pubblicato il 24.04.21
Veneto, condannato in Appello per aver vidimato firme false a favore di Forza Nuova: consigliere regionale di FdI rischia esclusione ·
Daniele Polato, lo scorso settembre, era risultato il primo degli eletti del partito di Giorgia Meloni con 10.783 preferenze. Ma la condanna, seppur non definitiva, rischia di far scattare la legge Severino che lo escluderebbe dal Consiglio veneto
di Giuseppe Pietrobelli | 24 Aprile 2021
Se non avesse avuto quel precedente penale, seppur non definitivo, Daniele Polato, neo consigliere regionale di Fratelli d’Italia in Veneto avrebbe potuto coltivare qualche ambizione di entrare nella giunta di Luca Zaia. Lo scorso settembre era risultato il primo degli eletti del partito di Giorgia Meloni con 10.783 preferenze e questo lo legittimava ad assumere un ruolo di primo piano nell’amministrazione regionale. Invece aveva dovuto fare i conti con la condanna a un anno di reclusione, coperta dalla sospensione condizionale, che gli era stata inflitta nel dicembre 2019. Adesso, anche in appello a Venezia, la pena è stata confermata e quindi si pone il problema della permanenza in Consiglio regionale. Si tratta di verificare quale interpretazione vada data, in assenza di una sentenza definitiva, alla legge Severino che vieta di ricoprire incarichi politici in presenza di condanne penali. Di sicuro Polato, che è assistito dall’avvocato Davide Adami, presenterà ricorso in Cassazione e quindi la condanna non è in giudicato.
Polato, prima di candidarsi in Regione, era assessore comunale alla Sicurezza nella giunta veronese guidata da Federico Sboarina. La condanna si riferisce al fatto che nel 2015 sottoscrisse firme, poi risultate false, che erano state raccolte da altre persone a sostegno della partecipazione elettorale della lista di Forza Nuova. La sua linea di difesa ha puntato sul fatto che egli si fosse fidato di ciò che gli aveva assicurato chi aveva materialmente raccolto tutte le firme. Si era prestato, aveva detto, a difesa del principio della “democrazia partecipativa”, per assicurare il diritto di partecipare a una contesa elettorale anche a un piccolo partito. ”Quando ho vidimato quelle firme per la presentazione delle liste alle Regionali del 2015, ho agito in assoluta buona fede e senza alcun interesse personale”, aveva spiegato in aula durante il processo di primo grado. Ma non gli era bastata quella dichiarazione ad evitare una condanna. La tesi non ha fatto breccia neanche in appello.
Cosa accadrà ora in Regione? Un mese fa la Corte Costituzionale ha ritenuto (per il caso di un consigliere regionale della Liguria) che la sospensione automatica, anche per una sentenza non definitiva, prevista dalla Legge Severino non è in contrasto con i principi della Carta Costituzionale, quando ci si trovi in presenza di reati di particolare gravità. Nella storia della Regione Veneto c’è un precedente famoso. Ai tempi dello scandalo Mose venne indagato e arrestato per corruzione l’assessore Renato Chisso di Forza Italia. Uscì dal Consiglio comunale, dando le dimissioni, seppur in assenza di una sentenza definitiva, prima che venisse presa la decisione di sostituirlo con un altro consigliere.
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