripreso dalle telecamere
31.08.22 La violenza che ci sommerge: Noi sappiamo
16.11.21 Mirko minacciato davanti alla gay street da 4 ragazzi armati: “Fr*** di mer**, ti tagliamo la gola”
2.11.21 Ferrara, aggressione omofoba contro un gruppo di giovani Lgbt. "Mussolini vi brucerebbe tutti"
16.08.21 Aggressione omofoba ad Anzio, 22enne preso a pugni mentre passeggia insieme al fidanzato
11.06.21 Torino, 13enne picchiata per la borsa arcobaleno: “Mi urlavano cagna e lesbica schifosa”
30.05.21 Palermo, due ragazzi gay aggrediti con lancio di bottiglie. Uno ha il naso fratturato
29.04.21 Foggia, sparano da un fuoristrada in corsa contro un gruppo di migranti: ferito al volto un 30enne del Mali


manifestazioni MANIFESTAZIONI E INIZIATIVE ANTIFASCISTE
Le mille strade del rugby popolare
- Lo scrittore Giorgio Franzaroli restituisce il premio Acqui Edito&Inedito: “Non voglio essere accomunato a un autore neofascista”
- A Milano i cortei contrapposti contro la guerra: da una parte i neofascisti, dall'altra il movimento antirazzista
- Apre nuovo spazio di Casapound, corteo di Firenze Antifascista
- La Sapienza, dopo le cariche occupata la facoltà di Scienze politiche
- Tensioni alla Sapienza per il convegno con FdI e Capezzone: scontri tra polizia e studenti
- Il nuovo movimento degli ex di Forza Nuova a un anno dall’assalto alla Cgil
- Bologna, femministe contro patrioti alla manifestazione "a difesa delle donne": insulti e tensioni
- Bologna Non Una Di Meno torna in piazza e dilaga: “Risale la marea!”
- Elezioni, contestatori al comizio di Giorgia Meloni a Trento: cantano “Bella ciao” e urlano “siamo tutti antifascisti”
- L’Anpi torna a chiedere lo scioglimento di Casapound alla vigilia dell’inaugurazione della nuove sede di Latina
- No alla manifestazione fascista di Casapound il 28 maggio prossimo. Lettera aperta al Prefetto di Roma

ARCHIVIO COMPLETO

ARCHIVIO REGIONI

documentazione Documenti e Approfondimenti
24.04.25 L’antifascismo è dinamico o non è
23.04.25 Laboratorio Bergamo: area del dissenso, estrema destra, sinistra putiniana
8.04.25 Londra, commissariato il Saint George Trust (di Roberto Fiore): annunciata l’imminente chiusura per “gravi irregolarità finanziarie”
20.03.25 Rete dei Patrioti, ecco chi sono gli estremisti di destra che allarmano Reggio Emilia
5.12.24 Presi i neonazisti di Telegram: «Pensavano di colpire Meloni»
14.11.24 Bologna 9 novembre 24: Comporre l’antifascismo, agirlo nel presente
13.09.24 Breve storia di Meridiano Zero: quando il ministro Giuli era fascista
6.09.24 La testimonianza di Samuele, ex militante 19enne Il pentito di CasaPound
25.07.24 Ignazio Benito LaRussa Nero per Sempre
23.07.24 Inni al Duce, la paura dei residenti di via Cellini.
23.07.24 È la «Torino nera» quella che sabato sera si è scagliata contro il giornalista de La Stampa Andrea Joly
13.07.24 Dentro la Verona “nera”, i tre episodi che hanno segnato la cronaca della città e messo nel mirino i sostenitori di Casapound
10.05.24 "La ragazza di Gladio" Le stragi nere? Misteriose ma non troppo.
2.03.24 Faida tra neofascisti per il controllo della Curva Nord dell'Inter
2.06.23 Difendere l'Europa bianca: CasaPound in Ucraina
26.05.23 La “Legione per la Libertà della Russia” e l’offensiva di Belgorod
16.03.23 Dax, 20 anni fa l’omicidio. Parla l’avvocato che difese la famiglia
13.03.23 «Saluti romani, odio e camerati: i miei sei mesi da infiltrato nelle cellule neofasciste del Nord»
3.03.23 Gruppo armato anti-Putin penetrato nel confine russo con l'Ucraina - Tra loro il neonazista Denis "White Rex" Nikitin
30.01.23 Il neofascista Roberto Fiore smentito dall’Interpol: “Viveva con Gilberto Cavallini”
25.01.23 L’ex camerata in affari con Fratelli d’Italia e le bastonate ai carabinieri
9.12.22 La nuova ultradestra
18.11.22 Quel filo che dall’Ordine di Hagal arriva a CasaPound
19.10.22 Giorgia Meloni firma la Carta di Madrid di Vox
7.10.22 GRUPPI NEONAZISTI USA

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Informazione Antifascista 1923
Gennaio-Febbraio - a cura di Giacomo Matteotti ·


pubblicato il 24.04.25
L’antifascismo è dinamico o non è
·
In vista del 25 aprile il Centro di documentazione dei movimenti “Francesco Lorusso – Carlo Giuliani” di Bologna ha curato una ricostruzione storica dell’antifascismo italiano nel corso degli ottanta anni che ci separano dalla Liberazione del 1945.
24 Aprile 2025 - 09:45

di Centro di documentazione dei movimenti “Francesco Lorusso – Carlo Giuliani”

A ottant’anni dalla liberazione del nostro Paese dai nazifascisti e dalla fine di un ventennio di dittatura mussoliniana, viviamo in tempi in cui diverse forme di fascismo si sono strutturate a livello globale: dal pop-ultranazionalismo trumpiano negli Usa all’ultraliberismo da motosega di Milei in Argentina; dal totalitarismo di Erdogan in Turchia al suprematismo israeliano e alle politiche segregazioniste di Netanyahu che hanno privato la popolazione palestinese dei più elementari diritti, sottoponendola a continui abusi militari e schiacciandola in enclave sempre più piccole, fino ad arrivare al genocidio di questi mesi a Gaza. Poi ci sono la “democrazia illiberale”, condita da una sbornia di omofobia, di Orban in Ungheria e il populismo penale e “riempi-carceri” dei decreti Caivano e Sicurezza del governo Meloni in Italia.

Nel corso degli anni, le “spiacevoli eredità” dell’Europa di Maastricht hanno lasciato il segno: la crescita della disoccupazione e della povertà hanno scatenato aggressività e nazionalismo. Si è aperta la diga ad un’ondata che ha abbandonato i tratti marginali dell’estrema destra dei gruppi neo-fascisti e neo-nazisti e ha prodotto una nuova generazione di partiti della destra radicale, capaci di condizionare con numeri e percentuali elettorali i Governi in vari Paesi. Ci sono partiti di orientamento fascista e xenofobo, oltre che nei governi di Italia e di Ungheria, in Finlandia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Paesi Bassi e Croazia. I partiti di estrema destra hanno fatto ciclopici passi in avanti in Francia con i lepenisti, in Germania con l’avanzata di Afd (Alternative für Deutschland). C’è stata la tenuta degli ultranazionalisti in Gran Bretagna (con Farage), in Austria, in Svezia; continua la presenza di Vox in Spagna. Tutto questo lo si è potuto vedere anche alle ultime elezioni europee. E, infine, abbiamo pure Elon Musk che, alla luce del sole, finanzia i movimenti fascisti di mezzo mondo.

Le tante, variegate, forme di fascismi sono uscite dall’ombra, il razzismo è stato il mezzo con cui si sono affermate: colpendo alcune minoranze, imponendo la stigmatizzazione e la disumanizzazione di alcuni individui, separandoli dal resto del consesso umano, si è poi disciplinato la maggioranza, imponendogli pensieri univoci e comportamenti uniformi, prescrivendo l’adesione a una visione minacciosa, angosciata e repulsiva delle relazioni sociale. L’odio contro il “diverso”, ma anche il rifiuto dell’eguale, ne sono stati la strutturale connessione.

Queste forme di fascismo si sono alimentate, come già altre volte in passato, di uno stato emotivo ideale: la paura. Una paura che, sul terreno sociale, ha rinfocolato lo stato di panico della guerra tra poveri: la mia miseria può essere intaccata dalla miseria di un altro essere umano, al mio stesso livello o che sta peggio.

Un elemento più recente è il populismo che, nelle sue innumerevoli manifestazioni politiche, sta all’interno delle dinamiche del radicalismo di destra e ne indirizza le sue forme espressive. Il populismo, che in molti paesi ha fatto le scarpe alle liberaldemocrazie, è oggi l’altra faccia della medaglia liberista: il liberismo ha distrutto le garanzie a livello economico e sociale, il populismo attacca sui diritti civili e reprime l’agibilità politica di chi si oppone. A tutto ciò si può aggiungere l’imbroglio demagogico del «né di destra né di sinistra».

Insomma, i nuovi fascismi si alimentano di antiche angosce, ma non sono il passato che rinviene, semmai sono un presente che non passa mai: quel «fascismo perenne» di cui parlava molti anni fa Umberto Eco. E’ il ritorno a galla di quello che avremmo voluto cancellare una volta per sempre.

Essere antifasciste/i oggi

In un’epoca in cui le varie forme di fascismo (nelle diverse sfumature nere, verdi, brune) si sono strutturate a livello globale che senso deve assumere l’antifascismo? Quali obiettivi deve darsi un agire antifascista in un mondo in cui il fascismo si è imposto non solo in specifiche organizzazioni politiche, ma in un modo di pensare comune diffuso e nel modo di interpretare le relazioni sociali, nella società civile e nell’opinione pubblica? Con quali pratiche l’azione antifascista deve contrastare i governi di destra votati da gran parte di quella composizione di classe a cui storicamente la sinistra faceva riferimento? Come si contrasta il clima che si respira nei bar, negli stadi, sui mezzi pubblici, nei quartieri periferici e nelle province dimenticate?

Insomma, su quali basi è necessario rigenerare un antifascismo che sia adeguato alle battaglie politiche di oggi?

L’antifascismo non ha senso se slegato dal contesto sociale, non può esistere di per sé, ma ha bisogno della pratica collettiva, non può essere una sbiadita bandiera, svuotata di significato, da sventolare nelle occasioni ufficiali e nelle ricorrenze. L’antifascismo non è un feticcio della democrazia rappresentativa, non è un attributo istituzionale (è inutile e fuorviante chiedere in continuazione, come fa il centrosinistra, alla Meloni e ai suoi scherani politici dichiarazioni di fedeltà alla Carta costituzionale e il riconoscimento della Resistenza). L’antifascismo non nasce come attributo neutro dell’azione politica, ma richiede uno scontro (col fascismo), un conflitto politico. Non è un nucleo di valori distaccati dal contesto storico in cui sono nati e cresciuti, che stanno in una teca e a cui di tanto in tanto si rivolge lo sguardo.

L’antifascismo non è un valore astratto, ma è una pratica sociale che si rigenera nel suo stesso farsi, deve essere inclusivo e soprattutto comprensivo di un antirazzismo politico che pensa il razzismo come strutturale, non certo come un atto individuale.

L’antifascismo indica un’idea di mondo antitetica a tutte quelle ideologie che negano valori come la giustizia sociale, la tutela della libertà e la difesa delle minoranze.

Se c’è il fascismo – e il fascismo purtroppo c’è ancora – combatterlo vuol dire essere antifascisti e antifasciste, non ci sono più i balconi da cui i dittatori lanciavano i loro proclami ma ci sono i media che “tutelano” i loro progetti politici; non si usano più le isole per mandare al confino i dissidenti ma ci sono i divieti di dimora, i daspo urbani e ci si rapporta al conflitto sociale con la penalità.

1945/2025: ottanta anni di antifascismo

Antifascismo è una parola importante, purtroppo non è più un discrimine, la memoria partigiana e antifascista nel nostro paese non è diventata memoria collettiva in maniera automatica o indolore. Anzi, attorno alla questione resistenziale è stata combattuta, a lungo, una vera e propria “guerra della memoria” che ha coinvolto a più riprese tutti gli attori politici, dal dopoguerra ai giorni nostri.

La presenza neofascista, dopo il definitivo crollo del regime di Mussolini e la cacciata dei repubblichini della Repubblica Sociale (Rsi), si è confermata come una costante nella storia del nostro paese. Già nel 1945, peraltro, nessuno si era illuso che i conti con un sistema di oppressione che era durato vent’anni, lasciando nella collettività una forte impronta, potessero essere fatti una sola volta e, soprattutto, per sempre.

Infatti, il processo di epurazione di ufficiali e agenti coinvolti con il regime fascista e con la Rsi fu assolutamente inefficace, addirittura molti magistrati (pure loro compromessi con il regime), con una serie di sentenze, rimisero in servizio molti degli uomini epurati in precedenza, tra cui anche ex appartenenti all’Ovra (la polizia segreta mussoliniana). In netta continuità con il passato vennero inseriti perfino agenti provenienti dalla disciolta Polizia dell’Africa Italiana, il corpo di polizia coloniale fascista.

La “guerra civile fredda” di Mario Scelba

Nel 1947 venne nominato come ministro dell’Interno il democristiano Mario Scelba che si distinse subito per il potenziamento e per l’utilizzo diffuso e massiccio dei reparti Mobili e Celere, unità di polizia concepite per la gestione e il controllo delle manifestazioni di piazza e dei conflitti di lavoro, con un’organizzazione capillare che li portò a poter intervenire in tempi brevissimi in tutto il territorio della penisola. Le emergenze sociali del periodo postbellico, per volontà di Scelba e dei Governi centristi, furono gestite con il pugno di ferro, con un’impostazione da “guerra civile fredda”. In nome di una priorità di ordine economico, l’avversione a idee di giustizia sociale portò a violare molto spesso le libertà costituzionali (come il diritto d’opinione e di assemblea) nei confronti di appartenenti alle organizzazioni sindacali e di sinistra. Questo non impedì, però, che in tanti volantini Scelba venisse dipinto come un “diavolo in terra”, una “belva assetata di sangue”, un “lacchè dei fascisti”, un “manganellatore”, un “servo degli imperialisti americani”.

Il 1947 fu anche l’anno della strage di Portella della Ginestra (in Sicilia), quando durante la manifestazione del 1° maggio, la banda del bandito Giuliano sparò contro braccianti e contadini, provocando morti e feriti (in diversi l’hanno definita la prima delle stragi di Stato).

Nel periodo compreso tra il 1948 e il 1954, l’impiego diffuso dell’apparato poliziesco nelle manifestazioni di operai e braccianti provocò in tutto il paese un bilancio di ben 75 morti.

Prendendo ad esempio un territorio a noi vicino, tra gli anni 1947 e 1949, nella sola provincia di Modena furono arrestati 485 partigiani per vicende legate alla lotta di Liberazione, mentre circa 3.500 braccianti agricoli furono denunciati per l’occupazione delle terre.

E’ in questa situazione che il 9 gennaio 1950, alle Fonderie Riunite di Modena, per impedire l’occupazione della fabbrica, polizia e carabinieri spararono contro gli operai che protestavano contro il licenziamento di 500 loro compagni di lavoro: in sei rimasero uccisi e duecento vennero feriti. Tra i carabinieri armati che circondavano l’area della fabbrica ce ne fu uno che all’improvviso sparò un colpo al petto a un giovane operaio che morì all’istante. Subito dopo, dai tetti dei capannoni della fonderia i militi aprirono il fuoco con i mitragliatori, compiendo una strage tra gli altri lavoratori presenti.

Occupazioni di terre, manifestazioni e scioperi furono repressi in maniera dura anche nel Mezzogiorno, causando morti e feriti tra i manifestanti. Uno degli episodi simbolo di questa ondata repressiva contro i lavoratori agricoli si verificò a Melissa, un comune non lontano da Crotone. Per impedire l’occupazione delle terre incolte, appartenenti a un latifondista locale, la polizia aprì il fuoco uccidendo tre manifestanti e ferendone altri quindici. Dopo Melissa la polizia sparò anche a Torremaggiore, Montescaglioso, Seclì e Marghera. A questa brutale repressione, si accompagnò un numero impressionante di arresti e fermi: poco meno di 150.000 nel solo periodo compreso tra il 1948 e il 1954. Il Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, ereditato dal fascismo, si rivelò uno strumento “legale” fondamentale nelle mani di Mario Scelba per reprimere i movimenti sociali.

A tutto questo si aggiunse il fatto che, dal 1952, diventò una pratica diffusa, soprattutto nelle grandi fabbriche, quella dei licenziamenti politici che colpirono in particolare ex partigiani, militanti comunisti e sindacali, membri delle commissioni interne, ragazze attiviste dell’Udi (Unione Donne Italiane). Si trattava di una forma di repressione politica e sindacale, spesso motivata dalla paura del comunismo e dalla volontà di mantenere l’ordine sociale. A livello nazionale i licenziamenti per rappresaglia furono 35.000 di cui ben 8.550 nel solo territorio bolognese.

La rivolta delle “magliette a strisce” e l’eccidio di Reggio Emilia

L’antifascismo ritornò ad essere protagonista nelle piazze nel 1960. Esplose grazie all’incontro tra le generazioni diverse dell’antifascismo storico e dell’antifascismo dei “giovani con le magliette a strisce” che furono protagonisti della rivolta di Genova del 30 giugno di quell’anno. Nella città ligure la sommossa venne provocata dal governo monocolore democristiano di Tambroni, appoggiato dal Movimento sociale italiano (Msi), erede del partito fascista. La scintilla venne causata dal permesso accordato allo stesso Msi di celebrare il suo congresso in una città partigiana come Genova. In quelle giornate ci fu un recupero attivo della memoria antifascista e, contemporaneamente, risignificandone il senso e attualizzandolo a quei tempi. Protagonisti della mobilitazione e degli scontri con la celere che seguirono furono giovani, chiamati dai giornalisti, i “ragazzi dalle magliette a strisce”, perché in quei mesi dilagava la moda delle magliette di cotone bianche rigate orizzontalmente con colori vivaci.

Anche a Palermo ci fu una manifestazione contro i fascisti del Msi, anche lì i giornali scrissero che i giovani erano stati i più briosi e combattivi, il loro era un nuovo protagonismo che si affiancava agli operai organizzati nei sindacati e nei partiti di sinistra. E anche lì, come a Genova, quando i celerini caricarono, i ragazzi dalle magliette a strisce reagirono con decisione, alzando barricate per ripararsi dagli assalti delle camionette.

Il prefetto di Genova e il Governo decisero di rinviare il congresso del Msi, contemporaneamente, però, Tambroni diede alla polizia il permesso di sparare in situazioni di emergenza contro i dimostranti antifascisti e antigovernativi.

Così il 5 luglio la polizia sparò a Licata in Sicilia uccidendo un manifestante e ferendone cinque.

La sera del 6 luglio 1960 la polizia a cavallo e la celere con le jeep caricarono migliaia di ragazzi/i che partecipavano a una manifestazione antifascista che si teneva a Roma a Porta San Paolo.

Il 7 luglio nuovi spari sui dimostranti a Reggio Emilia che provocarono 5 morti e 19 feriti. Dei cinque caduti, due avevano rispettivamente 19 e 21 anni, i feriti erano quasi tutti ragazzi. Ai funerali migliaia erano le/i giovani che di fatto occuparono Reggio, come se quei morti appartenessero soprattutto a loro; avevano gremito tutte le piazze e molti di loro avevano vicino una lambretta. Erano in blue jeans, con le magliette a righe e i capelli “a zazzera” sul collo.

L’8 luglio a Palermo ci furono due morti, un altro ragazzo rimase ucciso a Catania, un altro ancora a Licata, li univa un’età prossima ai vent’anni. Il settimanale L’Espresso il 17 luglio 1960 titolò: “Vittime della violenza di Stato sono i ragazzi con le magliette a strisce”. Non fu quindi un caso che nelle strofe della nota canzone di Fausto Amodei “Per i morti di Reggio Emilia” – scritta per ricordare quelle giornate – si sottolineasse la giovinezza dei caduti e la violenza dei “fascisti in divisa”: “Di nuovo a Reggio Emilia, di nuovo giù in Sicilia, son morti dei compagni per mano dei fascisti… son morti sui vent’anni, per il nostro domani, son morti come vecchi partigiani”.

L’antifascismo militante degli anni ’70

Orologio piazza Medaglie d'Oro - © Michele LapiniL’antifascismo rinacque, come pratica antagonista, quando fu evidente che lo Stato si stava servendo della manovalanza neofascista per destabilizzare l’avanzata delle lotte sociali e bloccare le importanti conquiste ottenute dal “biennio rosso” ’68-’69. Ancora una volta, l’antifascismo fu una pratica condivisa e ricostituì un orizzonte comune, grazie ai movimenti e alle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria che ne raccolsero l’eredità fossilizzata dalla sinistra storica.

In quegli anni, per quanto riguarda la galassia delle sigle dell’estrema destra, sia quella parlamentare sia quella extraparlamentare, sostanzialmente c’era una divisione in tre tronconi. Uno era quello che faceva capo al Msi e a Ordine Nuovo e metteva insieme coloro che aspiravano a soluzioni golpiste ed erano nostalgici del Ventennio fascista e della Repubblica Sociale. Poi c’erano i gruppi legati alla mistica neonazista come Avanguardia nazionale. Il terzo troncone era quello formato dai “gruppi di contro-mobilitazione” presenti nelle zone di aspro conflitto sociale. Numericamente questi gruppi erano modesti e socialmente circoscritti, ma mostravano una particolare determinazione nelle azioni squadristiche contro gli avversari politici, diventando protagonisti di episodi di violenza davanti alle scuole, alle università e alle fabbriche.

L’antifascismo militante divenne una necessaria forma di autodifesa, “a protezione” delle lotte sociali contro gli attacchi degli scherani di estrema destra che, a seconda dei casi, aggredivano i picchetti operai durante gli scioperi a sostegno dei crumiri prezzolati dai padroni, o si sostituivano agli agenti di polizia per sfondare i picchetti nelle scuole nelle giornate di lotta. Poi c’erano gli agguati (dell’uno contro tanti) contro i militanti del movimento studentesco e della sinistra extraparlamentare. A queste scorribande non si poteva soccombere, era necessario rispondere.

Emblematico, negli anni Settanta, fu il caso di piazza San Babila a Milano, in pieno centro storico, a due passi dal Duomo, considerata il fortino dei fascisti e dei “fighetti da trincea”. Dentro al “fortino” c’erano giovani di estrema destra che avevano elevato quella piazza a zona off-limits per ragazze/i di estrema sinistra, “sanbabilini” contro “rossi militanti”, occhiali da sole Ray-Ban e stivaletti Barrow’s gialli contro eskimo e “Hazet 36”.

Piazza San Babila servì allo Stato per coniare la nefasta teoria degli “opposti estremismi”. Ma, in realtà, chi, transitando dalle parti della “trincea nera”, aveva un abito particolare (sciarpa rossa, capelli lunghi, barba) poteva essere assalito con la scusa di essere “di sinistra”. Che l’alimento principale della “piazza nera” fosse la violenza risultò anche da diversi fatti in cui alcuni “sanbabilini” risultarono coinvolti, tra i quali il rapimento e lo stupro nei confronti di Franca Rame il 9 marzo 1973. Del resto, Milano era stata teatro della prima strage di quella che divenne la strategia della tensione, la bomba nell’atrio della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana che causò, il 12 dicembre 1969, 17 morti, 88 feriti, iniziando una striscia di sangue e paura che si concluse il 2 agosto 1980 (con la bomba alla stazione di Bologna, che causò 85 morti e 200 feriti). Quel botto tremendo trafisse l’Italia intera, fu un trauma che lasciò una piaga profonda in tutto il Paese.

Ci furono altre tre deflagrazioni quel giorno che, per fortuna, non produssero gli stessi effetti. Avvennero a Roma, davanti all’Altare della Patria, all’ingresso del Museo del Risorgimento a piazza Venezia e alla Banca Nazionale del Lavoro di via San Basilio. Con l’attentato di piazza Fontana si concluse un decennio che era cominciato nel segno del boom economico ed era proseguito con uno sviluppo industriale spinto, con le forti migrazioni dalla campagna alla città e dal sud al nord del Paese e con l’esplosione dei consumi di massa. La favola bella del capitalismo era, però, stata messa in discussione e contraddetta dalla contestazione del Sessantotto e dalla crescente conflittualità sociale, con i cortei, gli scioperi e i picchetti operai dell’autunno caldo.

Il 12 dicembre 1969, dopo lo scoppio delle bombe di piazza Fontana, i giornali e il sistema politico si scatenarono contro gli estremisti e contro le iniziative di lotta incontrollate. Si guardò alle lotte operaie come se fossero in qualche modo responsabili dell’evento delittuoso. Il presidente del Consiglio Mariano Rumor, nel suo messaggio dopo l’attentato, dichiarò: «Quello che è accaduto rende “indifferibile” la firma del contratto dei metalmeccanici».

Poi, per diverso tempo, ci fu il tentativo degli organi di Stato e della stampa mainstream di accusare di quegli attentati gli anarchici, solo la controinformazione antifascista riuscì a smascherare i mandanti tra gli apparati dei servizi segreti e gli esecutori tra i fascisti, dimostrando che quella era una “strage di Stato”.

Almirante non lo vogliamo

Per quanto riguarda le varie sensibilità della galassia antifascista venne individuato nel Movimento Sociale Italiano e nel suo segretario il loro principale nemico.

A Bologna, per tanti anni, piazza Maggiore rimase inibita ai fascisti. Tutto ebbe inizio il 17 maggio 1970, all’annuncio di un comizio dell’ex fucilatore di partigiani Giorgio Almirante, segretario dell’Msi (considerato politicamente il padre “putativo” di Giorgia Meloni), la piazza grande della città si riempì di migliaia di studenti, operai ed ex partigiani. Gli antifascisti si spazientirono presto delle provocazioni del caporione missino. Dai gradini di San Petronio e dal Sacrario ai caduti della libertà di piazza Nettuno ci fu un assalto di massa al palco fascista. L’ingiuria alla Resistenza venne impedita con una vera e propria battaglia campale che si allargò a tutte le strade del centro storico, dove, per ore, gli antifascisti resistettero alle cariche della Polizia. Il giorno successivo l’allora sindaco Guido Fanti convocò d’urgenza un Consiglio comunale straordinario dove venne approvato un ordine del giorno che vietava la concessione di piazza Maggiore al Movimento Sociale e alle organizzazioni di ispirazione fascista. Questa deliberazione rimase in vigore fino al 1987, poi altri amministratori dissero che “i tempi ormai erano cambiati”.

Per tutti gli anni Settanta, ogni volta che ce n’era bisogno, se i fascisti prenotavano una piazza per farci un’iniziativa, qualche ora prima il tam tam antifascista arrivava nelle fabbriche e, in poco tempo, tanti operai lasciavano il lavoro per occupare la piazza, inibendola al fascista di turno.

Anche per i banchetti della propaganda fascista non c’era certo vita facile. Di scontri, nel corso di decenni, ve ne furono moltissimi. Quello che venne ricordato per più tempo si verificò nelle vicinanze del cinema Modernissimo, all’incrocio tra via Rizzoli e piazza Re Enzo, nel pezzo di portico conosciuto come “l’angolo dei cretini”. Quando i seguaci del Msi si presentarono per diffondere la propria propaganda, ex partigiani e antifascisti fecero saltare il banco. Volarono “smatafloni” a volontà e i tonfi dei calci in culo si sentirono distintamente, in diversi fecero le spese della pesantezza delle callose mani operaie.

Ai fascisti, non solo venivano negate le piazze, anche la somministrazione di cibo veniva messo in discussione.

L’episodio più eclatante si verificò ai primi di giugno del 1973 al Cantagallo, nelle vicinanze di Casalecchio di Reno, nell’area di sosta dell’Autostrada del Sole Bologna-Firenze. Un barista dell’autostazione si vide davanti il caporione missino Giorgio Almirante che, con il suo codazzo di camerati, si era avvicinato al banco dell’Autogrill per mangiare. L’addetto ai panini lanciò l’allarme a tutti i lavoratori, dai baristi ai benzinai, che, immediatamente, incrociarono le braccia, scendendo in sciopero: “Né un panino né una goccia di benzina al fucilatore di Partigiani”, fu il passaparola. Forse, Almirante e i suoi non avevano considerato che il Cantagallo distava pochi chilometri da Marzabotto, il paese martire per la strage nazista del 1944, l’orrore e il ricordo della complicità dei fascisti non si erano ancora cancellati. Se ne dovettero andare senza nemmeno un panino e anche per il pieno di benzina la stazione di servizio si rese indisponibile.

I sedici lavoratori protagonisti dello sciopero furono denunciati e mandati a processo.

Alcuni giorni dopo il boicottaggio antifascista, una squadraccia di missini, guidata dal federale Cerullo, fece un blitz al Cantagallo, per vendicare il loro capo. Due lavoratori addetti alla sicurezza e due camerieri furono aggrediti con pugni e bastoni.

La scorribanda fascista, provocò una risposta di sciopero generalizzato. Incrociarono le braccia tutti i 175 dipendenti dell’Autogrill, il 90% dei metalmeccanici della provincia di Bologna, grandi adesioni ci furono anche in tutte le altre categorie.

Alla fine, dopo due anni di processi, i sedici del Cantagallo vennero assolti.

Il 9 maggio 1974, il divieto di piazza Maggiore ai fascisti venne aggirato con una decisione del prefetto che autorizzò un comizio del Msi nel tardo pomeriggio. A partire dalle 13 un migliaio tra poliziotti e carabinieri occuparono militarmente la piazza. Alle 17 cominciarono ad affluire operai, studenti e antifascisti. La Flm (Federazione Lavoratori Metalmeccanici) aveva invitato a una presenza di massa al Sacrario dei Caduti indicendo uno sciopero di mezz’ora con uscita anticipata dal lavoro. Già dalle 15 alcune migliaia di persone avevano cominciato a confluire in piazza, nel giro di due ore il crescentone era stracolmo di antifascisti. Erano venuti in quarantamila per protestare contro i fascisti: agenti e militari vennero letteralmente sommersi e si portarono ai margini della piazza. Di fronte a quella situazione, i missini non si fecero vedere. In un loro comunicato giustificarono la scelta, scrivendo che non intendevano farsi “riempire di insulti da decine di migliaia di cialtroni e di attivisti extraparlamentari riuniti in piazza Maggiore”. L’incauto prefetto non poté che prendere atto della situazione e fu costretto a ritirare l’autorizzazione al comizio.

Negli anni successivi, durante il ’77 e nel decennio che ne seguì, di fascisti nelle piazze se ne videro molto pochi. Furono invece gli anni delle bombe sui treni e delle stragi, piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974), il treno Italicus a San Benedetto Val di Sambro (nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974), fino alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980.

Dal 1977 si fece largo una nuova destra radicale che esternava un modo diverso di vivere la militanza nell’area neofascista e nacquero organizzazioni terroristiche come i Nuclei armati rivoluzionari (Nar) e Terza posizione (dove militava l’attuale leader di Forza Nuova Roberto Fiore).

La calma relativa degli anni Ottanta e Novanta

A Bologna, i fascisti si rividero in piazza Maggiore il 29 maggio 1987. Dopo 17 anni di divieti, ritirata l’ordinanza comunale, venne autorizzato un comizio del Msi. Un piccolo palco venne innalzato, sotto i gradini di San Petronio, all’angolo con via dell’Archiginnasio. La mobilitazione antifascista portò in piazza molte persone, ma, da quel giorno, si delineò in maniera molto netta una divaricazione che prosegue, nei fatti, anche ai giorni nostri. Da una parte c’era la staticità del presidio dell’antifascismo istituzionale (quello dei partiti, dei sindacati confederali, degli amministratori, della dirigenza dell’Anpi) in piazza Nettuno, davanti al Sacrario dei Caduti. Dall’altra c’era l’attivismo dei giovani del movimento (allora li chiamavano “autonomi”, oggi li bollano come i “ragazzotti dei centri sociali”). Mentre quelli vicini alla statua del Nettuno sembravano avere le suole delle scarpe incollate ai lastroni di granito della piazza, in alcune migliaia si mossero verso il comizio missino con bandiere rosse e striscioni. Prima la contestazione avvenne sulla base di urla e slogan, poi, dal vicino mercato di mezzo, arrivarono uova e patate. Un tubero lanciato dai manifestanti colpì in piena fronte l’oratore e il comizio si dovette interrompere per cause di forza maggiore. A quel punto, dai cordoni di polizia, che tenevano divisi fasci e antifa, partirono cariche ripetute a cui i dimostranti con le bandiere rosse risposero con lanci di oggetti vari.

Da quel giorno, con una certa continuità, si determinarono alcune altre “costanti”, non ancora passate di moda nel terzo millennio.

Ad ogni iniziativa di piazza dei fascisti c’era sempre una nutrita e robusta presenza delle forze dell’ordine. Caso strano (ma non troppo), i carabinieri e i poliziotti erano sempre girati verso gli antifascisti. E anche i manganelli, i lacrimogeni e le botte si riversavano sempre contro chi contestava i “ricostruttori del disciolto partito fascista”. Invece i saluti romani, i “boia chi molla”, gli inni al duce, anche se “anticostituzionali”, venivano protetti ogni volta dagli uomini in divisa.

E, il giorno dopo, negli articoli di giornale e nei comunicati delle forze politiche dell’arco costituzionale, la solidarietà veniva espressa eternamente ai “tutori dell’ordine repubblicano”, mai un dubbio sul perché delle tante teste spaccate a ragazze e ragazzi con tanta nonchalance. Mai nessuno che si fosse fatto la domanda se il presunto diritto di poche decine di fascisti ad esprimere pubblicamente un’ideologia che ha sempre negato ogni libertà di espressione e con la quale la nostra Repubblica aveva chiuso i conti il 25 aprile 1945 valesse di più di quello di migliaia di cittadini antifascisti.

Sta rottura de cojoni dei fascisti del terzo millennio

Un’altra data storica dell’antifascismo di movimento è il 13 maggio 2000. Per quel giorno Forza Nuova aveva indetto a Bologna una manifestazione europea. Il programma del raduno fascista prevedeva un convegno alla mattina presso un grande albergo cittadino, poi un corteo per le vie del centro da concludersi in piazza Galvani con un comizio. Erano previste delegazioni dell’estrema destra da quasi tutti i paesi europei. Era annunciato anche l’arrivo di diversi gruppi di naziskin.

La giunta di centro destra del sindaco Guazzaloca, e in particolare il suo vicesindaco Giovanni Salizzoni (che si proclamava “antifascista democratico cristiano”), aveva dichiarato la sua disponibilità a garantire l’agibilità politica a Forza Nuova. Le proteste delle associazioni partigiane, prima, dei partiti di centrosinistra e di Cgil-Cisl-Uil poi, non erano riuscite a raggiungere grandi risultati. Tutte le realtà di movimento avevano deciso di indire una grande manifestazione contro il raduno fascista. Come contraltare, la sinistra istituzionale aveva indetto il classico presidio in piazza Nettuno, delegando in toto alla Questura il controllo della manifestazione di Forza Nuova.

Il 7 maggio il “Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico” decise di vietare sia il corteo dei fascisti sia il corteo antifascista del movimento. Nei giorni successivi venne revocata l’autorizzazione al comizio di Forza Nuova in piazza Galvani. I fascisti avrebbero potuto riunirsi in piazza del Baraccano. La mattina del 13 maggio l’albergo dove doveva svolgersi il convegno fascista disdisse la prenotazione. Polizia e carabinieri iniziarono a militarizzare la zona dei viali di circonvallazione, dalle parti dei giardini Margherita, per permettere a un centinaio di nazisti di radunarsi al Baraccano.

Alle tre del pomeriggio, in piazza Nettuno, cominciarono a radunarsi migliaia di persone. L’indicazione delle/i compagne/i del movimento era di formare un corteo per dirigersi verso il Baraccano. La piazza si svuotò, più di diecimila persone si incamminarono per via dell’Archiginnasio. Quando la testa della manifestazione arrivò all’altezza di piazza Minghetti, su via Farini si trovò davanti un massiccio spiegamento di polizia. Poco dopo partì una carica pesante, che vide una risposta compatta dei manifestanti. Ci furono diversi momenti di scontro, poi il corteo si ricompattò mezz’ora dopo in piazza Maggiore. Da lì ripartì per via Rizzoli, una massa enorme (soprattutto giovani) riprese le strade della città, ritornando verso il luogo degli scontri, fino a porta Santo Stefano. Intanto, la polizia aveva fatto defluire i nazi dal Baraccano con alcuni pulman. I manifestanti si ripresero la parte della città che era stata militarizzata per proteggere l’incursione dei neo-fascisti.

Il giorno successivo, quasi all’unanimità, i commentatori politici si scamiciarono negli attacchi al corteo antifascista.

Un altro episodio avvenne il 3 aprile 2006. In quel caso si era in periodo di campagna elettorale, la Fiamma Tricolore (il partner politico di Forza Nuova in “Italia agli italiani” per quella tornata) era in lizza per le elezioni e voleva tenere un comizio del suo segretario nazionale Romagnoli, insieme a Maurizio Boccacci del Movimento Politico Occidentale e a Piero Puschiavo, fondatore del Veneto Fronte Skinheads.

Di fronte alle proteste che si sollevarono da varie parti, il sindaco Cofferati si limitò ad esprimere le proprie preoccupazioni affinché il comizio non si tenesse in piazza Carducci: “Sia per quanto riguarda i possibili problemi di ordine pubblico, sia per quanto riguarda i certissimi problemi di alterazioni del traffico e della normalità in una zona nevralgica della città”. La Prefettura decise di cambiare la sede dell’iniziativa con piazza San Francesco. Ma il coro delle proteste aumentò di tono, quel luogo era ancora più inaccettabile del precedente, vicino com’era al Pratello, il quartiere antifascista per eccellenza. Alla fine, il prefetto Grimaldi dispose che il comizio elettorale della Fiamma Tricolore si sarebbe tenuto nella periferica piazza della Pace, a ridosso dello stadio Dall’Ara.

Quando, nel 2013, CasaPound cercò di aprire una sede a Bologna nel quartiere Murri, ci fu una risposta di massa con una grande manifestazione organizzata dalle realtà di movimento che partì da piazza Carducci per arrivare in periferia a pochi metri da via Malvolta, dal luogo in cui i fascisti del terzo millennio avrebbero dovuto trovare posto, nascondendosi dietro la copertura dell’associazione da nome truce: “Sole e acciaio”. A causa di continue proteste e atti di sabotaggio, alla fine, quelli di CasaPound decisero che Bologna non faceva per loro.

Poi ci furono le grandi mobilitazioni contro i fascio-leghisti di Matteo Salvini. La prima l‘8 novembre 2015, “Difendiamo Bologna dall’invasione leghista”, con la resistenza sul ponte di Stalingrado e con l’accerchiamento, da varie parti e con diverse modalità, di piazza Maggiore dove si teneva il comizio e l’adunata legaiola. L’ultima il 14 novembre 2019, quando la polizia usò gli idranti per tenere a distanza migliaia di ragazze e ragazzi che stavano sfilando in corteo verso il palasport, dove si stava tenendo un meeting della Lega con Salvini, alla presenza di truppe cammellate fatte arrivare da tutte le regioni del nord.

Di episodi analoghi si ripeterono in città nel corso degli anni, finché il 16 febbraio 2018, per l’incapacità dell’allora sindaco Merola, con la decisione del questore e la copertura del prefetto, fu fatta una scelta di campo gravissima per tutelare l’agibilità politica di una formazione fascista come Forza Nuova. Non è vero che non si poteva fare diversamente, nel Comitato per l’ordine pubblico stabilirono che i saluti romani di Fiore e dei suoi camerati andavano tutelati e gli antifascisti andavano bastonati.

Anche in quell’occasione si formarono due piazze di presidio antifascista: una era composta da persone coi capelli bianchi che proteggevano la memoria davanti al Sacrario dei Caduti di piazza Nettuno, l’altra che aveva raccolto migliaia di giovani al lato di piazza Maggiore, verso via dell’Archiginnasio, difendeva il futuro a muso duro, senza se e senza ma, a poche decine di metri dal ridicolo raduno fascista. Non ci vuole un indovino per capire che, a un certo punto, la polizia attaccò gli antifascisti che si difesero dalle manganellate, senza indietreggiare. Il giorno seguente i vertici del Pd e dell’amministrazione comunale dichiararono: “Il presidio in piazza del Nettuno rappresentava la città di Bologna, il resto è gente che partecipa a copioni scelti da altri”. Pure in quel caso ci si rese conto del degrado che la politica istituzionale aveva subito nel corso degli anni e della sua incapacità (o non volontà) di comprendere i processi sociali che le si dipanavano intorno.

Comunque, dal 2000 al 2019, ogni volta che Roberto Fiore e i fascisti di Forza Nuova hanno provato di mettere piede a Bologna migliaia di antifasciste e antifascisti, attivisti delle reti di movimento e dei centri sociali, sono scesi in piazza, non sottraendosi, quando è stato necessario, alla battaglia di strada.

Dalla guerra tra poveri alle teorie del gender

Dal 2017, in varie parti d’Italia cominciarono a ripetersi diversi episodi catalogabili come “guerra tra poveri”. In quell’anno, a Roma, tra il Corviale e il Tufello, era successo un episodio gravissimo: una giovane famiglia italiana di origine eritrea aveva ottenuto regolarmente una casa popolare e contro quell’assegnazione ad “italiani dalla pelle nera” erano intervenuti quelli di “Roma ai romani”, guidati dal leader capitolino di Forza Nuova Giuliano Castellino.

Il 3 febbraio 2018, a Macerata, in seguito a un gravissimo episodio di cronaca nera in cui erano stati coinvolti cittadini stranieri, un giovane simpatizzante della Lega, Luca Traini, scese in strada con una pistola e sparò ad ogni migrante che gli capitò di incontare, ferendo sei persone. L’episodio di Macerata segnò uno spartiacque in Italia nella percezione del razzismo: Luca Traini era diventato una sorta di simbolo di quel vento reazionario che soffiava nel nostro paese e nel mondo. Quella tentata strage rappresentò una linea di scontro sociale con cui in cui in ambito fascio-leghista veniva legittimata l’aggressione contro gli immigrati. Salvini e Meloni dichiarono: “Questa tensione sociale e violenza sono colpa della sinistra che, spalancando le porte all’immigrazione, ha portato all’esasperazione il Paese”. Ma quel gesto fece scattare anche una molla di riscatto collettivo, capace di portare in piazza nella cittadina marchigiana più di trentamila persone.

Il 4 aprile 2019, a Torre Maura, nell’estrema periferia romana, in un quartiere povero, simile a tanti altri di una delle tante periferie italiane private di servizi essenziali e luoghi di socialità, la presenza dei rom diventò l’alibi per ignobili azioni xenofobe. Il pane che era destinato a quelle persone fu preso, gettato a terra e calpestato da militanti di CasaPound. Quei panini nelle buste trasparenti, schiacciati con le suole delle scarpe, buttati ai lati di un marciapiede, sparsi come rifiuti sull’asfalto della strada, furono il simbolo di una nuova barbarie nemica dell’umanità, vennero usati come proiettili spuntati di una guerra tra i poveri che i salviniani, i razzisti e i fascisti del terzo millennio volevano scatenare con l’odio e il disprezzo per chi era diverso. In quell’occasione, però, ci fu una rivolta, individuale, che ebbe una grande risonanza attraverso un video che circolò via web con migliaia di visite. Si trattava di uno scambio di battute tra gli esponenti di CasaPound e un adolescente del posto di nome Simone. Dopo averli pazientemente ascoltati, il ragazzo 15enne li accusò di «fare leva sulla rabbia della gente per racimolare voti» e disse che «sta cosa di anda’ sempre contro le minoranze a me nun me sta bene che no. Nessuno deve essere lasciato indietro, né italiani, né rom». I neofascisti gli chiesero di che fazione politica fosse, ma Simone spiegò di non averne e rivendicò orgogliosamente la sua appartenenza territoriale: «Io so’ de Torre Maura, che è diverso».

Sempre nel 2019, nel mese di maggio, fummo costretti ad assistere alle grottesche scene di Casal Bruciato, a Roma, dove una dozzina di camerati di CasaPound e qualche accolito del luogo per due giorni tennero in ostaggio una famiglia rom intimandogli di abbandonare la casa, minacciando di essere loro a sfrattarla, se non di bruciarla viva. Quella famiglia era accusata di aver ottenuto l’assegnazione di una casa popolare, portandola via a persone italiane in difficoltà.

Dopo le false barricate innalzate contro l’arrivo di profughi e migranti, i “giovanotti nazionali” iniziarono a mobilitarsi contro la “teoria del gender”, i diritti delle donne e la “sostituzione etnica” dello ius soli. Il razzismo, vistosamente in crescita, produsse cacce agli immigrati e sostenne politicamente la chiusura dei porti e il blocco delle navi delle Ong.

Un altro terreno di scontro cruciale è diventata negli ultimi anni la formazione nelle scuole e nelle università. Non è un caso che, dopo la costruzione comunicativa fasulla della “teoria del Gender” da parte dei fondamentalisti cattolici contro le proposte sull’educazione sessuale, i “fascisti del terzo millennio” abbiano subito fatto propria questa campagna di disinformazione. In conseguenza a tutto ciò, è partito un attacco concentrico contro il mondo Lgbtq+ facendo aumentare a dismisura gli episodi di omofobia e transfobia.

A Bologna, per esempio, ne è stato più volte vittima il Cassero con atti di vandalismo e scritte minacciose. Per questo è stata molto importante la discesa in campo di tutte le realtà Lgbtq+ che, oltre ad organizzare una grande manifestazione, hanno dichiarato come “l’antifascismo, oggi, debba essere parte integrante anche delle lotte delle persone lesbiche, gay, bisex, trans, intersex, asessuali e queer”. Ritenendolo un “fondamento necessario di tutte le battaglie per la trasformazione dell’intera società”, per cui “non può più ridursi ad un mero esercizio di memoria storica, ma deve essere praticato quotidianamente per costruire ingranaggi collettivi in grado di farlo rivivere”. E ancora: “Stiamo assistendo all’avanzata di un clima di odio che alimenta da un lato una guerra tra poveri, ma dall’altro tende a costruire una battaglia socioculturale per ristabilire un determinato ordine sociale… Per questo, la pratica antifascista deve essere fondamento della nostra lotta, e deve connettersi alla battaglia femminista e antirazzista”.

I partigiani e le partigiane sono nelle piazze

Ci piace chiudere questa riflessione di carattere storico evidenziando come le mobilitazioni antifasciste ed antirazziste degli ultimi tempi hanno dimostrato la riemersione di una soggettività giovanile indisponibile al restringimento delle libertà proprio del securitarismo del governo Meloni (ne sono esempio le migliaia di ragazze e ragazzi scese in piazza nel novembre scorso a Bologna contro la cosiddetta “marcia dei Patrioti”).

L’avvento del Governo più fascista (tra quelli che si sono succeduti dal dopoguerra ad oggi) non ha fatto altro che consolidare un pericolo che mai era davvero svanito, certo, ma che negli ultimi tempi ha ripreso vigore e terreno contando sulle paure di sempre, le insicurezze sociali dilaganti e interessate contiguità istituzionali, rinverdendo una pratica su cui l’estrema destra ha sempre puntato e che oggi – tra spinta social alle fake news e media permeabili – gode di particolare fortuna: imporre falsi problemi e, sopratutto, false soluzioni. Questo mentre, di decreto in decreto, l’Italia si trasforma ogni giorno di più in una caserma, in cui alle lotte sociali si risponde a colpi di Codice penale.

Allo stesso tempo, però, a più riprese si è vista una volontà diffusa di reagire agendo sul piano antifascista, antirazzista, transfemminista, ambientalista… Si tratta di affermazioni di libertà, mobilitazioni di resistenza e iniziativa sociale capaci di dimostrare che è ancora possibile rompere la gabbia…

In vista del prossimo 25 aprile, a 80 anni dalla Liberazione, facciamo proprie le parole dell’appello antifa delle realtà Lgbtq+: “Allargare la battaglia e disturbare questo ordine sociale spetta anche a noi, per togliere terreno ai neofascismi che hanno ritrovato purtroppo troppi spazi e troppa legittimità all’interno delle nostre città e dei nostri quartieri”.

Molte delle strade di Bologna sono dedicate ai caduti della Resistenza, più di duemila sono le formelle raccolte al Sacrario di oiazza Nettuno con i ritratti e i nomi dei caduti partigiani. Ricordando quei ragazzi e quelle ragazze che diedero la vita per liberare il nostro paese dalla dittatura mussoliniana, concludiamo con le parole che pronunciò un “frate compagno”, Benito Fusco, commentando una mobilitazione antifa: «L’antifascismo ha senso ed è baluardo quando difende memoria e futuro, con la mente e con il cuore, con le lotte frontali di quei corpi che sono invincibili anticorpi ai nuovi fascismi. I partigiani non sono più in montagna, i partigiani sono nelle piazze».

documentazione
r_emiliaromagna


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