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Se nessun ergastolo restituirà a familiari e amici il sorriso di Renato Biagetti, i quindici anni in Primo grado con cui il Tribunale di Civitavecchia ha recentemente condannato Vittorio Emiliani per le coltellate omicide d’un anno fa rischiano in Appello di trasformarsi in un lustro o poco più. Tanto vale una vita per la nostra giustizia ed è proprio l’abitudine al disprezzo della vita, soprattutto altrui, uno degli sconcertanti comportamenti di quella che chiamiamo società civile. E’ su questa base che uno come Emiliani pensa che una coltellata sia l’equivalente d’un pugno? E per sentirsi più duro e vendicatore di fendenti ne scaglia otto, non fermandosi neppure di fronte al tanto sangue, come ha dichiarato chi lo ha visto e l’ha avuto sparso sul corpo. Non sappiamo se nei valori familiari (Emiliani padre è pur sempre un Carabiniere), fra gli amici e il gruppo di quartiere circolano penose nostalgie del Ventennio. Ma l’assassino aveva tatuata sulla pelle una croce celtica.
Ci si marchia quel simbolo per caso, solo perché il tattoo va di moda? La moda c’è. Peraltro tristemente omologante, fa tutti uguali come vestire, parlare, atteggiarsi a pseudodivi tivù. Ma tatuarsi quel simbolo vuol dire: o aderire a un’ideologia o avere una testa vuota senza idee dove tutto si somiglia e i valori sono relativi. E’ questa una tendenza del vivere odierno con una superficializzazione del significato dei simboli che tanto s’ostentano. Si può girare – lo fanno in parecchi – con maglie marcate di acronimi: Cia, Cccp, Kgb di cui non si sa né si chiede il significato. Ma nel caso dell’omicidio di Focene crediamo ad altro. Forse quella croce celtica sulla pelle più che sottovalutazione è sdoganamento. Come le bandiere della curva: l’aquila della Lazio e l’aquila nazista, la lupa della Roma e la svastica. L’ultimo quindicennio della politica nazionale ha attuato questo disegno: normalizzare quel mesto passato della storia italica chiamato fascismo. Un disegno voluto e praticato mica solo da Berlusconi e Fini. I Ds nella corsa smodata a una normalità “democratica” hanno cercato di riaccreditare il fascismo diventato post.
Ecco Violante cercare le ragioni dei “ragazzi di Salò” e D’Alema discettare sull’opportunità dell’esecuzione del Duce. Certi paletti che i padri costituenti avevano posto alla revanche nostalgica, per quanto aggirati per decenni dal neofascismo missino seduto in parlamento, rappresentano per tanta politica un peso da eliminare. Così prima di cancellare la XII disposizione finale della Costituzione – e riscrivere la Costituzione stessa come in tanti sognano di fare a destra e a sinistra – si rendono inefficaci leggi esistenti trasformando costumi e orientamenti comuni. Quale giudice potrà richiamarsi alla norma citata e sanzionare l’apologia di fascismo se sempre più il fascismo, coi feticci (i calendari mussoliniani venduti in edicola, le suonerie telefoniche dove trilla “Faccetta nera”) e i comportamenti squadristi, entra nel quotidiano? Come vengono accettati con indifferenza i cori, gli stendardi, i saluti alla Di Canio negli stadi cominciano a esserlo anche le aggressioni punitive e assassine modello villa Ada e Focene.
C’è un substrato “culturale” che normalizza il fascismo strisciante. Accanto alla pubblicistica faziosa che si fa spazio in molta editoria, lo offrono da anni tivù e radio pubbliche. La cameratizzazione della Rai coi fedelissimi finiani trasferiti da “Il Secolo” alla gestione dell’informazione nazionale produce non solo l’effetto lottizzatorio d’impianto demo-socialista e poi anche piccista, ma aggiunge un valore di propaganda
che non a caso è stato definito da Minculpop. Con l’arietta ingenua del “si stava meglio quando si stava peggio” pseudogiornalisti del Tg2 “approfondiscono” la bontà delle battaglie del grano e di quelle d’Etiopia (tacendo naturalmente i gas e gli stermini di massa), gli eroismi dei Balbo e dei Graziani, trovando sostegno nel Cda aziendale che ha dato spazio agli eversivi “per bene” alla Veneziani. Fra una riscoperta di Evola, riletture marinettiane sulla guerra igiene del mondo, la tivù di Stato fa il verso al revisionismo dello storicismo editorialistico impegnato a spiegare quanto bene Mussolini fece alla nazione e quanto falsa fosse la Resistenza. E col Duce nel cuore e sulle braccia si va in giro a inneggiarlo.
C’entra questo con le coltellate a Renato? Secondo me c’entra perché nel migliore dei casi gente come Emiliani (e Amoroso) non sanno chi esaltano, nel peggiore lo sanno e lo propongono con una violenza nient’affatto diversa dal lugubre squadrismo che in più periodi ha insanguinato le strade d’Italia.
Enrico Campofreda, 15 agosto 2007
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