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2.02.24 Bastonate e insulti omofobi al Gay Center di Roma in zona Testaccio: video del blitz ripreso dalle telecamere
31.08.22 La violenza che ci sommerge: Noi sappiamo
16.11.21 Mirko minacciato davanti alla gay street da 4 ragazzi armati: “Fr*** di mer**, ti tagliamo la gola”
2.11.21 Ferrara, aggressione omofoba contro un gruppo di giovani Lgbt. "Mussolini vi brucerebbe tutti"
16.08.21 Aggressione omofoba ad Anzio, 22enne preso a pugni mentre passeggia insieme al fidanzato
11.06.21 Torino, 13enne picchiata per la borsa arcobaleno: “Mi urlavano cagna e lesbica schifosa”
30.05.21 Palermo, due ragazzi gay aggrediti con lancio di bottiglie. Uno ha il naso fratturato
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manifestazioni MANIFESTAZIONI E INIZIATIVE ANTIFASCISTE
Le mille strade del rugby popolare
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23.07.24 È la «Torino nera» quella che sabato sera si è scagliata contro il giornalista de La Stampa Andrea Joly
13.07.24 Dentro la Verona “nera”, i tre episodi che hanno segnato la cronaca della città e messo nel mirino i sostenitori di Casapound
10.05.24 "La ragazza di Gladio" Le stragi nere? Misteriose ma non troppo.
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26.05.23 La “Legione per la Libertà della Russia” e l’offensiva di Belgorod
16.03.23 Dax, 20 anni fa l’omicidio. Parla l’avvocato che difese la famiglia
13.03.23 «Saluti romani, odio e camerati: i miei sei mesi da infiltrato nelle cellule neofasciste del Nord»
3.03.23 Gruppo armato anti-Putin penetrato nel confine russo con l'Ucraina - Tra loro il neonazista Denis "White Rex" Nikitin
30.01.23 Il neofascista Roberto Fiore smentito dall’Interpol: “Viveva con Gilberto Cavallini”
25.01.23 L’ex camerata in affari con Fratelli d’Italia e le bastonate ai carabinieri
9.12.22 La nuova ultradestra
18.11.22 Quel filo che dall’Ordine di Hagal arriva a CasaPound
19.10.22 Giorgia Meloni firma la Carta di Madrid di Vox
7.10.22 GRUPPI NEONAZISTI USA
16.09.22 L’Europa nuovamente alle prese con l’avanzata dell’estrema destra
15.09.22 Ultradestra, la galassia nera torinese messa in crisi dall’ascesa di Meloni
10.09.22 Sette decenni di collaborazione nazista: Il piccolo sporco segreto dell'America in Ucraina
28.08.22 Inchiesta su M. 2/3

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Informazione Antifascista 1923
Gennaio-Febbraio - a cura di Giacomo Matteotti ·


pubblicato il 23.07.20
Strage di Bologna, chi è stato
·
Cinque milioni di dollari dal capo della P2 Licio Gelli per finanziare i terroristi neri e comprare la complicità degli apparati di sicurezza. Ecco le carte mai apparse prima che svelano il volto dei mandanti della strage più grave della storia repubblicana

23 luglio 2020
Esclusivo - Strage di Bologna, chi è stato

- "Anticipo" e "Saldo"
- Cinque milioni
- Il documento Artigli
- Spia con prestanome
- L'ex moglie di Bellini: è lui



I soldi sporchi di Licio Gelli: cinque milioni di dollari rubati al Banco Ambrosiano e distribuiti nei giorni cruciali della strage. I conti esteri segreti della super-spia Federico Umberto D’Amato. Le manovre per far sparire i documenti che collegano il capo della P2 all’eccidio di Bologna. I legami inconfessabili tra i terroristi dei Nar e il killer fascio-mafioso Paolo Bellini. E i ricatti allo Stato. Documentati da appunti “riservatissimi” del capo della polizia, tenuti nascosti in un deposito clandestino, insieme a pezzi di ordigni esplosivi sottratti alle indagini sulle prime bombe nere.

Sono gli ultimi tasselli del mosaico criminale della strage di Bologna, il più grave attentato nella storia della democrazia italiana. Quarant’anni dopo la bomba neofascista che il 2 agosto 1980 ha ucciso 85 innocenti nella stazione dei treni, le nuove indagini della procura generale hanno identificato, per la prima volta, i presunti mandanti. A differenza di troppe altre stragi nere, lo spaventoso attentato di Bologna non è rimasto impunito. Come esecutori sono stati condannati da tempo, con diverse sentenze definitive, tre terroristi dei Nar: i capi, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, e il loro complice allora 17enne Luigi Ciavardini. L’ultimo processo, chiuso in primo grado nel gennaio scorso, è costato l’ergastolo a un quarto killer neofascista, Gilberto Cavallini. Anche le responsabilità di Licio Gelli, morto nel 2015, sono già state accertate per i depistaggi successivi alla strage: il capo della loggia P2 è stato condannato in via definitiva come stratega di una lunga serie di trame per inquinare le indagini, accreditare false piste estere e coprire i terroristi di destra con base a Roma. Manovre gestite dallo stesso Gelli, a partire dal settembre 1980, e culminate in un depistaggio di stampo terroristico, organizzato dai capi del servizio segreto militare: nel gennaio 1981 una cordata di dirigenti del Sismi, guidata dal generale Giuseppe Santovito e dal colonnello Piero Musumeci, fa ritrovare sul treno Taranto-Bologna un carico di armi e di esplosivi identici alla bomba del 2 agosto, accanto a falsi documenti di due fantomatici terroristi stranieri.

Nel marzo 1981, quando i giudici milanesi riescono a sequestrare la lista segreta degli oltre 900 affiliati alla loggia di Gelli, che comprende ministri, parlamentari, editori, banchieri, militari e magistrati, si scopre che entrambi i depistatori sono iscritti alla P2, con tanto di tessera: numero 1630 per Santovito, allora capo del Sismi, 487 per il suo braccio destro Musumeci. Tutti piduisti, come gli altri due militari dei servizi (l’ex Sid) condannati in via definitiva per aver inquinato le indagini sulla bomba di piazza Fontana a Milano, la prima strage nera, sempre per proteggere terroristi neofascisti. Ora la procura generale aggrava le accuse contro i vertici della P2: Licio Gelli e il suo tesoriere Umberto Ortolani sono considerati «mandanti» e «finanziatori» della strage. Le nuove indagini, che devono ancora superare l’esame dei processi, disegnano una svolta storica, che ha una logica: Gelli ha depistato le indagini perché lui stesso ha pianificato la strage. D’intesa con Ortolani, il cervello finanziario della P2, accusato di aver procurato tra 5 e 10 milioni di dollari usati per finanziare i terroristi neri e comprare complicità di apparati dello Stato, politici di estrema destra e servizi segreti, militari e civili. Una tesi che si fonda sull’incrocio tra le indagini sul terrorismo nero e i processi sul più grave misfatto economico dell’era P2: la bancarotta dell’Ambrosiano, la banca milanese portata al fallimento da Roberto Calvi, il banchiere piduista ucciso nel 1982 a Londra (inscenando un finto suicidio).

”ANTICIPO”E “SALDO”
La pista dei soldi parte da un “appunto” sequestrato a Gelli il 17 marzo 1981, nel suo ufficio-covo di Castiglion Fibocchi, con la stessa perquisizione che fece scoprire la lista della P2. Insieme a molte carte ricattatorie su tangenti a politici, scalate finanziarie e altri affari criminali gestiti dalla loggia. In questo appunto, scritto a mano, Gelli riassume un’operazione da 5 milioni di dollari, gestita attraverso M. C.: il suo fiduciario italo-svizzero Mario Ceruti. Nella parte alta del foglio, il capo della P2 annota di aver «consegnato contanti», per «un milione di dollari», «dal 20 al 30 luglio 1980». Denaro uscito dalla Svizzera e distribuito in Italia, come mostrano altre carte, proprio alla vigilia della strage di Bologna. Negli stessi giorni in cui i terroristi dei Nar si spostano in Veneto, ospiti di Cavallini, per gestire l’esecuzione dell’eccidio. Il 30 luglio 1980, mentre arriva l’ultima parte dei contanti di Gelli, a Milano esplode un’autobomba all’ingresso del Comune, subito dopo il varo della giunta rossa: un attentato che provoca solo feriti per il guasto di uno dei due inneschi. Le indagini sugli esplosivi e sull’auto (rubata) attribuiscono anche quella “strage sfiorata” a terroristi dei Nar, ma gli esecutori restano ignoti. Un altro attacco terroristico contro una città simbolo della sinistra, dunque, programmato due giorni prima della strage di Bologna. Nella stessa data di consegna dell’ultima quota del misterioso “anticipo” versato da Gelli: il «20 per cento» dello stanziamento totale.

Gli altri quattro milioni vengono accreditati in banca a Ginevra poco dopo la strage, il primo settembre 1980. Vengono gestiti dal solito Ceruti e da un’impiegata della banca svizzera Ubs. Quei bonifici chiudono l’operazione da cinque milioni avviata dal capo della P2 nei dieci giorni che precedono l’autobomba di Milano e la strage di Bologna. Ai primi di settembre, in coincidenza con i bonifici, Gelli si espone di persona per orchestrare i primi depistaggi: ordina a un dirigente piduista del servizio segreto civile (Sisde) di smettere di indagare sui terroristi dei Nar, per privilegiare una falsa pista estera. La Guardia di Finanza di Bologna, nella relazione finale del novembre scorso, osserva che l’appunto sui 5 milioni è diviso da una linea orizzontale, che separa i contanti di luglio dai bonifici di settembre, «quasi a significare un evento» che fa spartiacque tra “anticipi” e “saldo”.

CINQUE MILIONI
L’origine e la destinazione di quei cinque milioni vengono chiarite da un altro manoscritto di Gelli, chiamato “documento Bologna”, tenuto nascosto per anni. È un prospetto contabile, sequestrato al capo della P2 nel giorno del suo arresto in Svizzera. Il 13 settembre 1982 Gelli si presenta nella sede dell’Ubs di Ginevra, dove ha accumulato 280 milioni di franchi elvetici sottratti al Banco Ambrosiano. Chiede di spostare i soldi, per evitarne il sequestro, ma la banca avverte la polizia. In una tasca, il burattinaio della P2 nasconde carte ricattatorie: documenti e conteggi di affari fuorilegge. Il prospetto incriminato ha un frontespizio scritto a macchina: un numero di conto, «525779 – X.S.», preceduto da un’indicazione: «Bologna». Nel foglio successivo, Gelli ha incolonnato cifre, conti bancari, nomi abbreviati e sigle in codice dei beneficiari. In totale, fanno 9 milioni e 600 mila dollari, versati nei mesi della strage e dei depistaggi, fino al 12 febbraio 1981. Per finanziare un’operazione che lo stesso Gelli collega a Bologna.

Il numero del frontespizio corrisponde a uno dei conti svizzeri dove Gelli ha nascosto il bottino dell’Ambrosiano. Gli inquirenti segnalano che una parte del “documento Bologna” coincide con il precedente “appunto” sui cinque milioni. Il “saldo” di quattro milioni, in particolare, risulta affidato al fiduciario Ceruti su due conti svizzeri aperti proprio il primo settembre 1980. Lo stesso Gelli annota altri bonifici collegati, isolando una cifra: un milione di dollari. Che corrisponde ai contanti «anticipati» prima della strage. La ricostruzione è confermata da un altro documento sequestrato a Gelli nel giorno dell’arresto, intitolato proprio “anticipi”. Conclusione: Gelli ha versato un milione in contanti per Bologna e poi se l’è ripreso a spese della banca di Calvi, che era diventata la tesoreria occulta della P2. L’analisi dei tre conti svizzeri al centro del caso, infatti, mostra che tutti i soldi erano usciti dalle casse del Banco Ambrosiano Andino, a partire dal febbraio 1979, per finire a Ortolani, che nei mesi successivi se li è divisi con Gelli. Questa scoperta, unita ad altri indizi, permette di retrodatare di un anno la genesi dell’operazione Bologna: nel nuovo atto d’accusa, i magistrati scrivono che l’attività «preparatoria» nella strage è iniziata proprio nel febbraio 1979.

Negli stessi mesi i Nar e altri gruppi collegati del terrorismo nero romano, come Terza Posizione, cominciano a beneficiare di una pioggia di finanziamenti misteriosi, per comprare «armi ed esplosivi senza limiti di prezzo». E nello stesso periodo inizia la deriva stragista dei Nar: dopo decine di omicidi mirati, i terroristi neri passano agli attentati di massa, come un attacco con bombe a mano contro un’affollata sede romana del Pci (giugno 1979, oltre 20 feriti gravi) o i 55 candelotti di dinamite collocati in pieno giorno nella piazza del Consiglio superiore della magistratura. A indagare, in una capitale dominata dalla P2, c’è solo il pm Mario Amato, che nella sua ultima audizione al Csm, poco prima di morire, ricorda che quella progettata strage di giudici e passanti è fallita «soltanto perché non ha funzionato il timer». Amato è stato assassinato il 23 giugno 1980 dagli stessi terroristi dei Nar che cinque settimane dopo hanno perpetrato la strage di Bologna.

IL DOCUMENTO ARTIGLI
Le carte svizzere di Gelli arrivano in Italia solo nel 1986. Il documento Bologna, però, viene insabbiato. Ai giudici milanesi, che lo interrogano per la bancarotta dell’Ambrosiano, viene trasmesso solo il prospetto con le cifre, senza il frontespizio. Ai magistrati viene così nascosto il collegamento tra quei soldi e Bologna. Quindi al capo della P2 non viene fatta nessuna domanda sulla bomba del 2 agosto 1980, anche se è già indagato per i depistaggi. Ora la procura generale ha identificato un maresciallo, sospettato di aver inserito nel fascicolo una fotocopia senza il frontespizio, ma il reato di favoreggiamento è ormai prescritto. La gravità del caso è oggi confermata anche da un suo superiore, sentito come testimone. Il maggiore Francesco Carluccio, un incorruttibile protagonista delle indagini contro la P2, intercettato dopo la deposizione a Bologna, si sfoga così con l’ex collega: «Io non so se qualcuno ha messo la manina... Ma con le prove che hanno loro, hanno ragione... Le carte che hanno sono giuste, al posto loro avrei fatto le stesse cose».

Un errore involontario di fotocopiatura è possibile, ma molto improbabile, sia per l’importanza di quei manoscritti (pieni di segreti della P2), sia per un’altra scoperta recente: l’insabbiamento del documento Bologna coincide con una precisa richiesta di Gelli. Comprovata da un altro documento fatto sparire: un appunto «riservatissimo» del capo della polizia. Mai protocollato. Né segnalato ai giudici. E ora ritrovato dai magistrati di Bologna tra le carte del cosiddetto deposito della via Appia: un archivio segreto dell’Ufficio Affari riservati, scoperto solo nel 1996, dopo la morte del suo storico capo, Federico Umberto D’Amato. Questa nota del Viminale, ribattezzata “documento artigli”, è datata 15 ottobre 1987 (tra l’arrivo delle carte di Gelli e la sparizione del frontespizio Bologna), è firmata dall’allora capo della polizia, Vincenzo Parisi, già direttore del Sisde, ed è indirizzata al ministro dell’Interno, Amintore Fanfani, che è morto vent’anni fa e non si sa se l’abbia mai ricevuta. Parisi descrive un incontro della sera prima tra l’allora direttore della polizia di prevenzione, Umberto Pierantoni, e l’avvocato Fabio Dean, difensore di Gelli. Il legale, ricevuto alle 20.15 nell’ufficio del poliziotto (che riferisce tutto a Parisi), è venuto a protestare contro l’accusa di depistaggio della strage di Bologna. L’avvocato dice che la polizia «può fare molto» per «ridimensionare il tutto». Sostiene che il capo della P2 ha già «contattato» altri politici «del Psi e della Dc» e invita «il ministro» a «prendere in mano la situazione». In caso contrario, Gelli «tirerà fuori tutti gli artigli che ha». Una minaccia precisata solo «al termine dell’incontro»: l’avvocato fa sapere che «tra i documenti sequestrati a Gelli nel 1982, vi sono degli appunti con notizie riservate, che spetterà allo stesso Gelli avallare o meno, sulla base di come gli verranno poste le domande». Un ricatto allo Stato, insomma, fondato proprio sul “documento Bologna”. Ricatto doppiamente riuscito: il frontespizio della contabilità segreta di Gelli sparisce dagli atti giudiziari; e lo stesso “documento artigli” viene imboscato tra le carte dell’archivio non ufficiale di D’Amato. Dove nel 1996 era spuntato perfino un ordigno esplosivo, mai consegnato alla magistratura: una delle bombe sui treni dell’agosto 1969, che sono costate una condanna definitiva a Franco Freda e Giovanni Ventura, i padri ignobili del terrorismo nero.

SPIA CON PRESTANOME
A Federico Umberto D’Amato viene attribuito anche lo pseudonimo, “Zafferano”, usato da Gelli per occultare il beneficiario di 850 mila dollari del documento Bologna. I familiari delle vittime della strage, con gli avvocati di parte civile, sono i primi a intuire che quel nome in codice può coprire il big dell’Ufficio affari riservati, anche lui iscritto alla P2 (tessera 1620), per anni custode dei rapporti con la Cia e Gladio. Lo stesso D’Amato, “poliziotto e gourmet”, aveva anche di una rubrica di gastronomia sull’Espresso, ha lasciato qualche indizio nei suoi libri di cucina, dove celebra quella «spezia che ha mutato il corso della mia vita». Le prime conferme arrivano dalle carte svizzere: gli 850 mila dollari dell’operazione Bologna risultano divisi in cinque bonifici, versati da Gelli e Ortolani tra il 16 febbraio 1979 e il 30 luglio 1980. E gli ultimi quattro versamenti, per un totale di 506 mila dollari, corrispondono esattamente alla cifra bonificata su un conto svizzero chiamato “Federico”, all’Ubs di Ginevra. Per chiudere il cerchio su Zafferano, resta una domanda: la super-spia piduista aveva davvero conti in Svizzera fin dal 1979, quando era reato portare soldi all’estero?

A confessarlo è lo stesso D’Amato, in una testimonianza finora rimasta segreta: una deposizione in Svizzera, nel 1991, per difendere il suo fiduciario, Michel De Gorsky, arrestato a Ginevra. Il fiduciario giura di non essere un evasore, ma di aver gestito soldi di clienti stranieri, come il poliziotto italiano. E D’Amato conferma di averlo usato come prestanome: «Gli ho consegnato soldi spesi interamente nel mio interesse, avevo fiducia totale in lui, non volevo risultare titolare di un conto a nome mio in una banca svizzera». Quel conto in effetti è intestato una società anonima svizzera, denominata Oggicane, creata nel 1979 e amministrata dal fiduciario. D’Amato conferma che era sua e ammette di averla usata, tra l’altro, per comprare un appartamento in centro a Parigi, nel 1979, per l’equivalente di 294 mila dollari: una cifra che corrisponde al primo bonifico a favore di “Zaf”, annotato da Gelli nel “documento Bologna” e in un altro appunto, chiamato “memoria”, che portava con sé nel giorno dell’arresto.

L’EX MOGLIE DI BELLINI: È LUI
Finora s’ignorava che un dirigente della polizia e dei servizi del calibro di D’Amato avesse un tesoro nascosto in Svizzera e Francia, non giustificabile dai suoi stipendi italiani. L’unico a saperlo, già prima della testimonianza segreta di Ginevra, era proprio Gelli. Infatti nel fascicolo intestato a D’Amato, custodito nell’archivio segretissimo del capo della P2 in Uruguay, si legge questa frase ricattatoria: «La posizione di D’A. in Svizzera e presso la banca Morin di Parigi (versamenti americani) è rilevantissima».

Se Gelli, Ortolani e D’Amato hanno portato nella tomba i loro segreti, dell’accusa di strage, oggi, risponde Paolo Bellini, il quinto presunto esecutore materiale, insieme ai quattro terroristi dei Nar: una serie di intercettazioni e testimonianze lo indicano come l’uomo che ha portato l’esplosivo a Bologna. E un’agenda di Cavallini dimostra che aveva rapporti inconfessabili con i Nar. Di certo Bellini è stato un criminale al servizio di molti padroni, con fortissime protezioni. Da neofascista di Avanguardia nazionale, nel 1975 ha ammazzato uno studente di sinistra a Reggio Emilia. Poi è passato alla criminalità comune con tentati omicidi e furti di opere d’arte. E negli anni ’90 è diventato un killer della ’ndrangheta emiliana, come lui stesso ha confessato dopo l’ultimo arresto. All’epoca della strage, era latitante e faceva il pilota d’aereo in Italia spacciandosi per brasiliano con passaporto di copertura del regime militare. Inquisito già allora per la bomba di Bologna, in base all’identikit di un «uomo visto allontanarsi precipitosamente dalla sala d’aspetto della stazione poco prima dell’esplosione», fu prosciolto grazie a un alibi fornito dalla famiglia, che lo collocava a Rimini. La nuova indagine ha però recuperato un video girato da un turista tedesco: poco prima dell’eccidio, in stazione c’è davvero un uomo identico a Bellini. Ora riconosciuto anche dalla sua ex moglie, che ha confermato ai magistrati le confidenze (intercettate) che aveva fatto nel 2019 al loro figlio: «La persona ritratta nel fermo immagine è il mio ex marito Paolo Bellini. Prima il mio cuore rifiutava questa possibilità. Il particolare della fossetta, una piccola cicatrice, mi ha consentito di riconoscerlo». La signora parla anche dei rapporti di Bellini con «un magistrato massone» e «un carabiniere» che «lo faceva lavorare per lo Stato». E giura di essere rimasta «particolarmente colpita» da «un telegramma che mio marito mandò a Francesco Cossiga quando cessò l’incarico di presidente della Repubblica». L’ex moglie di Bellini ricorda ancora il testo del messaggio: «Sarai sempre il mio presidente».

stragismo
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