pubblicato il 12.02.21
Bugie contro Falcone sul delitto Mattarella: il neofascista Fioravanti torna sotto accusa ·
Al processo per la strage di Bologna l'ex terrorista mente per favorire il suo capo Cavallini. E diffama il giudice eroe. La corte lo incrimina per falsa testimonianza. E manda a Palermo nuove prove sull'omicidio del fratello del Presidente della Repubblica
09 Febbraio 2021
Il condannato per terrorismo, strage e decine di omicidi che offende la memoria di Giovanni Falcone. Il giudice eroe della lotta alla mafia. Screditato in una corte d'Assise da un pregiudicato neofascista, libero da tempo. Anche se proprio Falcone lo aveva fatto arrestare. Per un delitto di portata storica. Con mandanti ai vertici di Cosa nostra. E due soli esecutori, rimasti misteriosi.
È successo anche questo, nell'ultimo processo per l'eccidio del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna (85 vittime, oltre 200 feriti). Dopo le condanne definitive di Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini , i giudici hanno dichiarato colpevole, in primo grado, un altro capo dei Nar, Gilberto Cavallini, tesoriere, armiere e sicario di quella micidiale banda armata. Le motivazioni della sentenza, oltre duemila pagine depositate dai giudici tre settimane fa, ricostruiscono l'intera catena di delitti perpetrati da quei terroristi di destra, protetti dai servizi segreti dominati dalla P2. Fioravanti e Cavallini, negli anni Ottanta, furono accusati proprio dal giudice Falcone di aver eseguito, su commissione dei boss, anche l'omicidio di Piersanti Mattarella: il presidente della Regione Sicilia, assassinato nel centro di Palermo il 6 gennaio 1980 sotto gli occhi della moglie, rimasta ferita. I due terroristi neri sono stati però assolti in tutti i gradi di giudizio. E l'assassinio del fratello dell'attuale Capo dello Stato rimane così il più anomalo dei misteri italiani: dopo 40 anni di indagini contrastate, si conoscono i mandanti, che di solito è più difficile scoprire, mentre i due killer sono tuttora impuniti.
A riparlare oggi di quell'indagine di Falcone è stato lo stesso Fioravanti, chiamato a testimoniare nel processo a Cavallini. In aula il fondatore dei Nar si proclama innocente per la strage di Bologna, come sempre, e fa di tutto per scagionare il complice, con risultati controproducenti. E senza che nessuno glielo chieda, riapre il caso Mattarella, forte della sua unica assoluzione. Sa che Falcone non può smentirlo: è stato ucciso dalla mafia il 23 maggio 1992 nella strage di Capaci. Il racconto parte da un antefatto: «All'epoca, in una trasmissione di Santoro chiamata Samarcanda, Leoluca Orlando cominciò a urlare contro Falcone, davanti alla mia foto, accusandolo di tenere nel cassetto le prove contro i fascisti». E qui il fondatore dei Nar la spara grossa, sotto giuramento: «Due o tre giorni dopo, Falcone mi chiamò, fece uscire tutti e mi disse: “Fioravanti, come magistrato e come siciliano, io a questa cosa di Mattarella non ci credo. Però lei si rende conto che a questo punto, se non procedo, divento anch'io della P2 ”». Il giudice, dunque, lo avrebbe inquisito pur sapendolo innocente. Non solo: «La sera stessa Falcone dispose il mio trasferimento in un regime speciale d'isolamento, una gabbia di vetro, con luci accese giorno e notte, per sei mesi, per cui non mangiavo più». Una tortura a lieto fine, conclude Fioravanti, perché «al 181esimo giorno Falcone stesso mi tolse dall'isolamento».
I giudici di Bologna, nella sentenza contro Cavallini, demoliscono queste «menzogne». E denunciano Fioravanti alla procura per falsa testimonianza, accusandolo anche di «calunnia», non applicabile «solo perché Falcone è morto». Il presidente della corte ripercorre tutti gli atti di Palermo e documenta che Falcone ha aperto per primo le indagini sui terroristi neri per l'omicidio Mattarella, le ha continuate per cinque anni, le ha difese anche davanti alla commissione antimafia, collegandole alla bomba di Bologna e ad «altri attentati» che hanno unito neofascisti e mafiosi. E nel 1989 proprio lui ha ordinato l'arresto di Fioravanti e Cavallini. Mentre «la trasmissione Samarcanda è andata in onda nel 1990, quando Falcone non era più giudice istruttore da quasi un anno».
Elencate queste e molte altre contro-prove, i giudici concludono: «Ancora una volta Fioravanti non si pone limiti nel mentire». E si chiedono «perché abbia bisogno ancora oggi di costruire simili menzogne». La risposta è che l'omicidio di Piersanti Mattarella nasconde segreti «inconfessabili». Come la strage di Bologna.
Per l'assassinio del leader politico siciliano, che si batteva per il «rinnovamento» di una Dc inquinata dalla mafia, sono stati condannati tutti i boss della cupola di Cosa nostra. Alcuni pentiti di alto livello, come Tommaso Buscetta e Francesco Marino Mannoia, hanno potuto ricostruire le riunioni di vertice tra i «capi mandamento», in tregua precaria alla vigilia della guerra storica di mafia. L'omicidio fu «voluto dai corleonesi, Riina e Provenzano», e dai loro alleati a Palermo come Francesco Madonia. Il boss Stefano Bontate, ormai isolato, puntava invece a riconquistare la Dc, ma si allineò: quel presidente della Regione dava fastidio anche a lui.
Falcone, Borsellino e gli altri magistrati del pool antimafia hanno ricostruito tutti gli atti di Mattarella contro Cosa nostra. Appena insediato, ha imposto «legalità e trasparenza negli appalti e collaudi regionali». Si è opposto a Vito Ciancimino, il mafioso corleonese che era diventato sindaco di Palermo. Ha fermato contratti colossali per costruire sei scuole di Palermo, assegnate ad altrettante aziende mafiose (una ciascuno): il suo stop fu cancellato «due giorni dopo l'omicidio». Anche la sua linea politica irritava i boss: Piersanti era della corrente di Aldo Moro e propugnava anche in Sicilia l'alleanza con il Pci di Pio La Torre, padre della legge antimafia, ucciso nel 1982. Sui mandanti mafiosi, quindi, non ci sono dubbi. Come sulle complicità politiche: il pentito Mannoia è stato testimone oculare di due incontri, prima e dopo l'omicidio Mattarella, tra il boss Bontate e Giulio Andreotti, capo della corrente più marcia della Dc, che si sentì preannunciare e poi rivendicare il delitto. Ma non avvertì la vittima. E tantomeno la polizia.
Il problema è l'esecuzione dell'agguato: Falcone è il primo a considerarla anomala. Piersanti viene ucciso in pieno giorno da un ventenne a volto scoperto, che deve usare due pistole, perché la prima s'inceppa. L'auto guidata dall'unico complice risulta rubata la sera prima alle 19,30, come le due targhe fatte a pezzi nella notte per ricomporne in fretta una falsa, e viene ritrovata intatta due ore dopo il delitto. Cosa nostra all'epoca è una potenza militare, le sue «squadre della morte» sono macchine da guerra, come dimostrano altri «omicidi eccellenti» decisi da tutta la cupola. Per ammazzare il generale Dalla Chiesa, i sicari corleonesi hanno usato i kalashnikov e tre commando armati, con una moto e due auto poi bruciate per far sparire le tracce. Uno di quei mitra era stato già impiegato, come un messaggio in codice, per uccidere Bontate e il suo braccio destro Salvatore Inzerillo. Per altre stragi clamorose la mafia usava già allora le prime autobombe. Anomalo invece è anche l'omicidio di Michele Reina, segretario della Dc di Palermo, ucciso nel 1979 con una pistola da un ventenne mai identificato.
La tesi di Falcone è che i corleonesi abbiano assoldato sicari esterni, con alleanze criminali tenute nascoste agli altri boss poi sterminati. L'indagine sui Nar si basa su vari indizi. Nel 1984 la vedova di Mattarella, che non dimentica «il viso gentile, ma con lo sguardo glaciale» del killer, riconosce in una foto Fioravanti. Che nei giorni dell'omicidio era a Palermo con Cavallini. Nel 1986 il fratello, Cristiano Fioravanti, confessa a Falcone che Valerio stesso gli confidò di aver assassinato «un importante politico siciliano, davanti alla moglie». E i più attendibili pentiti di destra aggiungono che era Piersanti Mattarella.
Dal 1988, però, le indagini su tutti gli omicidi eccellenti si fermano. Il nuovo capo dei giudici istruttori, Antonino Meli, smantella il pool antimafia, divide le inchieste ed emargina Falcone. Che nel 1989 passa in Procura, ma anche qui viene isolato dal nuovo capo, Pietro Giammanco. Mentre Cristiano Fioravanti, su pressione del padre, ritratta le accuse al fratello. Nel marzo 1991 Falcone se ne va a Roma, al ministero. Intanto un suo amico magistrato, Loris D'Ambrosio, chiede nuove indagini sull'arma delitto e sulle targhe rubate, elencando decine di covi dei Nar, ma viene ignorato.
Dopo la morte di Falcone, gli imputati Fioravanti e Cavallini vengono assolti dagli stessi giudici che condannano i mandanti mafiosi. Ma sanno poco del terrorismo nero. Nelle sentenze si legge che a Palermo non sono stati nemmeno acquisiti gli atti sui rapporti tra il boss di Cosa nostra a Roma, Pippo Calò, i riciclatori della P2 e la Banda della Magliana, alleata dei Nar. Legami che Falcone considerava cruciali. Anche la condanna di Calò per la strage sul treno Firenze-Bologna (23 dicembre 1984, sedici morti e oltre 250 feriti), organizzata dal boss con esplosivo fornito da un politico neofascista, viene trascurata. Per le corti di Palermo le responsabilità mafiose escludono la pista nera.
Le assoluzioni si basano sulle dichiarazioni di quattro pentiti di Cosa nostra, gli unici a parlare di esecutori mafiosi. Vengono considerati «concordanti», anche se nominano sei killer diversi. Nessuno di loro mente. Però riportano notizie di terza mano. La fonte di Mannoia e Buscetta, per esempio, è Bontate, che sugli esecutori riferiva quanto gli dicevano i nemici corleonesi.
In appello, la corte esamina anche una foto di Antonino Madonia, un sicario spietato, l'unico accusato da due pentiti (su quattro), e trova «una solare somiglianza» con Fioravanti. Quindi conclude che la vedova della vittima si è sbagliata, facendosi «suggestionare» dalla foto del terrorista, anche se lei ha sempre giurato il contrario.
La sentenza di Bologna critica prima di tutto il modo in cui si è arrivati ??alle assoluzioni. Di fronte a un'indagine di Falcone, «nessuno ha ritenuto di riconvocare la vedova», per mostrare a lei la foto di Madonia: «Il riconoscimento è stato fatto dagli stessi giudici». Che elevano a «certezze» le testimonianze indirette dei pentiti, anche se «non risulta che sia stata aperta nessuna indagine su Nino Madonia per l'omicidio Mattarella».
Negli ultimi mesi, finalmente, la procura di Palermo ha riavviato l'inchiesta, che riguarda anche l'omicidio Reina. E ha ricevuto atti dalla procura generale di Bologna e dagli avvocati delle vittime della strage. La prima novità riguarda l'arma del delitto. I carabinieri hanno confrontato gli otto proiettili del delitto Mattarella con la pistola usata da Cavallini, il 23 giugno 1980, per assassinare il pm romano Mario Amato.
Quella «Colt modello Cobra calibro 38» è «di sicuro interesse investigativo», spiega la perizia, perché «la canna è solcata da sei rigature sinistrorse di 1,5 millimetri»: le stesse trovate sulle pallottole del delitto di Palermo. La pistola dei Nar, inoltre, «esibisce difetti di funzionamento», per cui è «compatibile» anche «con la dinamica dell'omicidio Mattarella», dove una pistola s'inceppò. Ma oggi è impossibile avere la «certezza» che sia la stessa arma, perché «i proiettili sono stati compromessi», in questi quarant'anni, dai «processi ossidativi del piombo».
Il giudice D'Ambrosio, quando si era ancora in tempo, chiese inutilmente di esaminare anche quella pistola di Cavallini, sequestrata nel 1982 a Roma. Le nuove indagini seguono anche un'altra sua pista. Lo stesso anno, in un covo dei Nar a Torino, furono confiscate «targhe e pezzi di targhe rubate», annotate nel verbale dei carabinieri. Una ha gli stessi numeri (PA 560391) dei pezzi mancanti (quelli rimasti in mano agli assassini) delle due targhe sottratte per l'omicidio Mattarella. In altre parole: le due parti scomparse a Palermo (PA53 e 0916), riassemblate diversamente, coincidono proprio con la targa trovata nel covo di Torino. Ora tutti questi reperti sono stati ritrovati, per cui una perizia potrebbe confrontare l'auto del delitto con le targhe dei Nar. A meno che non risultino anche queste ossidate.
Fioravanti e Cavallini, naturalmente, vanno considerati innocenti per l'omicidio di Piersanti Mattarella, che le indagini in corso a Palermo potrebbero anche attribuire a killer mafiosi. Comunque la loro assoluzione è definitiva.
Fioravanti rischia solo un processo per falsa testimonianza. Dove sarà in buona compagnia: tra i denunciati dai giudici di Bologna, per presunte reticenze sul terrorismo di destra, c'è anche il generale Mario Mori, ex capo dei servizi.
https://espresso.repubblica.it/inchieste/2021/02/09/news/bugie_contro_falcone_sul_delitto_mattarella_il_neofascista_fioravanti_torna_sotto_accusa-286738779/
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