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Informazione Antifascista 1923
Gennaio-Febbraio - a cura di Giacomo Matteotti ·


pubblicato il 30.07.20
Strage di Bologna, false piste estere pagate da Gelli per favorire i Nar
·
Tangenti della P2 a politici e giornalisti per screditare le indagini sui terroristi neofascisti. E dopo la bomba, una raffica di omicidi di magistrati, poliziotti e camerati che sapevano troppo. Quarant'anni dopo l'eccidio del 2 agosto 1980, ecco i verbali della nuova inchiesta sui mandanti

30 luglio 2020

La strage nera più spaventosa e inconfessabile. La raffica di omicidi degli eroi civili, magistrati e poliziotti che per primi hanno osato indagare sui terroristi di destra. Le uccisioni di stampo mafioso dei camerati che si opponevano alla deriva stragista dei Nar. Le inchieste di Giovanni Falcone sui delitti politici di Cosa Nostra e sugli stessi killer neri. I soldi sporchi della P2, rubati al Banco Ambrosiano. Gli incontri di Licio Gelli con i neofascisti alleati della Banda della Magliana. Le coperture sistematiche dei servizi segreti deviati. Il covo affittato dai latitanti dei Nar nello stesso misterioso appartamento usato dai capi delle Brigate rosse nei giorni del sequestro Moro. E le false piste estere inventate per screditare le indagini contro i terroristi neri. Menzogne prefabbricate ancora prima della strage. Con dossier pagati dal capo della P2. Compresa l’ultima fantomatica “pista palestinese”, che oggi risulta orchestrata, come quella libanese e tutte le altre, dagli stessi generali piduisti del Sismi già condannati in via definitiva per i depistaggi più esplosivi.

Quarant’anni dopo l’eccidio del 2 agosto 1980, il più grave attentato terroristico della storia dell’Italia repubblicana (85 vittime), il muro del silenzio comincia a sgretolarsi. Generali dei servizi, ex gladiatori e neofascisti cominciano a rivelare i segreti della strage di Bologna, raccontati anche dall’interno del fronte nero. Con testimonianze dirette sui rapporti con la P2 e i servizi deviati. E sullo scontro mortale tra terroristi di destra che ha preceduto la strage. Ed è il vero movente di una catena di omicidi di ex amici: camerati che sapevano troppo.

Come esecutori della strage alla stazione sono stati condannati in via definitiva i terroristi neofascisti Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, capi dei Nar, il loro complice 17enne Luigi Ciavardini e, in primo grado, Gilberto Cavallini. Cinque settimane prima, gli stessi killer neri hanno organizzato e perpetrato l’omicidio del pm Mario Amato, ucciso il 23 giugno 1980 a Roma, dove era l’unico magistrato a indagare su tutti i delitti del terrorismo di destra, compresi i primi attentati di stampo stragista. Il professor Alberto Volo, all’epoca, era uno dei capi siciliani di Terza posizione, un’organizzazione nera collegata ai Nar. Negli anni ’80 è stato interrogato più volte dal giudice Falcone, che indagava sui delitti politici decisi dalla cupola di Cosa Nostra, come l’omicidio di Piersanti Mattarella (fratello dell’attuale presidente della Repubblica), ucciso a Palermo il 6 gennaio 1980 per fermare la sua azione di contrasto alla mafia e rinnovamento della Dc. Falcone ipotizzava che i boss avessero appaltato l’esecuzione del delitto a terroristi dei Nar, per depistare le indagini e amplificare l’effetto di «ricatto dell’Antistato contro lo Stato». Ora Volo ha accettato di svelare ai magistrati di Bologna lo scontro interno che nello stesso periodo ha spaccato i Nar e i loro alleati. Una testimonianza che riconferma il vero movente dell’omicidio di Francesco Mangiameli, leader siciliano di Terza posizione, assassinato un mese dopo la strage del 2 agosto 1980.

«Francesco Mangiameli era il mio migliore amico», premette Volo, spiegando perché accetta di rispondere ai magistrati della procura generale a costo di subirne le conseguenze. Il verbale, datato 26 giugno 2019, ricostruisce la rottura con Fioravanti e Mambro, che nel luglio 1980, alla vigilia della strage, erano stati ospitati a casa di Mangiameli in Sicilia. Volo ricostruisce così il contrasto accesosi prima e degenerato dopo il 2 agosto: «Noi, ossia io e Mangiameli, eravamo convinti che Fioravanti, Cavallini e i Nar fossero responsabili quantomeno della progettazione della strage di Bologna, oltre che dell’omicidio Amato, che loro hanno confessato solo successivamente».

In Sicilia, ricorda Volo, i Nar progettavano di far evadere Pierluigi Concutelli, che dopo l’assassino del giudice Vittorio Occorsio aveva ricostituito Ordine nuovo, la fucina delle prime stragi nere del 1969-1974. «Io e Mangiameli volevamo far evadere Concutelli in modo incruento, mentre loro, i Nar, volevano fare una strage, ammazzando tutti quelli della scorta. Erano dei pazzi».

Volo precisa di aver parlato «personalmente con Fioravanti e Mambro» insieme a Mangiameli, che gli riferiva anche i suoi «colloqui con Cavallini e altri». I Nar confermarono all’amico «di aver ucciso il giudice Amato»: un omicidio che per i siciliani di Terza posizione era «un errore politico gravissimo», che rischiava di «danneggiare» tutta la destra eversiva. A quel punto, prosegue Volo, «era opinione mia e di Mangiameli che fosse necessario prendere le distanze dai Nar e dalla loro linea stragista. Temevano seriamente che fossero coinvolti nella strage di Bologna. Questi timori furono rappresentati ai vertici di Terza posizione, a Roma, dove però non tutti erano d’accordo nel prendere le distanze dai Nar».

Mangiameli viene ammazzato a Roma il 9 settembre 1980 da Fioravanti, Mambro, Giorgio Vale e Dario Mariani. Il cadavere viene zavorrato e affondato in un lago artificiale, per tenere segreto l’omicidio. Dopo l’arresto, i capi dei Nar confessano, ma non spiegano il movente, proponendo una ridda di false versioni. Le sentenze definitive concludono che Mangiameli fu ucciso per farlo tacere sulla strage, preparata da Fioravanti e Mambro mentre erano a casa sua. E citano tra l’altro un documento dei camerati siciliani che indica Mangiameli come «86esima vittima» dell’eccidio del 2 agosto. Ora la procura generale ha scoperto altri due volantini, scritti a penna e diffusi ai funerali: «Lo hanno ucciso perché non lo potevano comprare».

La frase è uno dei tanti tasselli delle nuove indagini sui soldi per la strage, che secondo l’accusa fu pianificata e finanziata da Licio Gelli con almeno cinque milioni di dollari sottratti al Banco Ambrosiano. Mangiameli era uno dei pochissimi a sapere che i Nar e Terza posizione, nel luglio 1980, stavano ricevendo una pioggia di finanziamenti misteriosi, per comprare «armi ed esplosivi senza limiti di prezzo», con cui organizzare «azioni militari», cioè attentati clamorosi. Il 17 luglio Mangiameli, preoccupato, ne parla con un ufficiale dei servizi, Amos Spiazzi, che ancora prima della strage firma un rapporto per il Sisde. Il camerata siciliano viene ammazzato dai Nar proprio quando si scopre che è stato lui a parlare dei soldi per la strage. E sempre ai primi di settembre si muove Gelli in persona: ordina a un capo-centro del Sisde, piduista, di cestinare il rapporto di Spiazzi, per privilegiare una fantomatica «pista internazionale».

Il capo della P2, morto nel 2015, è stato condannato in via definitiva come stratega di tutti i depistaggi: una sequela di false piste estere, orchestrate dai vertici piduisti del Sismi, il generale Giuseppe Santovito e il suo braccio destro Pietro Musumeci. La nuova indagine ricostruisce anche la genesi dell’ultimo depistaggio, tuttora propalato da irriducibili negazionisti: una pista palestinese, che vorrebbe addebitare la strage a Carlos, big internazionale del terrorismo rosso, detenuto da anni in Francia. A demolirla è un testimone di altissimo livello: un generale dello stesso Sismi, che ha diretto la prima divisione dal 1978 al 1983, scontrandosi con i vertici piduisti. Un militare integerrimo, che oggi ha 90 anni ed è malato, per cui non è il caso di nominarlo: basti dire che è l’autore della storica denuncia che fece scoprire i terroristi neri colpevoli della strage di Peteano (maggio 1972, tre carabinieri dilaniati da un’autobomba di Ordine nuovo, falsamente attribuita alla sinistra). Oggi lui stesso rivela che «Santovito tentò di dissuadermi, dicendo che non andava trasmessa alla magistratura». E «da allora il gruppo piduista iniziò a farmi la guerra».

Dopo aver confermato i rapporti strettissimi tra Santovito, il faccendiere Francesco Pazienza (anche lui condannato per i depistaggi) e «agenti d’influenza» legati alla destra americana, come Michael Leeden, al generale viene chiesto se il Sismi abbia mai finanziato il giornale “Il Borghese” e l’agenzia di stampa di Lando Dell’Amico. Sono due testate di destra che cavalcarono le piste estere. Riposta: «Certamente sì. Anche se non ne ero responsabile, sono certo che il Sismi le finanziò». E qui il generale aggiunge: «Ricordo, tra l’altro, che una volta venne da me Musumeci, che aveva l’ufficio a fianco di Santovito, dicendomi che aveva raccolto informazioni per cui la strage di Bologna era stata fatta dal terrorista internazionale Carlos. Verificai la notizia e venne fuori che proveniva da un giornalista del Borghese».

Anche la pista palestinese di Carlos, insomma, è una patacca fatta in casa dallo stesso ufficiale piduista condannato insieme a Gelli per tutti i depistaggi successivi alla strage. Fino al più clamoroso: armi ed esplosivi fatti trovare nel gennaio 1981 su un treno per Bologna, per accreditare l’ennesima falsa pista estera.
La nuova indagine sui mandanti nasce invece dal ritrovamento di carte vere, ricattatorie, sequestrate a Gelli nel giorno dell’arresto, ma poi fatte sparire dagli atti giudiziari. Documenti dove il capo della P2 scrive di aver versato cinque milioni di dollari, nei giorni cruciali della strage, per un’operazione intitolata “Bologna”. Soldi usciti dalle casse dell’Ambrosiano, ma distribuiti all’insaputa del banchiere Roberto Calvi. Gelli annota di aver versato 850 mila dollari a “Zafferano”, nome in codice di Federico Umberto D’Amato, storico capo dell’Ufficio affari riservati. E altri 20 mila dollari per «artic. Tedeschi». Identificato dai magistrati con Mario Tedeschi, parlamentare del Msi e direttore del Borghese, morto nel 1993. Secondo l’accusa, il giornalista e politico di destra aiutò D’Amato «a gestire l’evento strage», con un’attività di «depistaggio» non solo «successiva», ma addirittura «preparatoria». Di certo Tedeschi era amicissimo di D’Amato: già negli anni ’60 organizzavano insieme «provocazioni contro il Pci» utilizzando Stefano Delle Chiaie, il capo dei neofascisti di Avanguardia nazionale. Anche D’Amato era iscritto alla P2 e aveva rapporti di ferro con Gelli e Santovito.

Ora la procura generale aggrava le accuse a Gelli, indicato come «mandante e finanziatore» della strage. I magistrati di Bologna, Alberto Candi, Umberto Palma e Nicola Proto, hanno recuperato migliaia di atti e raccolto nuove testimonianze di ex protagonisti del terrorismo nero. Come Paolo Aleandri, una sorta di prova vivente dei legami tra Nar, P2, servizi segreti e Banda della Magliana. Quando era un giovane neofascista romano, infatti, Aleandri fu sequestrato dalla Magliana, che lo accusava di aver rubato armi della banda, nascoste in un arsenale comune con mitra ed esplosivi dei Nar. Aleandri fu salvato da Massimo Carminati, che restituì ai boss della Magliana armi dello stesso tipo. Interrogato a Bologna, oggi Aleandri spiega che la sua organizzazione, “Costruiamo l’azione”, collegata ai Nar, era «la facciata legale di Ordine nuovo», con terroristi veneti che scendevano a Roma «per insegnarci a fabbricare esplosivi».

E riconferma di aver «incontrato personalmente Licio Gelli, 6 o 7 volte, all’hotel Excelsior di Roma»: per entrare, doveva presentarsi con il nome in battaglia di «un latitante per il golpe Borghese». Fatti confermati (nel processo a Cavallini) perfino da Fioravanti, che invece giura di non aver mai visto il capo della P2. Aleandri aggiunge che il suo gruppo, all’epoca, era dominato da Aldo Semerari, il “criminologo criminale”, legato alla P2 e ai servizi, che firmava false perizie per scarcerare terroristi e mafiosi, ammazzato nel 1982. E ricorda che «Semerari teorizzava l’alleanza tra terrorismo di destra e criminalità. E ci spiegava che bisognava avere gruppi armati, gruppi di fuoco, da mettere a disposizione di Gelli, per ricavarne favori ed entrate economiche».

I legami tra terroristi neri e apparati dei servizi sono confermati in prima persona anche da Alberto Volo. L’amico di Mangiameli testimonia, come «fatto notorio», di aver fatto parte di Gladio, la rete anticomunista della Nato (nome ufficiale, Stay Behind), che aveva depositi clandestini di armi ed esplosivi, scoperti dal pm veneziano Felice Casson con le indagini sulla strage di Peteano. «Fui reclutato nel 1968 da Sandro Saccucci, all’epoca ufficiale della Folgore, poi diventato parlamentare del Msi», dichiara Volo. «Fui reclutato per il Sid, feci l’addestramento alle Canarie, venivo pagato in dollari consegnati a Roma in buste sigillate. Facevo parte di una cellula chiamata Universal Legion. Ne uscii nel 1978». Volo ricorda tra l’altro che nella base di Gladio in Sardegna «c’era un biliardo con una targhetta: dono di Andreotti».

Gli avvocati di parte civile hanno comprovato che, per farsi consegnare armi ed esplosivi di Gladio, bisognava mostrare un «salvacondotto»: una mezza banconota, corrispondente all’altra metà custodita in caserma. Cavallini, quando fu arrestato nel 1983, aveva nel portafoglio proprio una mezza banconota.
Un’altra coincidenza sbalorditiva è la scoperta che i Nar, dopo la strage di Bologna, hanno usato due covi in via Gradoli, ai civici 65 e 96. Nel 1978 in quest’ultimo palazzo, nello stesso appartamento, si nascondevano i capi delle Brigate Rosse, Mario Moretti e Barbara Balzerani, nei primi giorni dopo il sequestro di Aldo Moro e la strage della scorta. Come mostra il nostro grafico a pagina 13, proprio qui, tre anni dopo, spuntano due terroristi neri, Francesca Mambro e Giorgio Vale, e altre strane presenze. E nello stesso stabile, come scopre nel 1998 l’ex senatore Sergio Flamigni, si contano ben 24 appartamenti collegati a società di copertura del Sisde. Gestiti da un immobiliarista, Domenico Catracchia, che all’epoca riconosce i latitanti dei Nar, ma «si rifiuta di verbalizzare asserendo di temere per la sua vita». E quarant’anni dopo appare ancora reticente sui servizi, tanto da ritrovarsi indagato.

Proprio da quei covi, i neofascisti organizzano una raffica di omicidi collegati alla strage di Bologna. Il 21 ottobre 1981 Cavallini, Mambro, Vale, Adinolfi e altri killer neri ammazzano due poliziotti bravissimi, Francesco Straullu e Ciriaco Di Roma, che avevano scoperto le prime prove decisive contro i Nar per l’eccidio del 1980. Quindi i terroristi pianificano di sterminare tutti i camerati che hanno parlato con quei poliziotti, compresa una testimone chiave che ha collegato ai Nar anche l’autobomba contro il Comune di Milano esplosa il 30 luglio 1980, due giorni prima della strage di Bologna.

Gli avvocati dei familiari delle vittime, Andrea Speranzoni, Roberto Nasci e Alessandro Forti, sono abituati a pesare le parole: oggi, dopo anni di lavoro, parlano di «patto criminale tra neofascisti e uomini delle istituzioni». Finalizzato «non a un golpe», ma a un «ricatto allo Stato», non a caso «finanziato con denaro del Banco Ambrosiano in bancarotta». Una strategia che usa il terrorismo per «occupare il potere» e «svuotare i valori della Costituzione», che «inizia nel 1978 e culmina nella strage del 2 agosto 1980»: il triennio del dominio occulto della P2.

https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2020/07/30/news/strage-bologna-ricatto-allo-stato-1.351586

stragismo
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