Nel campo venivano rinchiuse le donne ritenute “deviate”. Una giornalista inglese finalmente racconta cosa successe
Quella di Weimar fu un’era tanto caotica quanto libertaria, e l’omosessualità si diffuse, o, meglio, fu ampiamente tollerata, caduti i paletti del periodo imperiale. I nazisti lessero una decadenza morale, laddove vi era instabilità politica e crisi economica. Così, quando presero il potere, l’epoca dei costumi liberi finì in archivio. E anche se l’omosessualità maschile fu punita più duramente rispetto a quella femminile, le lesbiche dovettero mascherare i loro comportamenti per evitare guai. Ad alcune di loro andò peggio: finirono in un campo di concentramento, Ravensbrück, costruito nel 1939 a cinquanta miglia a Nord-Est di Berlino.
Ravensbrück non è Auschwitz, ne’ Dachau o Bergen-Belsen. Non ci sono le immagini dell’Armata Rossa o i video dell’esercito britannico a consegnare alla storia i fotogrammi dell’orrore. Si tratta di una vicenda, se non dimenticata, quantomeno poco studiata. Fino alla monumentale e scrupolosa opera di Sarah Helm, una giornalista inglese, autrice di una lunga ricerca, fatta di lavoro d’archivio e interviste con le sopravvissute, oggi ottantenni, culminata in un libro uscito di recente: Ravensbrück: Life and Death in Hitler’s Concentration Camp for Women.
Come si evince dal titolo del volume, nel lager voluto dall’architetto dell’Olocausto, Heinrich Himmler, c’erano solo donne. Ne entrarono più di 130.000, da venti Paesi diversi, fino alla fine della guerra. Le prime 867 arrivarono il 15 maggio del 1939. Solo una parte di loro - secondo alcuni dati, circa il venti per cento - era ebrea. Le altre erano colpevoli di comportamenti “devianti”: lesbiche, prostitute, socialiste, comuniste, abortiste, rom, testimoni di Geova. Persone considerate inutili per la sopravvivenza e la gloria del Reich.
Solo il 20% erano ebree, le altre erano colpevoli di comportamenti “devianti”: lesbiche, socialiste, prostitute, abortiste, rom, testimoni di Geova
Quante donne morirono a Ravensbrück? Le cifre sono molto flessibili, ma furono almeno 30.000 ad uscire cadaveri dal campo, per la fame, le malattie, il lavoro insostenibile, le torture, le uccisioni (per impiccagione e fucilazione, oppure nelle camere a gas). Alcune stime parlano addirittura di 90.000 vittime. La Helm ha scoperto che non solo alcune donne arrivarono a Ravensbrück col marchio del lesbismo, ma che l’omosessualità femminile era piuttosto diffusa, anche se non apertamente dichiarata. Persino alcune guardie - le kapò, spesso prigioniere politiche, scelte per le loro doti organizzative - erano lesbiche, e ricoprire quel ruolo significava entrare potenzialmente in contatto con un numero maggiore di donne.
Alcune prigioniere portavano un cognome celebre: Geneviève de Gaulle, ad esempio, nipote del generale francese. Oppure Gemma La Guardia Gluck, sorella dell’allora sindaco di New York, Fiorello. Olga Benario Prestes, ebrea, comunista, morta nelle camere a gas, fu un’icona antifascista, nell’ex Ddr. Ma il libro e’ fatto soprattutto di microstorie, perché l’autrice è riuscita a rintracciare donne apparentemente anonime, come Sylvia Salvesen, norvegese, che arrivò a Ravensbrück nel 1943. Oppure a ricostruire la vicenda di Elsa Krug, una prostituta di Düsseldorf, che, in quanto kapò, aveva accesso ai magazzini alimentari, dai quali sottraeva cibo per le prigioniere. Disobbedì agli ordini, Elsa, rifiutandosi di picchiare le altre donne, e il suo destino prese la forma di una camera a gas.
Ravensbrück, come altri campi, fu teatro degli esperimenti genetici nazisti. La Helm racconta le storie delle coraggiose polacche, “i conigli”, che furono mutilate dalle sperimentazioni mediche del Reich. Donne nelle cui gambe venivano iniettate dei batteri, per testare l’efficacia di determinati farmaci. La Croce Rossa, a cui fu concesso nel 1943 di entrare nel lager, sapeva, ma non si riuscì a fermare l’orrore. Ravensbrück, d’altronde, non è diverso da altri luoghi assimilati all’inferno: i bambini nati nel campo, affamati fino alla morte. Le donne deboli presto eliminate, quelle più abili sfruttate nelle fabbriche fino all’esaurimento fisico.
Il libro della Helm, però, non è solo un catalogo di atrocità, perché riaffiora, dalle viscere, l’istinto di sopravvivenza, la tenacia, la resistenza all’irresistibile, il coraggio. Ci sono atti di eroismo e gesti di amicizia - e, per contraltare, lotte spietate per diventare kapò, o, meglio, “blockova”, così venivano chiamate le guardie - fughe tentate e fughe riuscite.
Le storie dei responsabili di Ravensbrück sono meno conosciute rispetto a quelle di altri carnefici, anche se due medici, Hertha Oberheuser e Karl Gebhardt, furono condannati a Norimberga. E i numeri sono lontani da quelli di Auschwitz, dove in sole sei settimane, nell’estate del 1944, morirono 400.000 ebrei ungheresi, o di Treblinka, dove in poco più di un anno, dal luglio del ’42 al novembre ’43, fu ucciso quasi un milione di persone.
Eppure nell’arcipelago dei lager resta un caso unico, perché quella diversità di cui si voleva la soppressione fisica, una diversità oggi accettata come sinonimo di ricchezza - domenica, ad esempio, si celebra la giornata internazionale contro l’omofobia - è il simbolo dell’eterogeneità dei “nemici” del nazismo: razza, idee politiche, credenze religiose, comportamenti sociali. Un fronte composto, a Ravensbrück, da sole donne, che Heinrich Himmler, quando cercò una pace separata con gli alleati, propose addirittura come merce di scambio.
http://www.linkiesta.it/campo-concentramento-donne
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