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Informazione Antifascista 1923
Gennaio-Febbraio - a cura di Giacomo Matteotti ·


pubblicato il 5.12.20
Cinque milioni nei conti svizzeri dei terroristi della strage della stazione di Bologna
·
Il capo della P2 Licio Gelli pagò gli estremisti neri per l’attentato. È quello che emerge dalle ultime indagini sull'attentato del 2 agosto 1980

04 dicembre 2020

Cinque milioni per una strage. Il più grave attentato terroristico nella storia della democrazia italiana sarebbe stato eseguito per soldi. Da terroristi di destra pagati da Licio Gelli e protetti dai vertici piduisti dei servizi segreti, sempre in cambio di denaro. Milioni di dollari rubati al Banco Ambrosiano e distribuiti attraverso cassieri-mediatori rimasti finora sconosciuti, perché i loro nomi furono cancellati dagli atti dei processi. Tra morti sospette, valigie di banconote che passano le frontiere, senatori, faccendieri e spioni che orchestrano false «piste internazionali di sinistra». Mentre i killer neofascisti nascondono i soldi in Svizzera.

Sono le nuove accuse formulate dai magistrati di Bologna con le ultime indagini sulla bomba nera che il 2 agosto 1980 ha devastato la stazione dei treni. La Procura generale, la Guardia di finanza e gli avvocati dei familiari delle 85 vittime hanno ricostruito un catena indiziaria che, per la prima volta, parte dai presunti mandanti e finanziatori, passa attraverso ricchi mediatori e arriva fino agli esecutori. La nuova indagine è ancora in attesa delle conferme dei processi, ma parte da basi solide: le sentenze definitive.

Come autori materiali sono stati condannati quattro terroristi neri: Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, capi dei Nar; Luigi Ciavardini, killer allora 17enne di Terza Posizione (una banda armata collegata, fondata da Roberto Fiore, tuttora in politica con Forza Nuova); e in primo grado, nel gennaio scorso, Gilberto Cavallini, il sicario dei Nar che teneva i rapporti con il gruppo veneto di Ordine Nuovo (responsabile delle precedenti stragi neofasciste di Peteano e Brescia). Per i depistaggi successivi all’eccidio di Bologna, organizzati per fermare le indagini sui terroristi di destra e indirizzarle su false piste internazionali, tutte le corti hanno giudicato colpevoli Licio Gelli, il capo della P2, Francesco Pazienza, il faccendiere che dominava il Sismi, e due ufficiali dello stesso servizio segreto militare.

Fioravanti, Mambro e i loro complici hanno confessato decine di omicidi, dopo l’arresto, ma si sono sempre proclamati innocenti per la bomba di Bologna, dichiarandosi «spontaneisti armati», in rotta con la vecchia destra eversiva protetta dai servizi. La nuova indagine obietta che lo stragismo è «inconfessabile» (perfino i pochi pentiti neri minimizzano le proprie colpe) e affronta un quesito logico: perché il capo della P2, che nel triennio 1978-1980 aveva in mano l’Italia, si espone personalmente per favorire gli «spontaneisti armati»? L’istruttoria è complessa, ma la risposta finale è semplice: perché li aveva pagati lui per fare la strage.

I primi indizi sono manoscritti segreti dello stesso Gelli, rimasti insabbiati per più di trent’anni (e rivelati dall’Espresso negli articoli del 26 luglio e 2 agosto scorsi). In particolare, un appunto sequestratogli il 17 marzo 1981 descrive un’operazione riservata da cinque milioni di dollari. Il 20 per cento, cioè un milione, viene versato in contanti, come «anticipi», tra il 20 e 30 luglio 1980, alla vigilia della strage. Gli altri quattro vengono bonificati tramite conti svizzeri all’inizio di settembre, come «saldo». Proprio mentre Gelli fa partire i depistaggi.

Il destinatario immediato dei cinque milioni è un cassiere e prestanome del burattinaio della P2, Marco Ceruti, incaricato di smistarli ad altri. Un secondo documento di Gelli collega quei soldi alla città della strage: Bologna. E offre le prime tracce dei beneficiari finali. Il riferimento a Bologna però sparisce dagli atti: a eliminarlo, nel 1987, è un militare poi arrestato a Milano per molte successive corruzioni. Il «documento Bologna», finalmente recuperato, oggi permette di tracciare quei cinque milioni. Sono soldi rubati da Gelli all’Ambrosiano, la banca portata al fallimento dal banchiere (piduista) Roberto Calvi, ucciso a Londra nel 1982 da ignoti sicari. Da notare che Calvi non sa nulla di Bologna: il capo della P2 gli estorce quei soldi facendogli credere di poter corrompere i giudici milanesi. Un «millantato credito»: uno dei tanti reati per cui Gelli viene poi condannato.

Il primo beneficiario dei soldi per Bologna è un certo Giorgio Di Nunzio, che incassa un bonifico di 240 mila dollari, scoperto solo oggi: all’epoca il suo nome fu oscurato dal solito militare corrotto. Di Nunzio, sedicente «vaticanista», fa un mestiere proibito: incassa soldi in Svizzera per Gelli e altri clienti, come fiduciario-prestanome, e li porta in Italia. Di qui la domanda cruciale: quel mediatore aveva contatti con la destra eversiva? A confermarlo è un testimone d’eccezione: il suo unico figlio. Che ricorda «incontri e telefonate quotidiane» tra Di Nunzio e «personaggi potenti che condividevano la sua posizione di estrema destra». Il figlio menziona Federico Umberto D’Amato, l’ex capo dell’ufficio affari riservati, che «fece avere a mio padre una scorta». Mario Tedeschi, «il suo amico più stretto», ex direttore del Borghese e parlamentare del Msi. Ma anche Francesco Pazienza, il faccendiere dei depistaggi. E Aldo Semerari, il “criminologo-criminale” (ucciso nel 1981) che teorizzava di usare terroristi neri per creare «un’agenzia del crimine a pagamento», da mettere a disposizione di «personaggi come Gelli».

D’Amato e Tedeschi sono altri due beneficiari ormai accertati del «documento Bologna». Il primo, coperto da Gelli con il soprannome «Zafferano», è smascherato dall’esame dei suoi conti svizzeri, mai dichiarati e scoperti solo ora. D’Amato ha intascato 850 mila dollari con più versamenti: l’ultimo gli arriva il 30 luglio 1980, due giorni prima della strage. Il nome di Tedeschi, nero su bianco, è collegato da Gelli a diversi pagamenti, in lire o dollari, per «articoli» del Borghese: una campagna di stampa per aiutare i neofascisti e accreditare false piste internazionali. Il dato sbalorditivo è che le prime illazioni sul terrorista rosso Carlos, tuttora sbandierate dai negazionisti, furono pubblicate ancora prima della strage.

D’Amato e Tedeschi sono morti da tempo, come il capo della loggia segreta a cui erano affiliati, senza dover rispondere, né potersi difendere, da accuse così gravi. Anche Di Nunzio è deceduto, nel 1 981, in circostanze misteriose: oggi il figlio testimonia che la seconda moglie e il cugino (co-intestatario del conto con i soldi di Gelli) non gli fecero vedere la salma e gli indicarono «un cimitero sbagliato». Dieci anni dopo, quando i processi gli fecero scoprire il furto dei soldi dell’Ambrosiano, reclamò la sua eredità, ma «mio cugino mi intimò con fare intimidatorio che era tutto chiuso» e «la situazione era molto più grande di quanto potessi immaginare». «Dopo qualche giorno, per tacitarmi, mi consegnò 200 milioni di lire in contanti, legati con uno spago».

Un altro beneficiario dei soldi di Gelli per Bologna è Francesco Pazienza, che ha ricevuto diversi bonifici su conti svizzeri. Cifre e date riscontrano i legami con la strage: Pazienza è già stato condannato sia per la bancarotta dell’Ambrosiano, per aver estorto soldi a Calvi, sia per il più clamoroso depistaggio piduista: armi ed esplosivi nascosti su un treno, nel gennaio 1981, per rilanciare l’ennesima pista estera.

I primi soldi risultano distribuiti in contanti dal cassiere Ceruti, a sua volta già condannato per aver sottratto 15 milioni all’Ambrosiano, compresi i quattro del «saldo» di Gelli. Oggi Ceruti nega solo di aver gestito il primo milione. Cioè i famigerati «anticipi». Per la pubblica accusa, tace per non compromettersi. E i contanti non lasciano tracce. Ma le presenze negli alberghi sì. E qui spuntano altri indizi. Sia Gelli che Ceruti erano a Roma nei giorni della distribuzione degli anticipi. E il 30 e 31 luglio, nella capitale, c’erano anche i due capi dei Nar: gli esecutori della strage. Interrogato più volte nei vari processi su cosa ci facesse a Roma, Fioravanti all’inizio nega, poi dice «non ricordo», quindi inventa una balla (un viaggio a Taranto) smentita persino dalla Mambro, che si allinea alla sua bugia solo in appello. Un buio totale, che l’accusa spiega proprio con la necessità di nascondere quegli incontri inconfessabili. Altrimenti, perché tacere o mentire per 40 anni?

Un altro «terrorista prezzolato», secondo la procura generale, è il nuovo indagato per la strage, Paolo Bellini, ancora in attesa di giudizio. In questi anni ha confessato di aver commesso omicidi politici e delitti di ‘ndrangheta, ma sui soldi ha risposto così: «Sui miei conti in Svizzera dichiaro che è un problema svizzero, non italiano. Non ho altro da aggiungere». Bellini è stato in Svizzera anche tra il 20 e 30 luglio 1980.

A suo carico pesa anche un’intercettazione ambientale di Carlo Maria Maggi, il capo di Ordine nuovo nel Triveneto, condannato per la strage di Brescia, che la sapeva lunga anche su Bologna. Un suo camerata, Massimiliano Fachini, era tra i pochi a sapere in anticipo della bomba in stazione. Nel 1996, nel salotto di casa, il figlio chiede a Maggi di parlare: «La Mambro e Fioravanti hanno fatto la strage di Bologna?». Risposta del terrorista: «Sì, sicuramente... Sono stati loro... Intanto lui ha i soldi...». Quindi perfino il leader stragista conferma che Fioravanti ha messo la bomba per denaro. Nell’intercettazione, disturbata da rumori di fondo, si sente anche una cifra, 100, riferita però a Bellini. Guarda caso, è la stessa somma messa a verbale da due testimoni finiti in carcere con lui pochi mesi dopo la strage: 100 milioni di lire per portare la bomba a Bologna.
La strage alla stazione di Bologna...
La strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980

Pazienza riceveva i bonifici più scottanti in una banca di Ginevra: la stessa dove aveva un conto Gilberto Cavallini. Proprio lui, il killer, armiere e tesoriere dei Nar. Tre giorni dopo l’omicidio del giudice Amato, ha versato 15 milioni di lire sul conto italiano della fidanzata. Ma aveva anche soldi esteri. Lo scrive lui stesso in un rendiconto, intitolato «averi», sequestrato quando fu arrestato nel 1983: «57 mila dollari, tre milioni e mezzo di franchi svizzeri...». Nel recente processo, Cavallini conferma che aveva valuta straniera, negando però di aver avuto conti esteri.

Ma un suo complice dell’epoca, un rapinatore slavo arrestato in Svizzera nel 1982, conferma già allora che Cavallini aveva «due conti, a Lugano e a Ginevra, dove andavamo in banca insieme». Il terrorista nero gli confidò pure di aver ricevuto «un grosso finanziamento» in un contesto «collegato a Gelli e Pazienza». Anche Walter Sordi, il primo pentito dei Nar, oggi testimonia che Cavallini gli disse di avere «almeno un conto, cifrato, in Svizzera». Gli «spontaneisti armati» con i soldi a Ginevra.

https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2020/12/04/news/strage-bologna-milioni-licio-gelli-1.356881

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