- di Mariella Bussolati
L’epidemia ai tempi dell’Antropocene. L’emergenza coronavirus può insegnarci ad affrontare quella vera: il clima - di Mariella Bussolati
L’Italia è paralizzata. L’impatto delle misure di sicurezza che si sono rese necessarie per cercare di fermare l’epidemia di coronavirus non ha precedenti nella storia. Pensavamo di vivere in una società che dava spazio a ogni libertà, siamo finiti invece nella situazione contraria.
Come andrà a finire non dipende neppure solo da noi ma dalle caratteristiche del virus, e soprattutto da quel che succederà nelle altre nazioni, ricche o povere, di ogni continente. Perché siamo tutti interconnessi, dunque una malattia che ha il difetto di sfruttare proprio i contatti ha autostrade a disposizione.
L’epidemia, ai tempi dell’Antropocene, sta avendo anche un altro potente effetto: sta mettendo in luce i difetti del modello di business della globalizzazione e dello sfruttamento dell’ambiente.
Chiusura di tutte le scuole, posti di controllo, cancellazione di tuti gli eventi pubblici. Filiere di lavoro interrotte, aziende che iniziano ad avere problemi, lavoratori, precari, i cui lavori diventano ancora più intangibili.
A causa del virus ci troviamo a mettere in discussione i pilastri della nostra società globalizzata, limitando la catena di approvvigionamento delle merci su cui si basa l’intero modello economico, con l’arresto di intere produzioni industriali nelle regioni più colpite dall’epidemia che porta alla riduzione di una disponibilità di componenti, prime tra tutte quelle per le automobili(Toyota e Hunday) e i cellulari(Google, Samsung), e di farmaci.
E come stiamo vedendo anche le borse, il simbolo del capitale, reagiscono negativamente. A questo si aggiungono regole di comportamento perfino per le nostre relazioni, come il metro di distanza, che ci rendono difficile esprimere la caratteristica più umana che ci sia: quella di essere un animale sociale.
E’ una dura lezione che la natura sta dando all’uomo.
C’è qualcosa che dobbiamo imparare? Servirà anche per affrontare l’altra crisi, quella più grave per il nostro futuro, quella di cui abbiamo già avuto evidenze, ovvero quella ambientale?
“In realtà dovremmo capire che le misure dell’emergenza coronavirus sono la normalità”, dice Guido Viale, saggista, attivista ambientale. “Quello che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni non lo era. L’emergenza del coronavirus ci dà invece l’occasione di prepararci ad affrontare quella climatica e ambientale, che continua a crescere, e si presenterà sulla scena con una forza cento volte superiore, con la consapevolezza che le alternative ci sono: una vita più sobria, lavori meno frenetici, la riconquista di tempo da dedicare a noi e alle nostre relazioni, pause per riflettere sul senso delle nostre esistenze, ma soprattutto un ambiente meno soffocato e soffocante, con meno smog, meno veleni, meno rumori, meno automobili per le strade”.
I movimenti ambientalisti, come Fridays for future, avevano paura che la gente non potesse mai cambiare le proprie abitudini. Abbiamo visto che si è dimostrato falso. E’ bastata la paura del contagio per frenare ogni traffico e spingere tutti ad adottare uno stile di vita completamente diverso.
“Il Covid-19 agisce però su una percezione dell’emergenza completamente diversa. Il virus rientra pienamente nella sfera del rischio per come lo ha definito il sociologo Ulrich Beck negli anni ’80: uno stato di tensione costante, diffuso ma impalpabile. Il virus ci sta dicendo molte cose ma perché tutto questo si possa trasformare in “insegnamenti” c’è bisogno di una radicale trasformazione culturale che metta in relazione sfere che finora abbiamo considerate sideralmente distanti: i consumi e la vita delle piante, l’ecologia e i rapporti interpersonali, i micro-organismi e le forme del lavoro”, dice Bertam Niessen, sociologo, Direttore di cheFare, agenzia per la trasformazione culturale.
“Le due crisi hanno in comune l’equazione dei disastri, ovvero pericolosità, vulnerabilità ed esposizione. E l’inerzia con cui la malattia è iniziata corrisponde a quella con cui stiamo cercando di capire la situazione del Pianeta. I risultati sono in entrambi i casi non a breve termine”.
“Gli effetti di quanto facciamo oggi, per abbassare le curve, li vedremo tra un po’ di tempo (10-15 giorni per il virus, 10-30 anni per il clima. Questo perché i contagi dei prossimi giorni sono l’effetto delle incubazioni dei giorni scorsi, mentre il riscaldamento dei prossimi anni deriva dagli accumuli di gas serra degli anni scorsi (la CO2 ha un lungo tempo di permanenza in atmosfera). In più il sistema clima non è lineare, il che significa che oltre una certa soglia di temperatura potrebbero innescarsi fenomeni bruschi che ci facciano “partire per la tangente” con impennate pericolose. In ogni caso pare evidente che questo sistema economico non sia sostenibile", dice Antonello Pasini, scienziato del cambiamento climatico del Cnr.
Di fatto il coronavirus ha già prodotto effetti molto evidenti: la Cina, che stava lentamente mettendo in atto misure contro il riscaldamento globale, improvvisamente, in questi giorni, ha ridotto di un quarto le sue emissioni e in Lombardia sono scesi i livelli di PM10. Le linee aeree stanno chiudendo molte tratte e il traffico si è ridotto drasticamente. In più si lavora da casa, si fanno video conferenze, si percorrono tratti più brevi e si riduce il traffico.
Quello che sta succedendo sembra suggerire che quando un allarme è davvero sentito, il mondo può effettivamente agire in modo veloce e su grande scala. Se prendessimo questo forzato e temporaneo cambio di paradigma come prova che cambiare è possibile, potremmo forse decisamente migliorare la nostra vita ed evitare anche che altre situazioni simili si ripresentino in futuro.
“Il sistema globale ha mostrato la sua vulnerabilità. Nel 1998 l’Organizzazione internazionale del lavoro aveva proposto di integrare nelle regole economiche il rispetto di ambiente e lavoro. Ma è prevalsa la scelta di non usarle. Ma quando si crea un sistema che si basa su flussi e interconnessione, l’economia non può essere l’unica cosa che conta e in assenza di norme il sistema ha mostrato tutta la sua fragilità. Se si prende la strada sbagliata, è difficile tornare indietro. Quello che manca è un concetto di bene pubblico globale, che sarebbe servito a proteggerci dal virus, come dai disastri ambientali” dice Mario Pianta, docente di politica economica presso la Scuola Normale superiore di Firenze.
Purtroppo, per ora, gli unici momenti in cui le emissioni si riducono drasticamente sono quelli che corrispondono alle recessioni. Sono anche quelli cui si manifesta in chiave precisa il legame tra l’effetto serra e la crescita economica. Ma quando il momento negativo finisce, tutto potrebbe tornare esattamente come prima.
“C’è stato un effetto indiretto tipo domino perché tutti i soggetti erano interdipendenti e questo ha dimostrato che il capitalismo rizomatico non è così flessibile. Ha per esempio una rigidità nel campo della logistica e i vari nodi devono invece essere funzionali e sincronizzati. Difficilmente capirà la lezione, perché questo richiede una pianificazione a medio-lungo termine, mentre ora quello che importa è solo il breve, ma allo stesso tempo è chiaro che non si può troppo tirare la corda”, sostiene Andrea Fumagalli, docente di Storia dell’Economia politica all’Università di Pavia.
“Il Covid-19 sta rendendo evidente a molti la struttura delle disuguaglianze della nostra società: chi è benestante e chi no, chi è garantito e chi no, chi è precario e chi no. La retorica del ‘siamo tutti sulla stessa barca’ che Richard Sennet aveva indicato come uno dei principali dispositivi economici del neoliberismo, improvvisamente non funziona più”, è il parere di Bertam Niessen,
Con 3.800 morti il Covid 19 risulta comunque ancora meno mortale che i combustibili fossili, che, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, sono responsabili di oltre 7 milioni di decessi ogni anno.
“E’ ancora presto per capire la portata degli impatti sul piano economico, ma se vogliamo essere ottimisti possiamo pensare all’inizio di un nuovo discorso pubblico basato su una re-infrastrutturazione democratica della società, su nuove forme di solidarietà, su un appello ad una maggiore presenza del pubblico nell’economia, su una nuova e migliore suddivisione dei rischi individuali del precariato” conclude Niessen.
Sarebbe in effetti conveniente utilizzare il male per trovare soluzioni positive che possano metterci al riparo anche da altri danni.
“L’unica preoccupazione che ha la politica è nell’immediato. Quello che è successo si potrebbe però ripetere con altri virus e altri batteri e con la globalizzazione i contagi sono molto facili. Aerei e merci che viaggiano da un capo all’altro del mondo sono una follia sia ecologica sia epidemiologica. In questo momento però l’impatto più grande è quello sui rapporti sociali, in una società nella quale tra l’altro la solitudine è già uno dei problemi maggiori. Potrebbe però anche accadere che proprio a causa di quello che è successo si potrebbe capire quanto importanti sono le relazioni”, sostiene Stefano Bartolini, docente di Economia politica e Economia della felicità all’Università di Siena.
Insomma quando il panico sarà passato dovremo evitare di far finta di nulla. Per esempio dovremmo ricordarci che il precedente dimezzamento dei posti letto negli ospedali ha creato una situazione difficile. E sfruttare l’esperienza di questo periodo per affrontare il futuro.
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