pubblicato il 25.05.20
«La strage di Bologna fu organizzata e finanziata dai capi della loggia P2» ·
Il capo della P2 è nervoso, preoccupato dalle indagini milanesi sui misfatti della sua loggia massonica. E ha molta fretta di svuotare i conti svizzeri dove ha nascosto una montagna di soldi rubati al Banco Ambrosiano. Quel giorno, il 13 settembre 1982, Licio Gelli si presenta di persona nella sede di Ginevra della banca Ubs. Dove ha accumulato 280 milioni di franchi svizzeri, che vorrebbe spostare al sicuro. Quel tesoro, parte di bottino ancora più grande, da poche settimane è però sotto sequestro giudiziario per la maxi-bancarotta dell’Ambrosiano di Roberto Calvi. La manovra fallisce. E all’Ubs arriva la polizia, che arresta così il burattinaio della loggia segreta, scoperta nel marzo 1981, che ha condizionato e inquinato le gerarchie del potere in Italia.
Quando viene perquisito, gli agenti gli trovano addosso documenti riservatissimi. Carte che riassumono i suoi segreti più scottanti, utilizzabili per ricattare, tessere nuove trame, garantirsi omertà e protezioni. Tra quegli «appunti manoscritti», ad esempio, c’è lo schema dell’effettiva catena di controllo della Rizzoli, il colosso dell’editoria scalato dai vertici della P2 con i soldi di Calvi. Gelli ammette di aver scritto questi “pizzini” e finisce per confermare che descrivono fatti veri. Da quelle carte parte la nuova indagine sulla strage di Bologna, il più grave eccidio terroristico della nostra storia: 85 vittime, straziate dalla bomba esplosa il 2 agosto 1980 tra la folla nella stazione dei treni.
Come esecutori sono stati riconosciuti colpevoli, con diverse sentenze definitive, tre terroristi dei Nar, Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. Ora, dopo la condanna in primo grado di un quarto killer neofascista, Gilberto Cavallini, la procura generale di Bologna ha chiuso la nuova indagine sui presunti «mandanti, finanziatori ed altri esecutori» della strage. Che chiama in causa Licio Gelli e il suo braccio destro Umberto Ortolani. E parte proprio dalla pista dei soldi.
Una delle carte che Gelli portava con sé ha questa intestazione: «Bologna – 525779 – X.S.». Il numero corrisponde a uno dei conti svizzeri dove il capo della P2 incassava i fondi neri dell’Ambrosiano. L’appunto riassume un «piano di distribuzione di somme di denaro»: diversi milioni di dollari, versati da Gelli tra luglio 1980 e febbraio 1981, cioè nei mesi della strage e dei più esplosivi depistaggi orchestrati proprio dal capo della P2. Il flusso di soldi è precisato in altre due pagine scritte da Gelli, che annota pagamenti in lire o dollari: «a M.C. consegnato contanti 5.000.000», «accreditato $ 4.000.000 Ginevra», e altri. I contanti risultano distribuiti «dal 20 al 30 luglio 1980». Il bonifico milionario viene eseguito il primo settembre 1980 «dalla signorina Agnolini», la segretaria che gli gestisce i conti. E ha consegnato pacchi di banconote anche a un misterioso italiano del sud, così descritto: «meridionale, biondo, naso largo, cicatrice vicino orecchio».
Gelli è stato condannato in via definitiva come stratega di mesi di depistaggi: false «piste internazionali» create per proteggere i terroristi di destra romani. Dopo la strage, quando scopre che c’è un rapporto del Sisde che accusa i Nar, il capo della P2 si muove di persona per imporre al capo-centro del servizio segreto civile, Elio Cioppa, piduista, di abbandonare la pista neofascista. L’incontro avviene «ai primi di settembre 1980». In coincidenza con il bonifico svizzero. Da allora c’è un crescendo di altre piste false e costose, che culmina nel depistaggio più clamoroso: nel gennaio 1981, per ordine di Gelli, una cordata di ufficiali del Sismi, tutti piduisti, guidata dal colonnello Pietro Musumeci e dal generale Giuseppe Santovito (capo del servizio segreto militare), fa ritrovare sul treno Taranto-Bologna un carico di armi e di esplosivi identici alla bomba del 2 agosto, accanto a falsi documenti di due fantomatici terroristi stranieri.
Scoperti questi intrighi, il capo della P2 viene dichiarato colpevole di aver ostacolato le indagini per favorire i Nar. Gelli viene poi condannato, con altri big della loggia come Umberto Ortolani, anche come principale responsabile, nonché beneficiario, della rovinosa bancarotta dell’Ambrosiano (1.193 miliardi di lire): la banca milanese guidata da Roberto Calvi, ucciso nel 1982 a Londra. Gelli ha potuto scontare la pena nella sua villa di Arezzo, dove è morto nel 2015: ha dovuto restituire oltre 300 milioni di dollari e 250 chili di lingotti d’oro, ma si è tenuto 12,5 milioni. Anche Ortolani ha evitato il carcere, per motivi di salute, ed è deceduto nel 2002. I “pizzini” di Gelli, ritrovati dai familiari delle vittime della strage, ora uniscono la bancarotta targata P2 con la bomba di Bologna. I magistrati che si preparano a chiudere il nuovo atto d’accusa, che dovrà essere convalidato dal gip, sostengono che i terroristi dei Nar sarebbero stati finanziati con soldi sottratti all’Ambrosiano. Nascosti nei conti svizzeri di Gelli e Ortolani. E riversati ai neofascisti romani.
Di certo mentre preparavano la strage, come si legge nelle sentenze già definitive, i terroristi neri hanno ricevuto grossi finanziamenti. Un riscontro in tempo reale arriva proprio dal rapporto del Sisde che costringe Gelli a mobilitarsi, firmato dal colonnello di estrema destra Amos Spiazzi: l’ufficiale preannuncia già nel luglio 1980 che i gruppi romani dei Nar stanno preparando «azioni militari», cioè attentati gravissimi, e cercano armi ed esplosivi «senza limiti di prezzo», perché hanno ricevuto «finanziamenti». Spiazzi ha ricevuto quella soffiata da Francesco Mangiameli, capo di Avanguardia nazionale e poi di Terza posizione (la banda armata intrecciata ai Nar) in Sicilia, dove aveva ospitato Fioravanti e Mambro pochi giorni prima della strage. Mangiameli è stato ucciso da Fioravanti e altri tre killer dei Nar il 9 settembre 1980, dopo la diffusione del rapporto Spiazzi, per far tacere uno dei pochi che potevano parlare della bomba di Bologna.
L’ipotesi che Gelli abbia depistato le indagini sulla strage perché ne era il mandante deve ancora superare l’esame dei giudici, ma è suffragata da gravissimi precedenti. La commissione presieduta da Tina Anselmi, nella relazione finale sulla loggia di Gelli, conclude che già negli anni ’70 «la P2 svolse opera di istigazione agli attentati e di finanziamento di gruppi terroristici neofascisti in Toscana». Soldi, appoggi e coperture che risultano «adeguatamente dimostrati», con «gravi e sconcertanti riscontri», perfino dalle sentenze di assoluzione, per insufficienza di prove, dei terroristi neri che furono imputati della strage dell’Italicus. Un altro attentato sanguinario (12 morti per una bomba sul treno tra Firenze e Bologna) depistato da plotoni di piduisti.
La sorpresa maggiore, nel nuovo atto d’accusa, è il ruolo di «organizzatore» dell’eccidio di Bologna attribuito a Federico Umberto D’Amato, per anni capo dell’Ufficio affari riservati, anche lui iscritto alla P2, morto nel 1996. Le sentenze su Piazza Fontana, la madre di tutte le stragi, accusavano il suo ufficio di aver orchestrato la falsa pista anarchica. Per favoreggiamento dei terroristi di Ordine Nuovo, invece, sono stati condannati due ufficiali (piduisti) del Sid, il servizio segreto militare, coinvolto con un suo confidente-infiltrato anche nell’esecuzione della strage di Brescia (28 maggio 1974, otto vittime). La commissione Anselmi certifica che il prefetto D’Amato aveva «rapporti stretti e costanti con Licio Gelli» e altri personaggi chiave della loggia, come il banchiere Calvi, che lo frequentò fino agli ultimi giorni, il faccendiere del Sismi Francesco Pazienza, l’editore Angelo Rizzoli e il giornalista poi assassinato Mino Pecorelli. Anche nell’archivio di Gelli in Uruguay c’erano «informazioni raccolte da D’Amato». E dossier su di lui.
Nel 1974, dopo troppe stragi e depistaggi, l’Ufficio affari riservati viene soppresso. Il nuovo ispettorato anti-terrorismo, guidato dal prefetto Emilio Santillo, apre le prime indagini sulla P2, ancora sconosciuta, e trasmette ai magistrati tre relazioni sui legami tra la loggia di Gelli e l’eversione di destra. D’Amato viene mandato a dirigere la polizia stradale, ferroviaria e postale. Ma nel 1980, secondo quanto emerge dall’ordinanza d’arresto della Banda della Magliana (collegata ai Nar), l’ex capo degli affari riservati inizia a collaborare con il Sismi, come conferma anche Francesco Pazienza, braccio destro del generale Santovito e a sua volta condannato per i depistaggi di Bologna.
Le attività «preparatorie» della strategia stragista, con Gelli mandante e D’Amato organizzatore, sarebbero «iniziate», secondo la procura generale, già «nel febbraio 1979». I magistrati per ora non svelano le prove raccolte, sostenute anche da documenti inediti come diversi dossier dei servizi, mai svelati, che adesso sono stati messi a disposizione delle parti solo per consultazione (senza farne copia). Perché coperti da segreto. In quelle carte ci sono fatti descritti dall’intelligence dell’epoca successiva alla strage che mettono a nudo un sistema finora coperto da assoluta riservatezza, per una questione di “ragion di Stato” che solo oggi sta per essere svelata. Di certo in quei mesi l’Italia fu segnata da una svolta a destra: la fine della solidarietà nazionale, cioè dei governi democristiani con l’appoggio esterno del Pci; le elezioni anticipate del 1979; i nuovi esecutivi a guida Dc, infiltrati dalla P2 come tutti i servizi; il cosiddetto «preambolo», nel febbraio 1980, con la definitiva esclusione del partito di Enrico Berlinguer e l’alleanza con il Psi di Craxi. La strage di Bologna, spiegano le sentenze già definitive, aveva «finalità politiche»: un attacco mortale contro la città simbolo del vecchio Pci. Un movente confermato anche dall’autobomba nera esplosa due giorni prima, il 30 luglio 1980, all’ingresso di Palazzo Marino, pochi minuti dopo la nascita della seconda «giunta rossa» di Milano. Una strage sfiorata, per un guasto a uno dei due inneschi, che provocò solo feriti: l’attentato è rimasto senza colpevoli, ma tutte le indagini lo attribuiscono proprio ai Nar.
Federico Umberto D’Amato, secondo l’avviso di conclusione delle indagini, si sarebbe servito di un altro politico della P2, Mario Tedeschi, già direttore del Borghese e poi parlamentare del Msi, per «la gestione mediatica dell’evento strage», sia nella fase «preparatoria» che nei successivi «depistaggi». Anche questa grave ipotesi d’accusa a carico di Tedeschi, morto nel 1993, va accolta con prudenza, in attesa di riscontri. L’unica certezza, per ora, è il suo intrigante rapporto con D’Amato, che risale agli anni ’60, quando lo aiutò a organizzare «l’operazione manifesti cinesi». Una provocazione contro il Pci, realizzata tappezzando molte città italiane con propaganda murale firmata da un inesistente gruppo di ultra-sinistra. I manifesti in realtà furono affissi dai neofascisti di Avanguardia nazionale, come ha poi ammesso il loro capo, Stefano Delle Chiaie. Reclutato da D’Amato proprio attraverso Tedeschi. Negli anni ‘90, a Venezia, un ex dirigente degli affari riservati, Guglielmo Carlucci, ha testimoniato che Delle Chiaie è stato per lunghi anni un «confidente-infiltrato» di D’Amato, che in cambio «agevolava lui e i suoi camerati per il rilascio di passaporti, porto d’armi e quant’altro».
Proprio tra i neofascisti di Avanguardia nazionale è cresciuto Paolo Bellini, oggi sotto accusa come quinto presunto esecutore materiale della strage di Bologna, che si dichiara innocente. Di sicuro ha una storia pazzesca. Killer nero. Latitante con passaporto brasiliano. Pilota e istruttore di volo. Ricettatore di opere d’arte rubate. Confidente-infiltrato dei carabinieri. Suggeritore della strategia terroristico-mafiosa di attacco ai monumenti per le bombe di Cosa nostra del 1993. Sicario della ’ndrangheta emiliana. Da alcuni anni è rientrato nel programma di protezione dei collaboratori di giustizia, pagato dallo Stato. E ora indagato per la strage.
Il suo nome emerge già il 7 agosto 1980, quando la polizia trasmette una foto «dell’estremista di destra Paolo Bellini», segnalando la «notevole rassomiglianza» con l’identikit di «un giovane visto allontanarsi precipitosamente dalla sala d’aspetto della stazione poco prima dell’esplosione». Allora nessuno sa che è un killer neofascista: ha ucciso un militante emiliano di Lotta Continua, Alceste Campanile, alla vigilia delle elezioni del 1975. Un delitto politico rimasto impunito, con indagini deviate verso false piste di sinistra, che lo stesso Bellini confessa più di 30 anni dopo, quando ottiene la prescrizione.
Intanto, nel 1976, scappa all’estero per sfuggire all’arresto per un altro tentato omicidio, per una lite di famiglia, da cui anni dopo verrà assolto. Durante la latitanza, cambia identità: diventa il brasiliano Roberto Da Silva. Con passaporto del regime militare: un documento autentico con generalità false, come quelli dei servizi. Con quel falso nome, ottiene un brevetto di pilota negli Stati Uniti, rientra in Italia e apre una scuola di volo a Foligno. Dove porta in giro in aereo anche l’allora procuratore capo di Bologna, Ugo Sisti, come «socio onorario» che non paga l’iscrizione. Il magistrato, molto discusso per i suoi rapporti col Sismi, è amico di famiglia di Aldo Bellini, fascista dichiarato e padre del latitante. La mamma di Bellini, intercettata, si lascia scappare che «il giorno dopo la strage Ugo Sisti ha visitato la nostra famiglia» e la figlia conferma, minimizzando: «Solo perché c’è amicizia». Quando si scopre che l’aviatore brasiliano è un latitante italiano, il procuratore si vede accusare dai giudici della strage di aver coperto e protetto il ricercato, ma viene scagionato con una sentenza iper-garantista: «Avendo appreso lo stato di latitanza di Bellini in via privata, e non in veste di procuratore, non aveva obbligo di denuncia».
E così il neofascista resta libero, entra in una banda che svaligia ville in Toscana e viene arrestato e condannato per ricettazione di mobili, ma sempre come brasiliano. Detenuto in Sicilia, nomina un avvocato prestigioso: il professor Ennio Amodio. Interpellato dall’Espresso, Amodio ricorda che Da Silva gli fu segnalato «dal professor Giuseppe De Luca», un grande avvocato di Roma, «a sua volta contattato da un amico di famiglia». In carcere, a Sciacca, il finto brasiliano divide la cella con un mafioso di rango, Antonino Gioè. Scontata la pena e ritrovata la sua vera identità, Bellini torna libero e diventa confidente di un maresciallo dei carabinieri incaricato di recuperare opere d’arte rubate. E tra il 1991 e 1992 va a trovare l’amico mafioso Gioè, come infiltrato, per recuperare capolavori rubati da Cosa nostra.
Bellini diventa così il tramite della prima trattativa Stato-mafia, ammessa da tutti, che fallisce: Salvatore Riina è pronto a far ritrovare quadri preziosi, ma pretende gli arresti ospedalieri per cinque boss troppo pericolosi, tra cui Pippo Calò, mafioso di collegamento a Roma, condannato per la prima strage terroristico-mafiosa del treno di Natale (23 dicembre 1984, stessa galleria dell’Italicus). Ed è proprio Bellini a spiegare a Gioè l’importanza per lo Stato delle opere d’arte, che sono «insostituibili» (mentre «al posto di un magistrato ucciso ne arriva un altro»): da lì nasce l’idea di colpire chiese e musei per ricattare le istituzioni, attuata da Cosa nostra con le stragi del 1993 a Roma, Milano e Firenze. Uscito come testimone ad alto rischio dai processi alla Cupola, alla fine degli anni ‘90 Bellini diventa un killer della ’ndrangheta emiliana. Dopo l’arresto, confessa di aver eseguito almeno due omicidi, un attentato con 14 feriti in un bar di Reggio Emilia e altri reati inseriti in una guerra tra cosche che inquieta la città. Condannato a 22 anni, sconta la pena in una residenza protetta, come collaboratore di giustizia.
Nella vecchia istruttoria Bellini era stato archiviato per insufficienza di prove. Alcuni testimoni confermano di averlo visto a Bologna poco prima della strage; un detenuto giura che il fratello, Guido Bellini, poco prima di morire, gli confidò in carcere che era stato proprio Paolo a trasportare l’esplosivo.
Ma l’inchiesta non riesce a smontare l’alibi difensivo: un incontro con la mamma a Rimini, durato fino alle 9.30, che esclude il suo arrivo a Bologna con la bomba scoppiata alle 10.25. Pochi mesi fa, però, gli avvocati delle vittime isolano alcuni fotogrammi in un video dell’epoca, girato da un turista: in stazione c’è davvero un uomo con i baffi molto simile a Bellini. Le perizie confermano l’identità dei tratti somatici. A riscontrare l’accusa è anche un’intercettazione di Carlo Maria Maggi, il capo di Ordine nuovo nel Triveneto, condannato come organizzatore della strage nera di Brescia. La microspia nascosta nella sua casa dai pm di Milano, nel 1996, registra le sue risposte al figlio, che gli chiede cosa sa della strage di Bologna: «I tuoi cosa dicono? E tu, quello che sai?». Risposta di Maggi: «Lo so perché è così... In pratica già qua nei nostri ambienti, erano in contatto con il padre di ’sto aviere... E dicono che portava una bomba... Era alla stazione...». Poi il figlio domanda: «La Mambro e Fioravanti hanno fatto la strage di Bologna?». Risposta di Maggi: «Sì, sicuramente. Sono stati loro». Parola di stragista nero.
L’aviere è il pilota Bellini? Maggi ne fu informato dal suo camerata Massimiliano Fachini, che ospitava i Nar e sapeva della strage, tanto da preavvisare un’amica di stare lontana da Bologna? E i depistaggi continuano ancora oggi, con altre accuse per tre nuovi indagati? In attesa di future sentenze, gli avvocati di parte civile, Andrea Speranzoni e Roberto Nasci, elogiano la procura generale che, «dopo le condanne dei Nar come esecutori», è risalita «al livello superiore dei possibili mandanti»: «Questo processo può veramente cambiare la storia d’Italia».
https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2020/02/20/news/p2la-stragedella-1.344688?fbclid=IwAR0tUVKB4dtY_ErkXygdPX-MfmRysCL_TWci3EN3oHE9NbNfSz_SIqJ_klw
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