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Il naziskin marcia su Roma
di Gianluca Di Feo
Il fondatore del Movimento politico delle teste rasate. E il leader degli ultrà più duri. Assolti dalle inchieste per raid e ora candidati nelle liste di Francesco Storace
Pochi possono vantare una legge ad personam, una modifica del codice penale ritagliata su misura per le proprie imprese: un privilegio che riguarda solo i protagonisti di vicende che hanno influito sulla vita della Repubblica. Ma in questo caso non si tratta di risolvere i problemi di un singolo, bensì di punire le sue attività. Ed è per questo che non può non sorprendere la candidatura di Roberto Valacchi nelle liste del movimento di Francesco Storace. Per carità: che il partito creato dal transfuga di An rivaluti la tradizione fascista è cosa nota. Non fa nemmeno scandalo il coro ‘Duce! Duce!’ che ha accolto Daniela Santanchè sul palco di Milano o le falangi di saluti romani che segnano ogni comizio della Destra. Il nome di Valacchi però ha una storia particolare, che nasce direttamente dai naziskin e dalla più violenta formazione nata in Italia nell’ultimo ventennio. È stato infatti uno dei cinque padri fondatori del Movimento politico, l’organizzazione che alla fine degli anni Ottanta diede una struttura unitaria alle teste rasate di tutta la Penisola. Finché, dopo una serie di aggressioni e di scontri, nel 1993 il Parlamento votò la legge Mancino: la legge che punisce l’istigazione all’odio razziale venne contestata per la prima volta proprio alla galassia skin che faceva capo a Valacchi e agli altri ideatori del Movimento politico, primo fra tutti Maurizio Boccacci. Il processo istruito dalla Procura di Milano si chiuse però sostanzialmente con un nulla di fatto e l’assoluzione degli indagati: una costante che ha caratterizzato la maggioranza delle inchieste penali sull’ultima stagione dell’estremismo nero.
All’epoca Valacchi era un leader, che non aveva esitato a parlare con Riccardo Luna delle sue imprese in un’intervista a ‘Repubblica’: “Ricordo una volta all’università nell’87. Dovevamo fare un volantinaggio e venni aggredito da un autonomo. Gli saltai addosso sfondandogli la faccia a pugni e calci. L’ho rovinato senza nemmeno levarmi la cinta. Ho una fibbia da mezzo chilo, è l’unica arma che porto”. E ancora: “La scorsa estate ho spaccato la testa a un negro. Non perché era negro: poteva essere anche bianco ma aveva toccato il seno alla mia ragazza. L’ho appoggiato su una Mercedes e l’ho picchiato con la fibbia. Quando ho riaperto gli occhi, il cofano bianco, era rosso sangue”. Hai pensato che potevi ucciderlo? “Quando ti sale l’adrenalina non pensi a nulla. Eppoi quel negro dava sempre fastidio a donne bianche”. Infine il nazismo: “Il nazismo mi piace, non lo nego. L’Olocausto è una balla, forni crematori e camere a gas non sono mai esistiti”. Già allora il giovane non aveva solo fama d’uomo d’azione. È lui, per esempio, a prendere posizione per criticare la lettera aperta contro le teste rasate scritta da Valerio Fioravanti e Francesca Mambro: “Non sanno niente del nostro progetto e sono convinti che si faccia ancora politica come negli anni Settanta, senza nessun programma e con la pistola in mano”.
In quei mesi si riteneva che le squadre ispirate dal Movimento politico avessero condotto pestaggi e raid punitivi contro immigrati, spacciatori, associazioni ebraiche. Al massimo però i procedimenti penali si sono fermati alle responsabilità del singolo picchiatore, senza mai toccare il vertice del partito, che dalla provincia romana si è esteso in tutta Italia con la sigla Base autonoma. Così nel 1997, a 32 anni Valacchi si presenta incensurato alle elezioni comunali di Grottaferrata, dove con la famiglia manda avanti un ottimo laboratorio dolciario, e conquista un posto da consigliere nelle liste di An. Il pasticcere nazi-fascista ha rinunciato al bomber con la croce celtica, porta i capelli meno corti e pesa le parole con più attenzione: “Il cosiddetto Olocausto? Non neghiamo i campi di concentramento, ma il fatto che esistesse una soluzione finale pianificata a tavolino.
Le mie foto con il poster di Rudolph Hess? Erano ironiche e poi Hess non ha fatto nulla”. Non cancella i due tatuaggi sui bicipiti – un cavaliere teutonico come quelli che dalla Tuscolo medievale facevano strage di avversari e il dio Thor – e le sue convinzioni. Inevitabile quindi l’abbandono di Alleanza nazionale dopo la svolta di Gianfranco Fini e l’approdo nelle liste di Fiamma Tricolore dove ritrova vecchi camerati come Boccacci. Per la Fiamma l’imprevista alleanza con Storace, spiazzato dal rapido riavvicinamento tra Fini e Forza Italia, apre all’improvviso prospettive nuove. Valacchi, per esempio, è candidato alla Provincia nei Castelli Romani e la sua elezione non appare improbabile. Dalla sua non ci sono pochi skins, ma una militanza nella destra sociale sempre più estesa, tornata forte nelle scuole, che unisce la battaglia contro clandestini e nomadi al problema della casa e all’assistenza agli anziani. Una presenza attivissima sul territorio abbandonato dagli altri partiti, con mobilitazione concrete anche sulle questioni ambientali. “Facce nuove e radici antiche”, è il suo slogan.
È uno sbaglio considerare figure come Valacchi solo folklore. Perché raccolgono un consenso crescente tra un elettorato confuso e insicuro. E perché hanno una riserva significativa: quella delle curve, dove la destra estrema esercita più del fascino. E che nel Lazio secondo alcune stime possono portare anche 30 mila voti. Lì il protagonista è il responsabile romano di Fiamma Tricolore, Giuliano Castellino, coregista assieme a Boccacci dell’ultima fase di Base autonoma. Negli scorsi 12 anni ha collezionato accuse e assoluzioni, mantenendo una fedina immacolata sotto la camicia nera. Il primo fermo a 19 anni, nel 1996, con un gruppo di ultrà capeggiato da un veterano dei Nar. Per la Digos è stato uno dei registi della svolta dell’estrema destra capitolina, conquistando la leadership sul campo e trasformando l’Olimpico in un sipario per la propaganda.
L’anno chiave è il 1999: si parte dall’assalto del primo maggio contro le forze dell’ordine. Poi a settembre la conquista della Curva Sud mentre all’ingresso dello stadio viene scoperto un sacco con un ordigno micidiale e un gigantesco striscione contro l’allora ministro dell’Interno Rosa Russo Iervolino: l’ipotesi è che la scritta di insulti dovesse spingere la Celere a intervenire, per poi colpirla con la bomba. Una ricostruzione che non si traduce in incriminazioni. A novembre un attentato colpisce il Museo della Liberazione, nella prigione nazista di via Tasso, mentre un altro congegno esplosivo viene piazzato davanti al cinema che proietta un documentario su Adolf Eichmann, uno dei pianificatori dell’Olocausto. Per la Digos le bombe sono opera di Castellino: gli investigatori sostengono che ci sia la sua saliva sul mozzicone usato per accendere la miccia, che sia lui il ragazzo ripreso da una telecamera e che la voce della telefonata di rivendicazione sia la sua. Gli indizi raccolti sono giudicati insufficienti dalla Procura, che archivia tutto scagionandolo. Nove anni dopo, è candidato alla Camera al fianco di Storace e della Santanchè, ma sembra più a suo agio mentre urla con il megafono dal cassone di un camion, in un’atmosfera da comizi anni Settanta, o distribuisce pane gratis ai pensionati. Il suo habitat è la curva giallorossa, dove guida i Padroni di casa e manifesta grande solidarietà anche verso i supporter laziali più duri, in un fronte comune che supera il tifo e tende a coalizzarsi contro la polizia.
Se Castellino e i suoi giurano di riconoscere i principi democratici, come conferma la scelta elettorale, quello irrisolto è il rapporto con la violenza. Dentro e fuori gli stadi. A ottobre prima del match con il Napoli contesta pure l’appello dell’allenatore della Roma Luciano Spalletti contro chi va alla partita con i coltelli: “Io credo che l’allenatore debba fare l’allenatore, il giocatore il giocatore e il tifoso il tifoso. Noi andremo allo stadio a sostenere la Roma. E basta. Naturalmente, non tollereremo violenze in casa nostra”. Quindici anni fa Valacchi teorizzava un concetto di reazione molto determinato: “Quando reagiamo cerchiamo di fare più male possibile. La reazione dipende da una ghiandola. Se secerne più adrenalina, faccio più male”.
(03 aprile 2008)