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In edicola il libro di Saverio Ferrari.
Da L’Unità
22.02.2006
Doppiopetto e manganello
di Vincenzo Vasile
Di seguito riportiamo la prefazione di Vincenzo Vasile, curatore del volume
Maledetto disordine, dove sarà finita quella foto. Primi anni Sessanta del secolo scorso. Andavo al liceo “Umberto”, la scuola più “rossa”, di Palermo. Quel che colpiva nell’istantanea che non trovo più tra le mie carte, è che eravamo tutti in giacca e cravatta. Ora Gigi fa l’attore, quell’altro è stato in galera per mafia, gli altri due sono procuratori della Repubblica, l’altro ancora dirige una banca, tre di noi abbiamo fatto i giornalisti. Tra i più anziani c’era anche un giovanotto serio e tranquillo, bravissimo sui banchi come in palestra, che si chiamava Giovanni Falcone. Era in sezione C, beniamino del professore Franco Salvo, storia e filosofia, uno che impiegava la sua coltissima e mite sapienza a spiegare, comma per comma, la Costituzione.
In disparte in quella foto c’era uno che si vedeva ogni tanto anche alle nostre “feste” del sabato sera, ma lui – quello che stava appartato nella foto ricordo – aveva soprattutto in testa altre cose. Strane cose. Un giorno aprì, durante la mezz’ora di intervallo, il cancello della scuola a gente che veniva da fuori per “punirci” forse per le lezioni sulla Costituzione, forse per un corteo contro Francisco Franco, non ricordo, e ci massacrarono di botte. Il preside stava a guardare alla finestra, prese i nomi di aggrediti e aggressori e salomonicamente distribuì a picchiatori e picchiati centinaia di “tre in condotta”.
Quello che aprì il cancello ai bastonatori si chiamava Francesco Mangiameli, detto “Ciccio”. E poi finì tragicamente sui giornali. Qualche anno dopo, tanti anni dopo. Era un fascista, forse l’unico fascista del liceo “rosso” di Palermo. L’uccisero altri fascisti, i Fioravanti, la Mambro, passandosi come in un rito di mano in mano la stessa pistola e buttandolo infine in uno stagno vicino a Roma, zavorrato con i pesi da sub. Stava organizzando l’evasione dal carcere di un suo camerata, che era proprio colui che capeggiò il manipolo della “spedizione punitiva” contro i “roscindittasi” del liceo Umberto, e si chiamava Pier Luigi Concutelli, uno che a colpi di mitra aveva assassinato un magistrato.
Ma questo accadde qualche anno dopo, tanti anni dopo. A uccidere Ciccio – che era divenuto uno dei capi di Terza posizione, gruppo mezzo “ufficiale” mezzo “clandestino”, che dalle ceneri del Sessantotto si proponeva di creare un movimento bipartisan bombarolo composto da “delusi” di entrambi gli estremismi – furono suoi camerati, che in seguito dissero in giro che voleva rubare i soldi della “cassa”. E invece Ciccio in morte fu salutato in un volantino come l’ultima vittima della strage di Bologna. Nel senso che sapeva troppo delle connessioni tra servizi segreti, gruppi fascisti, massoneria di Gelli, che stavano dietro al massacro. Tutto ciò sarebbe avvenuto qualche anno dopo, tanti anni dopo. La foto che non trovo più tra le mie carte fissa invece un momento in cui Ciccio Mangiameli in fondo era un bravo ragazzo dalle idee confuse e fanatiche; l’immagine cristallizza un tempo in cui la diaspora della destra eversiva non era ancora iniziata. Mangiameli e Concutelli (poi diventato un pluriassassino cui trovarono anche i soldi di un sequestro della ’ndrangheta, uno spietato killer di “infami” nelle carceri) erano inquadrati allora in un’organizzazione giovanile di partito, che rubò il nome mazziniano della “Giovane Italia”.
Il loro partito in origine era il Movimento sociale. Che aveva rispettabili e cupi deputati nazionali e regionali, legatissimi agli agrari che avevano armato nel 1947 i banditi contro i contadini di Portella della Ginestra, e un piccolo stuolo di consiglieri comunali che appoggiavano – dall’esterno delle maggioranze e dall’interno degli affari – governi e amministrazioni centriste, guidate da Vito Ciancimino e Salvo Lima. Un partito che aveva gruppi paramilitari che sfilavano con le divise della milizia della repubblichetta mussoliniana di Salò, sotto gli occhi della polizia. Tra doppiopetti e manganelli a Palermo, si scorgeva ogni tanto anche l’ombra di un maresciallo dell’Ufficio affari riservati, noto tra l’altro per avere fatto cadere per conto della Dc e degli esattori Salvo, un governo regionale “autonomista” e antidemocristiano, con un’intercettazione ambientale, non so se questo vi ricorda qualcosa. Si piazzò quel corpulento maresciallo con un grosso registratore, sotto il letto di una camera d’albergo, e questa solo apparentemente è un’altra storia.
Quel maresciallo democristiano degli Affari riservati, insomma, lo incontravamo per strada assieme a Ciccio e a Concutelli. Che spesso arri- vavano all’improvviso, assieme alla polizia, a “sciogliere” a cazzotti i nostri primi cortei per la pace nel Vietnam. Un giorno gridarono qualcosa come “Fede e ordine”, e iniziarono sistematicamente a pestarci. Finimmo in Questura, e ci “liberò” una telefonata del giornalista Mauro De Mauro, uno che da ragazzo aveva idee molto simili a Ciccio e Pierluigi, e che adesso lavorava per un giornale di sinistra e che ora si trovava con la figlia Junia trattenuta in Questura, per avere preso parte a sedici anni a un piccolo e innocuo corteo “di sinistra”.
In questo libro di Saverio Ferrari, documentatissimo e rigoroso, troverete dunque l’atlante storico-politico di questo fenomeno, che rappresenta una delle anomalie italiane meno studiate: si tratta della presenza contemporanea nel sistema politico e sociale e nella cronaca nera del nostro Paese di un soggetto eversivo e di una componente politica legale che hanno condizionato, molto al di là del loro peso specifico, a tratti, e con andamento alterno, la nostra storia. Nella stagione dell’oblio e del negazionismo si insiste adesso molto benevolmente sui valori anche “culturali” che i nipotini di Salò avrebbero in qualche modo coltivato E Ciccio e Pierluigi, prima ancora che arrivasse la stagione in cui piazzavano bombe nelle piazze e nelle stazioni e seminavano vittime innocenti, diffondevano manifestini con certe ambizioni culturali, marchiati con il gladio della Decima Mas e della Repubblica sociale. Erano gli ultimi figli della stagione tragica e torbida dell’ultimo fascismo, che fu intrisa di razzismo, di stragi, e di “intelligence” antipartigiana, come anche di vaghe coloriture sociali. Tra i loro testi sacri c’erano pure gli ultimi discorsi dell’ultimo segretario del Partito nazionale fascista, Alessandro Pavolini, che teorizzò e praticò – poco prima della caduta dell’ultimo avamposto mussoliniano – l’idea di fare esplodere oltre le linee attraverso sabotaggi e infiltrazioni le “uova del drago” clandestine dalle quali sarebbe risorto il vecchio regime.
Il fatto è che i clandestini fascisti passarono, quasi subito dopo la Liberazione, al servizio degli agenti del controspionaggio americano che proprio in Sicilia intrapresero anzitempo la guerra fredda. Eppure ha ottenuto qualche tempo fa entusiastiche e svagate recensioni un romanzo che proprio sotto il titolo delle “uova del drago” nazifasciste rivendica una “filosofia della coerenza e dell’onore” contro il “voltafaccia” dell’armistizio di Cassibile, nel 1943. Senza che alcuno si sia alzato a contestare l’alleanza militante del clandestinismo fascista con le forze di occupazione americane che erano state combattute, alla faccia della “coerenza” e dell’“onore”, sino a qualche giorno prima.
In verità gli eredi di Salò tra loro si rinfacciarono per decenni il marchio infamante della spia e dell’asservimento a potenze straniere. Vincenzo Vinciguerra, un irriducibile, autore della strage di Peteano (1972) – un tipo che sicuramente Ciccio Mangiameli e Pierluigi Concutelli hanno ben conosciuto – ostentatamente fascista, duro con gli ex “camerati”, considerati traditori, ha fornito diversi contributi giudiziari e memorialistici per comprendere il “significato strumentale” delle stragi nere, rivendicando, allo stesso tempo, l’“originalità” e la purezza della sua azione.
Il fascino per i tenebrosi maneggi che nell’immediato dopoguerra videro la rinascita della componente neofascista avvinse, del resto, sempre i giovani dell’estrema destra: il filosofo razzista Julius Evola, Pino Rauti, il piduista Mario Tedeschi, l’ex sottosegretario di Salò Giorgio Almirante – quattro nomi a caso – furono volta per volta i modelli più o meno mitici, più o meno contestati o reinterpretati, delle varie anime dell’estremismo giovanile della Destra. E accadde anche che nel Sessantotto ce ne trovammo un paio di loro, tra le nostre file, non si sa se convertiti, infiltrati, l’uno o l’altro, o qualcosa di frammisto e di torbido.
Poca roba, piuttosto marginale, rispetto a un’Italia che cambiava e maturava, il radicalismo di destra ha sempre occupato un’infinitesima porzione della nostra cronaca politica, per invadere invece centinaia di fascicoli giudiziari. Le pagine di questo libro dedicate al Fronte nazionale di Junio Valerio Borghese e alle protezioni del golpe intestato al “principe nero” aprono, per esempio, una finestra abbastanza inedita, e coperta finora da emblematici “omissis”. Maltrattati alla fine e messi persino “fuori legge” da quelli che fino all’altro ieri li avevano utilizzati e coltivati, gli estremisti di destra – a differenza dell’arcipelago dell’eversione di sinistra – hanno passato “in sonno” diversi anni della loro vita politica, piuttosto tenebrosa e assai minoritaria.
C’è, dunque, vogliamo dire, un filo nero che congiunge quelle vecchie pagine, quelle foto perdute, alla cronaca di quest’oggi. Un’altra volta ancora, doppiopetto ed eversione compaiono affiancati, stavolta per i maneggi su un accordo elettorale delle formazioni della destra estrema con il centrodestra in grisaglia, propiziato dal ritorno al sistema proporzionale. Il sistema dell’informazione ha graziato con altri “omissis” anche questa vicenda. Pino Rauti ha appena concluso il contratto che dovrebbe legarli per un altro tratto all’ultimo avamposto berlusconiano della corte di Arcore. Alessandra Mussolini sta trattando. Uno dei paradossi della vicenda che in queste settimane pre-elettorali si sta svolgendo sul versante della destra estrema sta nel fatto che questa trattativa veda impegnato non tanto Alleanza nazionale, cioè il partito che in qualche modo è l’erede del Movimento sociale, ma in prima persona il partito del presidente del Consiglio. Abbiamo cominciato con l’amarcord di una foto. E non è male concludere citando, invece, a proposito di questa attualità, una foto ben più recente: persino il chiacchierato e minuscolo raggruppamento fondato da Gaetano Saya, il “Nuovo Msi-Destra Nazionale”, che aveva fatto parlare di sé nell’estate 2005 per alcuni arresti in un’inchiesta condotta della magistratura genovese su una sorta di “polizia parallela”, ha avuto l’onore di un incontro ufficiale con Silvio Berlusconi. Con tanto di istantanee scattate a Palazzo Grazioli. Gli “scatti” sono visibili sul sito web del gruppo (un altro loro sito qualche tempo addietro è stato oscurato per razzismo): il premier è ritratto al fianco della moglie di Gaetano Saya, che invece è assente dall’inquadratura perché agli arresti domiciliari. C’è un gran lavorìo, pubblico e sotterraneo. E i vari gruppi di ex camerati si fanno, intanto, la guerra nei Tar per la proprietà dei “simboli” delle diverse potenziali liste di appoggio a Berlusconi. Da Salò ad Arcore si rincorrono per uno strapuntino nella nuova “crociata anticomunista”, da combattere stavolta a suon di schede e di vergognosi e spregiudicati accordi elettorali.
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