pubblicato il 2.08.13
Quasi settant'anni di quasi democrazia. Anzi, per nulla. ·
Il 2 agosto 1980 è la data che viene segnata dalla peggior strage avvenuta in Italia dal secondo dopoguerra. Alla stazione di Bologna morirono 85 persone dilaniate da un ordigno collocato nella sala di seconda classe e furono oltre 200 i feriti. A tutt’oggi è rimasta inascoltata la domanda di verità che i parenti delle vittime e un’intera città chiedono con forza a uno Stato sordo e volutamente reticente. E ogni anno si rinnova questa richiesta, ritorna in piazza una protesta sacrosanta verso le autorità del momento, che tanto parlano ma nulla fanno. Il segreto di Stato rimane la pietra tombale su questa e altre vicende.
Molto è stato detto e scritto su quella maledetta mattina, e non è qui mia intenzione entrare nel merito di questo specifico evento.
Questo mio contributo intende piuttosto delineare un quadro generale e una traiettoria dalla “democrazia” e della politica italiana, condizionata da sempre dall’azione legale e criminale di poteri forti del tutto interni e ai posti di comando nella società italiana e in un contesto internazionale.
PRIMO ATTO: STRAGI FASCISTE?
La storpiatura della verità sta nella definizione stessa che i partiti istituzionali e sindacati concertativi danno da sempre di questo fatto: strage fascista, frutto di una strategia eversiva.
In realtà fu strage di Stato.
Così come lo furono le altre: da piazza Fontana a Brescia, all’Italicus, solo per menzionare le più note.
Pasolini ebbe e a dichiarare “Io so”. Cosa sapeva che non si potesse dire, dimostrare, sin da quando in Sicilia con le truppe alleate nel ’43 sbarcarono anche i servizi statunitensi? Sin da quando un corteo di lavoratori fu preso a bombe e mitragliate a portella della Ginestra, nel 1° maggio del 1947?
Viene da dire che la nostra Costituzione, che molti definiscono la migliore del mondo (salvo poi accettare i suoi stravolgimenti nel nome della governabilità), rappresenti soltanto ciò che il paese sarebbe dovuto essere, nella sovranità del popolo, nell’esercizio democratico dei suoi strumenti di sovranità: elezioni, Parlamento, nel diritto al lavoro, alla salute, all’istruzione.
In definitiva, si può dire che ai fascisti si sia data anche troppa importanza: non decidevano certo loro. Se parliamo di gruppi come Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale e così via, sulla scena delle stragi sono stati solo mera manovalanza. Ma sono serviti a una parte della sinistra di allora, quella “storica”, per agire nel contesto di un avvicinamento al regime di classe. Figli di un dio minore nella stretta del rumor di sciabole, e dell’impossibilità di un andare al governo per democratiche elezioni.
Le polemiche del PCI con Camilla Cederna, con Lotta Continua e con tutta la sinistra extra-parlamentare di quegli anni, vertono proprio sulla matrice delle stragi e, conseguentemente sui veri responsabili di quelle bombe.
Per cui, la verità politica (visto che quella giudiziaria sulle stragi è sepolta sotto un cumulo di depistaggi e di sentenze vergognose), è stata bene indicata dalla sinistra rivoluzionaria dell’epoca: si trattava di stragi di Stato, la cui funzione non era eversiva, ma di stabilizzazione di un potere di classe che impedisse ciò che sarebbe stato impedito con ogni mezzo illecito e criminale: l’avanzata delle sinistre e del movimento di classe al governo del paese.
Gladio – Stay Behind, gli apparati dello Stato come il SID, la massoneria della Loggia P2, i collegamenti di queste strutture occulte e reazionarie con i sevizi segreti statunitensi come la CIA, rappresentano nel complesso quel dispositivo del tutto interno allo Stato in funzione anticomunista.
Già da allora ambiti di concentrazione di soggetti di potere sovranazionale, lobbies, potentati finanziari e multinazionali come il Club Bilderberg, erano tra gli ideatori di questa strategia antidemocratica e stragista.
Per quanto riguarda il Club Bilderberg (che vede da sempre nel suo board e tra gli invitati personaggi come lo stesso premier Enrico Letta, Mario Mionti, Mario Draghi e altri) a rivelarlo è il Presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione, Ferdinando Imposimato, in occasione della presentazione napoletana del suo libro “La repubblica delle stragi impunite”. Il video è visionabile qui.
Notizie come queste dovrebbero essere raccolte come bombe dai media. Invece tutto finisce come sempre in cavalleria.
La verità che emerge dai fatti tragici della Prima Repubblica, è che il popolo italiano non avrebbe potuto scegliere il suo governo. Nel regime democristiano, dal dopoguerra in poi, c’erano tutti gli elementi del totalitarismo di un blocco reazionario pronto a tutto.
Sul finire degli anni ’60, primi ’70, il messaggio di inibizione criminale di qualsiasi possibilità di governo per elezione, che venne rivolto al PCI fu colto talmente tanto bene da quest’ultimo, che la scelta fu proprio quella di assogettarsi e partecipare a questo contesto di democrazia condizionata e a far nascere con Berlinguer la scelta di campo anche sul piano internazionale con l’Eurocomunismo.
Le bombe fecero il loro effetto nella politica italiana, mentre il più grande partito comunista dell’Occidente andava modificandosi anche per referenti sociali: il PCI si avviava a spostare il suo baricentro referenziale dalla classe operaia ai ceti medi, sino ad essere interno e agente dei nuovi processi capitalistici di ridefinizione della composizione (o meglio: scomposizione) del lavoro. Lo stragismo e la strategia della tensione furono di grande “aiuto” nel far emergere le tendenze neoborghesi che già agivano nelle strutture del partito e tra i quadri dirigenti.
Se guardiamo al piano di rinascita democratica della P2 di Gelli (concentrazione dei media, infiltrazione, stravolgimento di partiti e sindacati, trasformazione del sistema politico e istituzionale italiano in repubblica presidenziale, quindi trasferimento dei poteri legislativi a un esecutivo forte), vediamo che questo collima perfettamente con i desiderata dei principali gruppi multinazionali e finanziari che hanno dato vita alle summenzionate associazioni elitarie transnazionali.
Ecco perché nella Prima Repubblica della DC è del tutto fuorviante pensare allo stragismo come sovversione. Fu esattamente l’opposto!
SECONDO ATTO. IL PIANO PROSEGUE SU NUOVE BASI.
La scena internazionale e quella nazionale si intrecciano e descrivono i contorni della strategia di condizionamento della “democrazia” italiana e di stabilizzazione del potere capitalista. Tra gli anni ’60 e ’70, le élites capitalistiche del mondo Occidentale (anche se sarebbe una forzatura associarle in toto alla strategia della tensione) avevano il problema di contrastare il blocco socialista e le lotte di liberazione nel Terzo e Quarto Mondo, ma anche di contrastare la rigidità operaia in fabbrica i livelli di reddito indiretto, lo stato sociale e il reddito diretto dei salari e delle pensioni.
L’autonomia di classe, l’autunno caldo, erano state la bestia nera per l’accumulazione capitalistica nelle metropoli dell’Occidente. E dal ’73, con l’avvio della crisi di sovrapproduzione e il disequilibrio della crisi petrolifera, nei nuovi contesti di confronto tra le élites stesse, come la Trilateral e il Club Bilderberg, venne pensata la strategia di stabilizzazione del potere di classe mediante lo svuotamento dei sistemi democratici occidentali.
In Occidente, e in Italia in particolare, da un’azione di contenimento delle lotte autonome di classe e delle rivendicazioni che tendevano ad ampliare i diritti sociali, i servizi e l’accesso alla ricchezza sociale, con il neoliberismo si passa a un attacco selvaggio, frontale verso le cittadinanze, i lavoratori e le loro conquiste.
Gli anni ’80 con il reaganismo, segnano il punto di arrivo di un’epoca di welfare e diritti sociali e nel cntempo l’ondata di privatizzazioni, la precarizzazione del lavoro, l’esternalizzazione dei processi produttivi giungono anche in Italia. Il congelamento della scala mobile è un passaggio fondamentale per l’assoggettamento del lavoro alle nuove logiche dominanti dell’accumulazione capitalistica, il quale diviene una variabile totalmente dipendente dai mercati e dai loro must nella competizione globale.
Con il crollo del blocco socialista e il dilagare delle politiche neoliberiste per tutti gli anni ’90, la stabilizzazione del potere capitalista prosegue sulla base di una riorganizzazione sociale del lavoro in Europa, della sua divisione nell’ambito della nascita del soggetto europeo: un euro-imperialismo voluto principalmente dai ceti dominanti del capitalismo europeo. Le lotte tra soggetti del capitale sono forti e nelle tappe che arrivano a comporre l’Europa delle banche e delle tecnocrazie, da Maastricht alla moneta unica, al Trattato di Lisbona, si forma l’asse dominante tedesco-francese: chi ha assunto l’egemonia economica e chi ha le armi nucleari.
Non entrerò nei dettagli dell’economia del debito con l’ipertrofia monetaria che diviene bomba ad orologeria per il sistema finanziario nella competizione globale e al tempo stesso dispositivo di comando su governi e cittadini, o della trasformazione di intere economie del sud Europa come Grecia, Portogallo, Spagna e Italia da aree di consumo composte da ceti sociali dal buon potere d’acquisto a bacini di forza lavoro precarizzato e in concorrenza con quella dell’est europeo e asiatica, nella devastazione e falcidia selvaggia delle piccole e medie imprese per recessione, imposizione fiscale e monopolio.
Mi limito a osservare che la governamentalità neoliberista delle élites sovranazionali deterritorializzate, le dinamiche della turbofinanza, come sostenevo poc’anzi, hanno come denominatore comune il depotenziamento delle democrazie parlamentari. Occorre velocità di decisione e la tecnocrazia finanziaria spacciata per “neutra” assume i contorni di un dogma indiscutibile.
Crisi sistemica strutturale non significa crollo del capitalismo. I ceti dominanti del capitale hanno la capacità di trasformare la crisi in opportunità di attacco alle classi sociali subalterne, ai lavoratori. A usare la finanza come dispositivo di comando sulla forza-lavoro, e su ogni ambito della riproduzione sociale, di predazione con l’economia del debito (quella che David Harvey definisce: “accumulazione capitalistica per spoliazione”). E con la nuova fase neoliberale, gli strumenti volti ad aggredire il welfare, a sottrarre ricchezza sociale, beni comuni, a piegare le condizioni di lavoro fino a ledere i diritti più elementari e il reddito dei lavoratori e dei pensionati fino a salari da sussistenza, non potevano non avere come elemento fondamentale di governance la concentrazione dei poteri e una catena di comando che parte da organismi neppure eletti dal Parlamento europeo: la BCE e la Commissione Europea.
Gli anni della nascita dell’Eurozona e della Seconda Repubblica in Italia, si caratterizzano per un processo politico autoritario che è la copia carbone del piano gellista. La P2 finisce, Gelli va in galera (almeno per un po’), ma restano intatti, persino dalla furia giustizialista di Tangetopoli, i livelli di comando reali, si badi bene: non di un piano occulto di servizi deviati, bensì i centri di potere economico e politico che hanno saputo utilizzare mezzi legali e mezzi criminali per orientare l’intera politica italiana al grande processo di riconversione del sistema capitalista in chiave neoliberale anche in Italia.
Il berlusconismo è stato molto utile per questa involuzione autoritaria. Non solo per la concentrazione dei media nelle mani di poteri forti, per un loro uso che ha saputo imporre i modelli culturali e gli stili di vita propri del pensiero unico, per la morte del proporzionale e per il porcellum. Ma anche per la degenerazione politica e culturale, lobbistica, di partiti e dei sindacati, ormai in balia di comitati d’affari e di consorterie che entrano ed escono dai vari Club Bilderberg, organici al comando neoliberista.
Chi se non l’erede dei dettami della P2, con le forze borghesi paracriminali e della destra reazionaria che l’hanno sostenuto, meglio poteva condurre questo gioco?
Ma quando un soggetto di regime e la sua cricca diventano ingombranti, vince il banco che regge questo gioco. Con la crisi dei subprime e lo scoppio della grande bolla finanziaria, occorrevano risposte europee forti e veloci in grado di contrastare la guerra monetaria in atto tra blocchi ecomomici dell’area atlantica.
E alla luce di questo passaggio politico imposto dalle élites della finanza europea, ciò che sta accadendo in questa nuova fase diviene ben comprensibile. Dal colpo di mano della troika con la lettera a Napolitano di Draghi-Trichet nel 2011, che ha portato alla destituzione del governo Berlusconi, palesemente inadatto ad adottare il piano di “risanamento dei conti” delle tecnocrazie di Bruxelles, sino all’avvento del governo Monti: non eletto da nessuno.
Nel 2011, il colpo di grazia alla nostra democrazia condizionata ha il suo inizio.
TERZO ATTO. IL PRESIDENZIALISMO ALLE PORTE.
Sul finire di luglio, un’armata sgangherata di deputati, senza arte né parte, né di destra né di sinistra, o tutt’e due insieme, ha tenuto testa nell’aula della Camera al peggior attacco che la (pur sempre condizionata) democrazia italiana abbia mai subito.
Perché se cade il bastione dell’art. 138: un capolavoro di ingegneria legislativa dei nostri padri costituenti, quello che resta del castello della Costituzione crolla. E il sistema repubblica italiana diventerà per mano di una non maggioranza del paese (per altro molto occasionale e artefatta) una repubblica presidenziale.
L’armata è quella grillina e gli attaccanti sono quelle consorterie dentro partiti come PdL, PD, Scelta Civica, che hanno già passato il primo ponte levatoio con il Governo Letta, dopo la nomina del Napolitano bis, e che rispondono ai dettami della tecnocrazia europea e dei “mercati finanziari”, leggi: l’oligarchia finanziaria neoliberista che ha preso piede con le sue lobbies nell’Occidente, in tutte le cancellerie e sale ovali.
Grazie all’ostruzionismo del M5S, la partita è stata rinviata a settembre.
Non ho in simpatia il grillismo. E la sacrosanta opposizione che ha bloccato il colpo di mano agostano, palesemente anticostituzionale, portato avanti dal governo Letta con il DDL 813, non mi fa cambiare idea sul fatto che il M5S sia una sciagura per lo sviluppo di un’autentica opposizione politica e di classe. Ma il tour de force che le forze di Grillo hanno portato avanti alla Camera è stato oggettivamente un utile contrasto a questo tentativo di forzatura autoritaria dei dettami costituzionali.
Per il resto nessuna mobilitazione. Solo qualche articolo sui giornali d’opposizione e un appello di alcuni costituzionalisti ed esponenti della sinistra che non si è venduta (andare qui). E il ritardo della sinistra antagonista e di classe nel tenere la scena politica è ancora più inquietante, proprio nella gravità del momento storico e politico italiano e internazionale.
Ma cosa sta accadendo? Succede che il piano procede spedito nel suo terzo atto: le cricche di governo e dei partiti al servizio dell’eurocrazia neoliberista e dell’oligarchia finanziaria, con la complicità dei media e l’indifferenza da ombrellone della pubblica opinione, hanno cercato di ridurre i tempi da tre mesi a 45 giorni che l’art. 138 prevede per approvare modifiche strutturali alla Costituzione. Per evitare che non sia la maggioranza del momento a modificare la fisionomia del sistema costituzionale, ma l’intero Parlamento nella maggioranza di due terzi o, in assenza di questa, i cittadini mediante una consultazione referendaria. Lo scardinamento delle garanzie dell’art. 138 in materia di modifiche costituzionali, conduce dritto a una repubblica presidenziale, che verrà proposta dalla quintessenza del porcellum: i saggi pescati tra i partiti che stanno cercando di svuotare definitivamente quello che resta delle funzioni istutizionali e legislative del sistema costituzionale italiano.
E la debolezza del quadro politico italiano, aumentata ulteriormente con il risultato delle ultime lezioni, non fa che confermare la necessità dei gruppi dominanti di puntare ancora con più urgenza a una concentrazione dei poteri.
E’ di qualche settimana fa l’uscita della Morgan Stanley con un documento che è la perfetta sintesi di questa strategia neoliberista. In buona sostanza la Morgan Stanley ci dice che le democrazie nate dalle Resistenze nel secondo dopoguerra del Novecento sono lente, obsolete perché conferiscono troppo potere ai cittadini, perché non consentono le necessarie, agili e spregiudicate manovre di risposta ai mercati finanziari, le “inevitabili” (perché tecniche amministrative pure”) politiche di compressione salariale, di attacco alle pensioni, al welfare, di accumulazione capitalistica per predazione. Le Costituzioni democratiche pensate dagli antifascisti dell’epoca non consentono una governance libera dai lacci parlamentari, dalle consultazioni popolari, dalle vertenze sindacali sul lavoro e sociali sui diritti, considerati solo degli ostacoli.
A schiocco di dita, il servo risponde. E infatti, se guardiamo la foresta dall’alto, e non il singolo albero di volta in volta, vediamo come gli attori di questo processo autoritario: attori apparentemente “di sinistra”, palesemente collusi con la destra reazionaria berlusconiana, e unitamente a questa, ci stiano portando al totalitarismo delle banche e dei tecnocrati. E se associamo l’accordo sulla rappresentanza siglato dai sindacati concertativi CGIL, CISL e UIL al DDL 813, e se poi ci aggiungiamo l’inerzia soporifera e disinformante della maggioranza dei media, la quadratura del centro è piena: tutto collima con il piano di Licio Gelli.
Lo stesso ruolo di Napolitano, che va ben oltre le normali prerogative e compiti di un Presidente della Repubblica, è di fatto una prova generale verso un premierato forte. La fiducia popolare (ben disposta dai media) verso un presidente che suggerisce, ammonisce e bacchetta i partiti, definisce quali sono gli avversari della “democrazia” (guarda caso NoTav e movimenti antagonisti in genere), orienta il governo sulla linea politica da tenere: sempre rigidamente dentro il solco dei desiderata dell’oligarchia finanaziaria, è il collante necessario per tenere in piedi l’intero carrozzone. Soprattutto ora, in cui con la sentenza di condanna a Berlusconi di ieri, può aprirsi una crisi politica che condanna il governo Letta a finire a breve e il paese a un ulteriore momento di vuoto istituzionale, preludio di ulteriori e più spregiudicate forzature anticostituzionali.
Napolitano è una garanzia per i potentati: è la figura giusta per contenere il populismo delle destre reazionarie e metabolizzarlo in altre coalizioni e procedere col ruolino di marcia delle tecnocrazie europee.
A questo va aggiunta la più completa assenza di un’opposizione politica nel paese e la presenza (per citare Marco Revelli) di due destre gregarie tra loro, che rappresentano i precari equilibri di un sistema politico che è il prodotto delle contraddizioni tra settori di borghesia dominante. Sistema che ha lasciato ad altri poteri più forti le decisioni strategiche in materia di politica economica.
Fuori dalla vergogna del tradimento della maggiore forza politica, il PD, vissuto in questi ultimi mesi dal “popolo di sinistra e delle primarie”, c’è solo un antiberlusconismo giustizialista, che si alimenta di nostalgie berlingueriane per il grande partito, tra conti sugli stipendi dei parlamentari, auto blu, bunga bunga e alcove del cavaliere. Mentre il nemico principale è soprattutto altrove (magari ce l’hai pure in casa…). E la predazione si muove su altri numeri, quelli che incidono sulla nostra vita.
Ai lavoratori, ai cittadini, ai precari, vengono tolti ormai molto velocemente tutti i dispositivi costituzionali, legislativi, referendari, politici e sindacali per incidere sulle scelte strategiche e tattiche in materia economica, salariale, di diritti sul lavoro e sociali, cultura e istruzione, welfare e diritti alla persona. In altre parole per non dare sponde e legittimità a concreti e reali rapporti di rappresentanza parlamentare, istituzionale e sindacale.
L’autoritarismo neoliberista trasforma i cittadini in sudditi di un’oligarchia tecnocratica e finanziaria deterritorializzata, sovranazionale, gli utenti in debitori che comprano servizi, pensioni, i lavoratori e quella che era una larga parte dei ceti produttivi (PMI, piccolo commercio, sottoposti a un processo di proletarizzazione selvaggia) in forza-lavoro eternamente precaria e, per reddito, ai limiti della sopravvivenza.
Il presidenzialismo è alle porte e questi quasi settant’anni di poca o nulla democrazia fatta di morti nelle piazze, nelle stazioni, per squadrismo fascista e poliziesco, di bombe e repressione, non possono avere questo epilogo. Non possiamo lasciarglielo fare.
Così come l’esistenza di milioni di persone sempre più impoverita e degradata da politiche decise altrove e una protesta diffusa e frammentaria che non trova organicità e progetto, non possono non avere risposta alla domanda di uscita dal nuovo grande lager dello sfruttamento e dell’economia del debito.
Le premesse per dare una risposta organizzata e di progetto ci sono tutte. Da Taranto al Sulcis, da Niscemi a Fabriano, da Torino a Roma, la lotta di classe c’è. C’è materia di lavoro politico. C’è la possibilità di fare emergere dalle realtà sociali in lotta un’ipotesi di alternativa politico-sociale che sappia porsi su un piano anticapitalista e di ricostruzione di un tessuto di solidarietà sociale e di identità collettiva. Serve la volontà di ripartire dall’autonomia di classe, da un percorso di unità e di progetto della sinistra antagonista e anticapitalista, che tanto potrebbe fare se solo lo volesse. Se solo non fosse preda di settarismi e lotte intestine.
Ma questa è un’altra storia.
https://www.carmillaonline.com/2013/08/02/quasi-settantanni-di-quasi-democrazia-anzi-per-nulla/
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