pubblicato il 24.03.09
La Sapienza, il diritto negato ·
22.03.09 - La Sapienza, il diritto negato
Il diario dal movimento di Gaia Benzi, studentessa di lettere e filosofia all'Università La Sapienza di Roma.
Ho aspettato qualche giorno a scrivere queste righe: avevo bisogno di mettere in fila i pensieri che, disordinati, si affollavano nella mia mente; scenari lugubri ad altri più invitanti si assommavano nelle mie riflessioni, e l'impostazione da dare al mio discorso non era molto chiara.
Credo comunque di dover fornire alcune spiegazioni, oltre che il resoconto diretto di quanto avvenuto mercoledì diciotto marzo alla Sapienza, per sconfessare i resoconti faziosi di alcuni quotidiani, ma soprattutto per informare su quanto i quotidiani non dicono o desiderano tacere.
Partiamo dall'inizio: lo sciopero del 18 marzo era visto da tutti come un'occasione importante di rilancio dell'Onda. In molte città italiane gli universitari si erano organizzati per protestare assieme alla Cgil, con presidi e cortei: e difatti sono state molte le città in cui gli studenti, come in autunno, sono tornati per le strade affiancati da genitori e insegnanti, lavoratori della conoscenza e precari della formazione, a gridare la loro contrarietà alla gestione della crisi e del dissenso che il governo sta portando avanti.
Anche alla Sapienza si era discusso dell'opportunità di prendere parte al presidio che il sindacato aveva indetto per la giornata: un presidio stanziale, una manifestazione di piazza - senza corteo - a Santissimi Apostoli. Ma se n'era discusso cercando di allargare lo sguardo per includere i conflitti sociali nella loro interezza e, soprattutto, la risposta che a tali conflitti sta fornendo un esecutivo sempre più autoritario e autocratico, sempre più confuso nei meandri della recessione, spaventato dal dissenso e bisognoso di capri espiatori. In sostanza: nelle assemblee d'ateneo "verso il 18" erano state analizzate le contromisure amministrative del comune di Roma sulle manifestazioni di piazza - il cosiddetto protocollo romano - e quelle legislative del governo sul diritto di sciopero nel settore della mobilità; e, preso atto della tendenza liberticida e normalizzatrice delle stesse, si era deciso di non limitarci a stare in piazza col sindacato, ma di raggiungerla, quella piazza, con un corteo, uno dei tipici cortei dell'Onda, autorganizzato e spontaneo e volto al blocco delle strade, perché "se ci bloccano il futuro noi blocchiamo la città" - com'è stato gridato per mesi.
La mattina del 18 ci siamo incontrati nella città universitaria, siamo partiti per un breve corteo interno e poi ci siamo diretti, come al solito, all'uscita di piazzale Aldo Moro.
Subito siamo stati circondati da un nutrito gruppo di agenti, in tenuta antisommossa: caschi, scudi, visiere abbassate. Tutti in cerchio intorno a noi, un bel ferro di cavallo. Abbiamo iniziato le trattative con i funzionari, per concordare un percorso e trovare una mediazione tra le nostre necessità e i loro ordini - come al solito. Come al solito alcuni discutevano, altri chiacchieravano, altri si sedevano a leggere il giornale; alcuni prendevano un sole già primaverile sdraiati sul prato, lo stivale del celerino a pochi passi di distanza.
C'era un clima di lucida rassegnazione, mista a una determinazione pacata: saremmo rimasti lì finché non si fosse giunti a un accordo. I funzionari sbandieravano la necessità di ottemperare al protocollo; noi ribattevamo che a quel protocollo nessuno di noi aveva aderito, che era protocollo - appunto - e non legge, che il diritto a manifestare non poteva in nessun caso essere negato.
Dialogo o dialettica che fosse, stavamo solo parlando. Ma poi, all'improvviso, sono partite le cariche.
La gente ha cominciato a correre a destra e manca per tutto il piazzale, attimi di confusione hanno disperso la massa di studenti lasciando uno spazio vuoto fra quei pochi delle prime file che, nel tafferuglio, erano inciampati e gli altri, che erano corsi a cercare riparo dentro le mura. A poco più di un metro da me ho visto un carabiniere inseguire un ragazzo, raggiungerlo, afferrarlo per la maglietta e sbatterlo a terra con violenza; e poi cominciare a picchiarlo, alla cieca, col manganello impugnato al contrario così da colpirlo col manico - la parte più dura, quella che fa più male. Un attimo dopo, addosso al ragazzo erano ben quattro. Grida, strepiti, urla, ognuno cercava di tirarsi d'impaccio; i feriti venivano strappati via dalle mani dei celerini e portati al sicuro dai loro compagni, mentre la folla a mani alzate urlava "vergogna" e la polizia avanzava, di più, sempre di più, fino a costringerci dentro.
Abbiamo provato a uscire altre due volte, dagli sbocchi laterali. Non abbiamo fatto in tempo nemmeno ad avvicinarci ai cancelli che subito le forze dell'ordine hanno alzato braccia ed armi e hanno caricato, ancora. Correvamo da una parte all'altra, incrociando altri studenti; gridavamo loro ciò che stava accadendo. Uno di loro si è alzato, gettando a terra libri e quaderni: e subito si è unito a noi. Iniziavano ad arrivare le borse di ghiaccio a medicare le botte, fazzoletti che asciugassero il sangue. La tensione cresceva. "Non è possibile!". Ho visto volare ciabatte e bottigliette d'acqua, le cariche ormai si erano fatte incessanti. A viale Regina Elena le forze dell'ordine, prese dall'enfasi, sono entrate dentro l'università ed hanno rinchiuso le prime file in un quadrato; altri lanci, qualche sasso è volato sbattendo contro il cancello di ferro e rimbombando nel tumulto: è bastato per far rientrare i ranghi, allontanare i poliziotti e farci uscire dall'empasse.
Alla fine eravamo stremati, contusi, sfiancati. Ci siamo riuniti sulle scale del rettorato per indire una conferenza stampa, cercando dell'acqua, calmando il respiro, accompagnando al pronto soccorso chi ne aveva bisogno. Provando a schiarirci le idee.
Ma farlo è difficile; o meglio, terribilmente inquietante.
Improvvisamente, i dati sparsi di queste ultime settimane s'incastrano fra loro con perfetta armonia, contribuendo a comporre un quadro unitario: ovunque gli studenti siano tornati a far sentire la loro voce sono stati ingiustificatamente caricati dalle forze dell'ordine; attivisti del movimento sono stati continuamente aggrediti e malmenati da gruppuscoli neo-fascisti che, nella loro impunità boriosa, accomunano tutta la penisola. Padova, Torino, Pisa, Napoli, Roma... E' bastato riattivare un livello minimamente pubblico di protesta per essere picchiati, sprangati, sedati, ora dai manganelli dei poliziotti, ora dai tirapugni degli estremisti invasati e xenofobi che tanto hanno successo ultimamente.
In particolare, va notato che le istituzioni ormai non si vergognano più di intrattenere rapporti con fascisti dichiarati come i militanti del Blocco Studentesco - quelli delle mazze tricolori a Piazza Navona, per intenderci: solo poche settimane fa il comune di Roma ha promosso un convegno dal titolo "Tempo di essere madri", affiancando senza remore lo stemma capitolino al simbolo del centro sociale para-nazista Casa Pound. All'interno del panorama politico della destra italiana, infatti, fazioni fin'ora rimaste nell'ombra stanno conquistando pian piano legittimità politica attraverso un progressivo sdoganamento mediatico delle stesse, in uno scenario complesso e in continua mutazione.
Non ho le prove per accusare nessuno, né tantomeno posso permettermi di dire che vi sia una connivenza - o una continuità - fra le aggressioni individuali e le cariche statali; ma certo tutti noi abbiamo notato con preoccupazione un numero sempre crescente di coincidenze che, non essendo seguite da pubbliche condanne o prese di distanza nette da parte degli organi politici e istituzionali, alimentano i sospetti. Del resto non era forse Roberto Fiore, segretario nazionale di Forza Nuova - partito di stampo dichiaratamente neo-fascista -, sullo stesso palco di Casini, Fini e Berlusconi durante la manifestazione di quasi due anni fa "contro il regime di Prodi"? E non sono state trovati materiali inneggianti al nazismo a Roma Tre, negli armadietti di Azione Universitaria - costola giovanile di Alleanza Nazionale?
Quello che abbiamo visto mercoledì si può riassumere con una sola parola: repressione. Repressione nuda e cruda, come solo la violenza sa essere. Ci hanno accusato di provocazioni, di insulti e di pratiche di lotta illegali e illegittime, mentre io che c'ero lo posso dire con chiarezza: eravamo e siamo profondamente pacifici. Ma mercoledì ci siamo dovuti difendere, abbiamo dovuto strappare a braccia i nostri amici, i nostri fidanzati e i nostri compagni dalle grinfie di una mattanza irrazionale. Perché molti sono stati feriti, e alcuni - i più sfortunati - sono finiti all'ospedale con la testa spaccata. Per cosa, poi? Quale atto rivoltoso stavamo compiendo? Volevamo uscire dall'università per manifestare: una pretesa senza dubbio sovversiva!
Non c'è stata alcuna forzatura, benché ci fosse il blocco: l'ho già detto, stavamo solo parlando. Non c'è stata alcuna provocazione da parte nostra: le provocazioni le hanno messe in campo le forze dell'ordine, che hanno caricato a freddo studenti disarmati e inermi. Il protocollo tanto sbandierato per noi non vale, non può valere: non l'abbiamo mai approvato. E non lo approveremo mai, sia chiaro, perché è un protocollo liberticida e inutile, visto e considerato che con la scusa della mobilità si proibisce ai dissidenti di manifestare sotto i ministeri e i palazzi del potere, anche in quelle zone chiaramente pedonali come Montecitorio.
La reazione di mercoledì non può e non deve essere giustificata dalla violazione di un accordo fra parti che, tra le altre cose, non ci annoverano fra i loro iscritti. Perché è stata insensata, esagerata: o pensate che permettere agli autobus di circolare valga il cranio a pezzi di un vostro figlio, fratello o nipote? A questo punto, anche invocare la neutralità della legge significa farsi inghiottire dallo specchietto per le allodole messo lì per intontire gli assenti.
Perché il tutto è stata fatto - chiaramente - in nome dell'ordine, della disciplina, della legalità, la stessa che viene sbandierata contro gli immigrati, i senzatetto, i presunti stupratori, i bulli delle scuole, gli operai cassaintegrati; e apparentemente anche la stessa che viene calpestata, ignorata, sbeffeggiata ogni qual volta si tratta di accusare un potente, un politico, un banchiere famoso o un palazzinaro qualsiasi. La stessa che quando si tratta di picchiare gli studenti e mandare all'ospedale ragazzi poco più che ventenni dev'essere applicata alla lettera, senza eccezioni, mentre quando bisogna mandare in galera qualche farabutto della politica allora no, allora può essere comodamente interpretata.
Sequestrati: questo eravamo. Sequestrati e rinchiusi dentro la nostra università. "Perché in fondo siete studenti", sembravano dire la questura, il prefetto, il sindaco e il rettore nel giustificare un sopruso incivile. "E' quello il vostro posto. Vi siete divertiti per un po' a criticare il governo, va bene. Ma ora, basta". Come si diceva un tempo: la ricreazione è finita.
Perché in effetti stiamo sul groppone a molti, visto e considerato che non ci limitiamo a studiare, ma mettiamo in pratica ciò che all'università studiamo. Stiamo sul groppone per le nostre alleanze che si allargano e si fortificano, e parliamo di reddito, di salario, di diritto allo studio ma anche di welfare, di diritto di sciopero e dissentiamo, tenacemente, a fianco dei medici e degli immigrati, a fianco dei disoccupati e dei precari di tutta Italia. Perché ancora una volta abbiamo incontrato le scuole e gli studenti medi, perché stiamo organizzando per il ventotto una grande manifestazione a latere del G14 sul welfare insieme ai sindacati di base e a tutti gli altri movimenti territoriali e di lotta per la casa. Perché noi davvero questa crisi non la vogliamo pagare, perché non ne va solo del nostro presente, ma del nostro futuro.
Ci stanno levando tutto: lavoro, giustizia, pensione, casa, diritti civili. A vent'anni vorrebbero imporci d'ingoiare disillusione e paura, vorrebbero vederci rassegnati e proni, lo sguardo a terra e il capo coperto di cattolicissima cenere. Pronti a pagare lo scotto di errori che non abbiamo commesso e che subiamo, ingiustamente, da sempre.
E il nostro unico difetto è quello di non volerci arrendere alla sopravvivenza, continuando a pretendere di vivere una vita migliore. E' questa pretesa che ho visto mercoledì negli occhi degli altri; ma con grande dolore ho visto anche la rabbia a cui ci stanno portando, l'ho vista nei volti di compagni più che pacifici, che hanno sempre sfilato a mani alzate accanto a me, che continuano a discutere con professori e studenti per cambiare veramente l'università che vivono, che ci credono profondamente e che anche per questo non farebbero male a una mosca. L'ho vista montare, quella rabbia, ho visto quelle guance diventare rosse mentre, le braccia alzate e piene di lividi, gridavano "fuori! fuori!" ai poliziotti che, incauti, sorpassavano il confine. Li ho visti trattenersi a vicenda, abbracciarsi l'un l'altro per evitare di scoprire fino a che punto potesse spingerli l'indignazione.
Abbiamo chiesto alla Cgil di schierarsi, di ritirare la firma dal protocollo; il responsabile della Flc Cigl ha espresso tutta la sua solidarietà, ma noi ancora aspettiamo un gesto concreto, una presa di posizione netta con delle conseguenze altrettanto nette. Forse l'avremo giovedì prossimo, quando incontreremo alla Sapienza i delegati della Cgil e i sindacati di base per un incontro pubblico sul diritto di sciopero e la libertà di movimento.
Del resto, ormai è palese: lasciarci soli adesso significherebbe armare il braccio della repressione. Brunetta l'altro giorno ci ha apostrofati come guerriglieri e ha dichiarato, lapidario: "come guerriglieri verranno trattati". Sarebbe a dire? Che verremo sequestrati, incarcerati, torturati, mandati al confino? Non è chiaro. Il ministro ha poi definito un movimento eterogeneo e variegato come il nostro "associazione": sì, esatto, l'associazione Onda. Un primo passo verso la burocratizzazione del nemico, la sua identificazione in uno schema prestabilito e per questo incasellabile, all'occorrenza, dentro il lungo capitolo dei nemici di Stato.
E tornano alla memoria le parole sussurrate da un casco blu, mercoledì mattina: "Godetevi questa campana di vetro. Finché dura".
Gaia Benzi
http://temi.repubblica.it/micromega-online/220309-il-diritto-negato/
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