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dal Corriere dello Sport
Aveva vinto tre scudetti, uno con l’Inter e due di fila col Bologna, aveva lanciato Peppino Meazza a 17 anni, ma poi era finito nel buio. Nel vuoto. Nel silenzio. In un suo libro, Enzo Biagi ha scritto: «Mi sembra si chiamasse Weisz, era molto bravo ma anche ebreo e chi sa come è finito ». In un altro libro, di straordinario interesse e di grande rigore storico, Matteo Marani, collega del “Guerino”, finalmente dà una risposta. Arpad Weisz morì ad Auschwitz il 31 gennaio del ‘44. Meno di due anni prima, sua moglie Elena e i suoi figli, Roberto e Clara, di 18 e 12 anni, finirono nella camera a gas. «La cosa che mi colpisce ancora adesso, a lavoro finito, è capire come mai un personaggio tanto importante nello sport più amato del paese sia scomparso nel vuoto. Cancellato».
Già, perchè Arpad Weisz non fu uno qualsiasi. Come calciatore, niente di straordinario, anche se nell’Olimpica ungherese del ‘24, fece coppia con Hirzer, primo straniero della Juve. Ma costretto a chiudere la carriera da un infortunio, passa sulla panchina dell’Inter, lancia Peppino Meazza e vince lo scudetto del ‘30. Scrive anche un manuale, “Il giuoco del calcio”, con tanto di prefazione di Vittorio Pozzo. Importa in Italia il sistema di Chapman, lancia l’idea dei ritiri e col Bologna di Schiavio, Monzeglio, Ceresoli e Biavati, che tremare il mondo fa, vince due scudetti consecutivi. Ma intanto le leggi e l’odio antisemiti non risparmiano nemmeno lui. Non può più allenare, a suo figlio è vietata la scuola, il Bologna nell’ ottobre del ‘38 lo licenzia, dopo un 2-0 alla Lazio, naturalmente non per motivi tecnici. Weisz fugge a Parigi con la famiglia, sperando di trovare lavoro, disperato tre mesi dopo, va in Olanda, a Dordrecht. Torna così ad allenare, anche se si tratta di una squadretta di dilettanti. Ma nemmeno in Olanda riesce a sfuggire alle persecuzioni antisemite. Nel settembre del ‘41, le leggi naziste stabiliscono che gli ebrei non possono frequentare la scuola, andare allo stadio, entrare in bar e ristoranti pubblici. Weisz viene aiutato di nascosto dal suo presidente. Infreddolito, con un cappotto liso, quando può va a spiare la sua squadra, nascondendosi dietro la recinzione del campetto. Sono gli ultimi giorni di speranza e di libertà. Le SS arrestano la sua famiglia il 7 agosto del ‘42 e la prelevano dal campo di Westerbork, lo stesso dal quale passerà Anna Frank, il 2 ottobre. Weisz viene invece dirottato su Cosel, campo di lavoro dell’ Alta Slesia, più tardi è deportato a Auschwitz. Resiste alla fame e al freddo 16 mesi, lo trovano morto la mattina del 31 gennaio del ‘44.
Questa ricostruzione rigorosa, supportata da documenti e da testimonianze, è costata a Matteo Marani tre anni di lavoro e di ricerche.
«Sono diventato un detective della memoria. Era incredibile, ma era come se una mano invisibile avesse via via sottratto alla vista gli elementi utili a ricostruire la vita dei Weisz» . Nel libro, ( “Dallo scudetto ad Auschwitz”, editore Aliberti) scritto con passione ma anche con rigore storico, si coglie quest’ansia di sapere, di verità, che spinge Marani a una ricerca scrupolosa, difficilissima, quasi ossessiva. Rintraccia archivi polverosi e dimenticati, si rivolge alle ambasciate di Olanda, Ungheria e Francia, ad alcuni centri di documentazione ebraica, viaggia molto, a volte a vuoto, inseguendo quasi un’ombra, un fantasma. Un viaggio faticoso e doloroso, ma forse al tempo stesso affascinante, alla fine del quale Marani scoprirà beffardamente di abitare a 300 metri dalla vecchia casa bolognese di Weisz.
L’allenatore in campo (di concentramento)
Arpad WeiszLa prima volta che avevo letto il suo nome, tenevo in mano Bologna, storia e baldoria di Gianfranco Civolani e Lamberto Righi.
La seconda volta volta che avevo letto il suo nome, ero davanti al computer e sullo schermo si srotolava la recensione di Rudi Ghedini ad Angeli e diavoli rossoblù – Il Bologna nei racconti dei suoi campioni di Francesco Caremani e Fabrizio Càlzia.
La terza volta volta che avevo letto il suo nome, stavo sfogliando l’edizione inglese di Calcio e fascismo – La creazione della serie A italiana di Andrew Lawless.
Per tre volte avevo letto il nome di Arpad Weisz, negli anni scorsi, ma ero sempre passato oltre.
La quarta volta, ed è storia di oggi, no. Come avrei potuto? E’ uscito da pochi giorni un libro interamente dedicato a Weisz (Dallo scudetto ad Auschwitz di Matteo Marani) e su tutti i quotidiani, in occasione della “giornata della memoria”, sono fioccati articoli commossi e toccanti (in particolare quello di Gianni Mura). E così ho scoperto un incredibile caso di rimozione collettiva, tanto più clamoroso qui a Bologna, dove il ricordo della “squadra che tremare il mondo fa” dovrebbe essere materia di studio fin dalla prima elementare. Perché Arpad Weisz, di quella formidabile squadra, fu qualcosa di più del semplice allenatore.
Weisz era un mago della panchina, ma finì la sua vita dimenticato. Era ebreo e questa fu la sua colpa. Le ideologie del “ventennio” lo obbligarono presto a cambiare la W del suo cognome in una V, in ossequio all’Italia autarchica che non tollerava tutto ciò che aveva un vaga aria di diversità. Ma in fondo un cognome alterato doveva sembrare un problema sormontabile per uno come lui, tempra d’acciaio fin da quando allenava l’Ambrosiana Inter, dove fece esordire un ragazzino destinato a fare storia (Giuseppe Meazza) e dove vinse lo scudetto nel 1930.
Nel ‘35 Weitz fu chiamato dal Bologna, che trasformò velocemente in una delle squadre più forti di tutti i tempi. Nel ’36 vinse il suo primo scudetto alla guida dei rossobù, bissato l’anno successivo con una formazione rinforzata dall’arrivo degli uruguaiani e dalla promessa Fiorini (terzino dalle dichiarate simpatie fasciste, fucilato nel ’44 dai partigiani).
Fu Weisz, da vero innovatore qual era, a trasformare Amedeo “doppio passo” Biavati nella più forte ala destra italiana. Non solo: fu il primo a scegliere la via del preparatore atletico, facendo arrivare dal River Plate l’argentino Pascucci. Il suo Bologna fece davvero tremare il mondo: dopo i due scudetti consecutivi portò a casa anche il Torneo dell’Esposizione di Parigi del ’37, equivalente dell’odierna Champions League, schiantando in finale i “maestri d’Albione” del Chelsea.
Era un uomo tranquillo, Arpad Weisz. Uno che riusciva a mantenere l’armonia nello spogliatoio pur dovendo gestire stelle come Schiavio, Andreolo, Fedullo, Sansone e Reguzzoni. Invece di alzare la voce, se uno aveva sbagliato, lo invitava a cena a casa sua (dalle parti di via Saragozza) per discutere davanti a un piatto di tortellini in brodo.
Dallo scudetto ad AuschwitzUn uomo colto e sensibile, insomma. Che una sera di fine ottobre del 1938, nonostante il suo Bologna primeggiasse in campionato, chiese al presidente Dall’Ara di potersene andare. Le leggi razziali erano alle porte, e l’Italia non era più un luogo sicuro per gli ebrei. Il Bologna, che non fece niente per difenderlo, lo sostituì prontamente con un allenatore di provata razza ariana, l’austriaco Felsner.
Weisz fuggì a Parigi insieme alla moglie e alle figlie, passò dall’Olanda (dove sperava di trovare rifugio nell’Ajax, la squadra del ghetto) e infine tornò a Budapest. Nella sua Ungheria fu catturato dai nazisti e deportato ad Auschwitz. Non un saluto, non un articolo sui giornali, non un pensiero nella città che lui aveva portato alla gloria sportiva. Bologna dimenticò in fretta Arpad Weitz, vittima della follia nazista. Solo qualche citazione, per lui, nei libri sportivi degli ultimi cinquant’anni. Ma oggi molti di noi hanno imparato a ricordarlo. E stavolta è la volta buona.
ilGiornale
Weisz, dallo scudetto ad Auschwitz la tragedia di un eroe degli anni ’30di Filippo Grassia – sabato 27 gennaio 2007, 07:00
Clicca per ingrandire Una storia esemplare. L’ha scritta Matteo Marani, 36enne giornalista del “Guerin Sportivo”, raccontando le vicende affascinanti, tremende e ahinoi esiziali di un allenatore magiaro, Arpad Weisz, che pagò con la vita il fatto di essere ebreo. Lui, la moglie Elena, i figli Roberto e Clara: tutti ammazzati ad Auschwitz. Vale la pena di raccontarla, questa struggente vicenda, nel Giorno della Memoria che cade oggi e, a quasi 62 anni dalla morte di Hitler, fa da scudo alle paradossali rappresaglie mediatiche di coloro che mettono in discussione perfino l’Olocausto. Nella sua straordinaria opera di ricerca, Marani ha frugato gli archivi più polverosi e secretati d’Italia, Francia, Olanda e Ungheria, ha incontrato decine e decine di persone che potevano aver conosciuto il suo eroe, ha controllato di persona ogni sassolino lasciato da Weisz dopo la fuga dall’Italia.
Era il 26 ottobre 1938 quando il protagonista di questo libro (“Dallo scudetto ad Auschwitz”, Aliberti Editore, 14 euro) si dimise da tecnico del Bologna che aveva portato a dominare il calcio in Italia, con due scudetti consecutivi, impresa fino ad allora riuscita solo alla Juventus, e all’estero: memorabile il trionfo sui maestri inglesi del Chelsea nella finale del Trofeo dell’Esposizione, svoltosi a Parigi nel 1937, che vale la Champions League di oggi. In precedenza Weisz aveva portato allo scudetto anche l’Ambrosiana ritoccando il WM in chiave difensiva con un modulo che, negli Anni Cinquanta e Sessanta, fece la fortuna di Viani, Rocco e delle loro squadre.
A lui, Arpad Weisz, ebreo purosangue, e ai suoi famigliari, non fu più permesso di vivere in Italia dalle leggi razziali promulgate da Mussolini. Il 10 gennaio 1939, insieme ad altri profughi, si rifugiò in Francia passando dal valico di Bardonecchia. Da Parigi si spostò in Olanda, nella cittadina di Dordrecht, dove per quasi due anni fece l’allenatore prima di essere deportato in un lager senza ritorno. Scrive Marani: «Lì, nella saletta della memoria, aperta generalmente ai parenti delle vittime, un impiegato mi ha mostrato gli elenchi dei deportati ad Auschwitz, fino a ritrovare l’esatto numero di treno dentro al quale furono sospinti i quattro componenti della famiglia Weisz». Sì, una storia esemplare, maturata nel quartiere Saragozza di Bologna, il quartiere di Marani, al tempo delle leggi marziali. Ma la Shoah non è cosa di ieri, è sempre dietro l’angolo.