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Viterbo 10-12 luglio ‘21/’06: appunti per un ottantacinquesimo.
di Silvio Antonini*
Due mesi dopo aver tentato l’irruzione nel centro di Viterbo, ferendo con un colpo d’arma da fuoco Comunardo Pizzichelli e uccidendo, fuori porta Fiorentina, Antonio Prosperoni, il 10 luglio ‘21 a piazza della Rocca, fascisti umbri e romani capeggiati da Bottai, si recano a battezzare il gagliardetto del fascio italiano di combattimento di Viterbo (un rituale diffuso di provocazione), sito in palazzo Costaguti (via S. Maria Liberatrice, distrutto nei bombardamenti del ’44), dopo aver partecipato ad una cerimonia a Pratogiardino, appena fuori porta Fiorentina. Le forze dell’ordine hanno il compito di vigilare affinché i fascisti, nel tragitto P.ta Fiorentina – via S. Maria, non irrompano nel centro cittadino. Il compito non viene assolto e i fascisti, superate le fila delle forze dell’ordine con facilità sospetta, iniziano a picchiare, infliggere coltellate e sparare a casaccio per le vie. Accoltellano un giovane inerme, Arnaldo Latilla, e uccidono il contadino Tommaso Pesci con un colpo d’arma da fuoco.
Esplode la collera dei lavoratori viterbesi che insorgono e proclamano una settimana di sciopero generale. Gli squadristi se la dànno a gambe, non senza aver minacciato il ritorno in forze.
Si costituisce immediatamente il Comitato di Difesa Cittadina al quale aderiscono: la sezione socialista (e i comunisti, che non sono ancora Partito, al suo interno) popolare e repubblicana, la Camera Confederale del Lavoro, l’Associazione Combattenti, l’Associazione Commercianti e Industriali e gli Arditi del Popolo (che a livello nazionale hanno debuttato solo 4 giorni prima a Roma), la cui associazione viterbese nasce proprio la sera dell’11 luglio, alla Casa del Popolo (grazie all’invio dal direttorio di Roma del ten. Randolfi), raccogliendo immediatamente un centinaio di adesioni, molte delle quali provenienti dai reduci della grande guerra che si oppongono al dilagare della violenza fascista. A capo il tenente del 60° fanteria in congedo ed ex ardito di guerra Domenico Adolfo Busatti, ventiquattrenne studente universitario, residente in via Annio.
Il sindaco cattolico Giulio Paganini e l’amministrazione comunale non possono che dare il loro appoggio.
I funerali di Tommaso Pesci si svolgono il 12 di luglio, con il carro di prima classe, seguito da una grande folla. Per l’occasione suonerà a lutto anche il campanone della torre comunale. Di fronte alla compattezza dimostrata dal popolo viterbese, il sottoprefetto, il questore, il presidio militare, il comando della tenenza dei reali carabinieri e il 60° Fanteria, prendono solenne impegno con il Comitato di Difesa per impedire l’ingresso delle squadracce che stavano tentando l’assalto per espugnare il centro cittadino. Vengono istallati cavalli di frisia e mitragliatrici sulle porte. Ma quando squadristi armati raggiungono le vicinanze della città, le forze dell’ordine si limitano ad impedirne il passaggio, senza il disarmo e l’arresto. Anzi, le camicie nere prendono a bastonate Pietro Pierini, un contadino sorpreso fuori le mura con una rivoltella (armato poiché era consigliato a tutti di armarsi, visto il pericolo dell’arrivo delle camicie nere) mentre sta andando in campagna, senza che i carabinieri intervengano.
In luce di ciò si riunisce il Comitato di Difesa presieduto dal sottoprefetto, con la presenza di esponenti parlamentari e sindacali. I parlamentari protestano contro le inadempienze delle autorità. Si provvede direttamente alla difesa. La campana del Comune, che secondo i patti doveva dar segnale d’allarme, viene suonata con tanta forza che si rompe e si suonano quelle requisite o messe spontaneamente a disposizione dai parroci. È un accorrere di popolani (il colonnello Franco del 60° Fanteria parlerà di 5000 armati, in una città ove le licenze di porto d’armi sono appena 900), con ogni sorta di arma, che si dislocano sulle mura della città, mentre gli Arditi del Popolo sono inquadrati in piazza della Rocca e si offrono al 60° Fanteria per coadiuvare la vigilanza alle porte.
I fascisti stazionano nei dintorni. Arrivano difatti notizie di un manipolo che vuole entrare da porta Romana e di violenze nelle zone limitrofe.
In questo clima di eccitazione, un’Alfa Romeo Torpedo cabriolet proveniente da Orvieto giunge a porta Fiorentina, diretta a Roma. I passeggeri hanno intenzione di visitare la città. A bordo si trova la contessa Lucille Beckett Frost (moglie di Otto Czernin, un ex diplomatico austro-ungarico in Vaticano). Lucille è alla guida con a fianco il figlio maggiore Paul Czernin e dietro i due più piccoli: Jaromir di 16 anni, Edmund di 15 e lo chauffeur Enrico Pastecchi.
Qui il maggiore Sacchetti spiega che ci sono disordini e che non si può oltrepassare la porta e consiglia di proseguire il viaggio costeggiando le mura senza munire l’auto di una scorta riconoscibile. L’Alfa, appena giunta all’altezza di porta Murata, viene scambiata per un’auto di fascisti e, ambo i lati: dalle mura e dal terrapieno che costeggia la ferrovia di fronte (ove stando ad alcune testimonianze sostano degli sconosciuti) viene fatta segno di colpi d’arma da fuoco. La fucileria continua finché l’auto non si ferma all’altezza delle rovine del palazzo di Federico II. Jaromir è morto, Paul è colpito ad una gamba che gli verrà amputata; risultano feriti anche la madre e l’autista. La sparatoria cessa e i carabinieri scortano l’auto sino all’ospedale.
Per quest’omicidio verrà condannato soltanto Lamberto Andreoli, “Mastrumberto”: un omino alto 1,50 somigliante molto al re, che voci volevano addirittura figlio naturale di Umberto I, visto che la madre era stata modella presso la real casa per il pittore viterbese Pietro Vanni. Andreoli dichiarerà di aver sparato in aria. Nonostante la sua bassa statura, che non gli avrebbe consentito di sporgersi col fucile dai merli delle mura e sparare con tanta precisione, e la perizia dell’ing. Mazzaglia che dimostrava chiaramente che il colpo che aveva fatto esplodere la scatola cranica di Jaromir fosse giunto da sinistra e da vicino, cioè dal terrapieno ferroviario, Andreoli dovrà scontare tutti i 5 anni e 10 mesi inflittigli, con l’accusa di “complicità in omicidio”.
Aldilà del tragico incidente, quel luglio ’21 segna una vittoria clamorosa per l’antifascismo viterbese. Il fatto ha ripercussioni nazionali. La città aveva resistito. Episodi di arditismo popolare si verificheranno in tutto il paese, ma in quell’anno turbolento le uniche due città ad impedire di fatto l’ingresso dei seguaci di Mussolini all’interno delle proprie mura sono Viterbo e Sarzana, in Liguria. Il 21 luglio Gramsci su “L’Ordine Nuovo” scrive: “Gli avvenimenti di Viterbo, Grosseto e Treviso sono la fase iniziale di un nuovo definitivo sviluppo del fascismo. Alle spedizioni di piccola mole si succedono azioni di veri e propri colpi di esercito, muniti di mitragliatrici. Viterbo e Sarzana hanno dato l’esempio di ciò che bisogna fare. Le popolazioni sanno quello che non hanno da aspettarsi dai dirigenti nazionali; alle forze locali spetta il compito di pensare alla propria difesa.”
Mussolini, due giorni dopo, dalle colonne de “Il Popolo d’Italia” invece: “Gli ultimi tragici avvenimenti che da Viterbo a Sarzana hanno funestato la vita del fascismo italiano, rappresentano lo sbocco logico di una crisi che da alcuni mesi travaglia la nostra organizzazione”.
Di lì ad un anno appena i fascisti entreranno. Sappiamo com’è andata a finire.
Comunque ricordiamo!
Silvio Antonini
segretario e Portabandiera ANPI Comitato Provinciale di Viterbo