pubblicato il 8.02.20
Latina, le collusioni mafiose di Lega e Fratelli d'Italia ·
Nella città laziale, feudo storico della destra, i clan hanno messo le mani sulla politica. Facendo eleggere chi volevano, gestendo voti, garantendo affissioni intoccabili, muovendo galoppini. Ecco tutti i nomi
28 gennaio 2020
Brigata Littoria
Il fantasma dei Di Silvio
Il suicidio dell'avvocato
Batteria elettorale
Giorgia Meloni non ne aveva dubbi. Scandiva le parole: «A Latina possiamo contare obiettivamente su quella che è forse una delle migliori classi dirigenti di Fratelli d’Italia». Era il 2014, elezioni europee. Il cavallo di razza che appariva accoppiato con il suo nome sui manifesti elettorali era Pasquale Maietta. Un vero mito a sud di Roma. Commercialista di successo, da sempre il primo degli eletti a destra, patron del Latina, squadra che sfiorò, all’epoca, la serie A. Calcio, affari e politica. Giorgia Meloni guardava Maietta compiaciuta, scambiando sorrisi: «Lo dico da un anno, perché non ti prendi anche la Roma?». Dal 2013 era diventato un politico di primo piano a livello nazionale. Giorgia si fidava talmente tanto da affidargli il portafogli, nominandolo tesoriere del partito alla Camera dei deputati. Era l’ascesa, apparentemente inarrestabile, dell’enfant prodige della destra.
Poi venne uno tsunami. Giudiziario, sconvolgente. Di quella classe dirigente che poco prima la leader di Fratelli d’Italia portava come esempio è rimasto poco. Maietta, terminato il mandato, è finito agli arresti, con l’accusa di essere il “perfetto stratega” di un complesso sistema di riciclaggio che partiva da Latina per arrivare a Lugano. Non in una fiduciaria svizzera qualsiasi, ma nello studio SMC Trust, il “family office” presieduto da Max Spiess, subentrato nella carica al più noto Giangiorgio Spiess, l’avvocato tutore degli interessi di Licio Gelli nel Canton Ticino. Il vero salotto che conta nel mondo finanziario internazionale, da sempre Gotha impenetrabile. Soldi, tantissimi soldi, un tesoro che passava attraverso il Latina calcio, controllato da patron Maietta, utilizzato - secondo la procura - come una enorme lavatrice di denaro “di dubbia provenienza”. L’alleanza tra l’ex tesoriere di Fratelli d’Italia e il trust svizzero, che durava, secondo le indagini, dal 2007, era consolidata e ben oliata.
Quello che per gli investigatori era “un gruppo organizzato di soggetti che forniscono in modo stabile e professionale consulenza e servizi per il riciclaggio di fondi di provenienza illecita” aveva un terminale molto lontano dai salotti ovattati di Lugano. Le radici del potere del “sistema Latina” affondano sulla riva di uno dei tanti canali della bonifica, a Campo Boario. Case basse, leoni lucidi di ceramica, il kitsch e i cavalli da corsa lasciati a pascolare nei campi sportivi comunali. È il mondo di sotto, il regno dei Di Silvio-Ciarelli. Clan Sinti, parenti diretti dei più noti Casamonica, arrivati in terra pontina nel dopoguerra, negli anni '90 hanno preso il controllo del narcotraffico sottraendo il territorio di Latina ai casalesi e imponendo alla città il loro modo di comandare. Taglieggiando, occupando pezzi di quartieri, sparando e uccidendo, quando serviva. «Se pijamo Littoria», dicevano in alcune intercettazioni del 2010. Hanno fatto di più - stanno raccontando oggi alcuni collaboratori di giustizia - prendendosi soprattutto la politica. Gestendo voti, garantendo affissioni intoccabili, muovendo galoppini. Diventando la batteria elettorale dei nostalgici del Boia chi molla.
Brigata Littoria
Latina vuol dire destra, da sempre. Basta mettere in fila i nomi dei gruppi degli ultras della squadra di calcio: “Falange”, “Brigata Littoria”, “Commando”. Per anni governata da un sindaco con un passato nei “Ragazzi di Salò”, Ajmone Finestra, venne definita da Gianfranco Fini “il laboratorio politico” nazionale. Latina era un simbolo con il parco comunale intestato ad Arnaldo Mussolini, fratello di Benito, e l’edificio nel cuore della città chiamato “M”, per la sua forma, omaggio al duce in epoca fascista.
Oggi Latina vuol dire Lega. Il travaso degli ex missini, di quella classe politica cresciuta attorno al mito di Littoria e di “quando c’era lui”, è stato massiccio. Il crollo - giudiziario, politico - dell’enfant prodige di Fratelli d’Italia è stato il vero motore dell’assalto alla diligenza di Matteo Salvini. Certo, contava il marchio, in quello che in questa terra appare oggi più come una sorta di franchising politico che una vera e propria struttura di partito. Il dato certo è che i quadri di Matteo Salvini hanno quasi tutti un passato nero, in alcuni casi nerissimo. Orlando Tripodi, fino al 2016 in Forza nuova, è diventato il capogruppo leghista in Consiglio regionale, dopo aver perso sonoramente le elezioni comunali con una lista civica. L’ex An Matteo Adinolfi in quello stesso anno è passato alla Lega, guadagnando un posto in consiglio comunale, per poi essere eletto deputato europeo nelle ultime elezioni del 2019. Proviene dalla destra - il sindacato UGL - anche Claudio Durigon, deputato della Lega e responsabile del dipartimento lavoro del partito. Ma è il sentiment quello che conta nella città, nella antica Littoria.
La base della destra a Latina ha radici profonde nella squadra di calcio. E nei clan di Campo Boario. È questa la terra di mezzo dove - secondo le indagini - si incontrano politica, tifoserie e manovalanza criminale. Gruppi ultras duri, ascoltati, nel 2014, mentre nella loro sede preparavano spranghe di ferro da portare in trasferta. Pronti, quando serviva, a spostare voti. Il Latina fino al 2017 è stato il regno assoluto di Pasquale Maietta. E del suo amico di sempre, Costantino “Cha cha” Di Silvio, uno dei primi esponenti dei clan a finire agli arresti. Aveva un ruolo di primo piano, sempre presente nelle trasferte, pronto ad accompagnare le autorità nella tribuna Vip. In città lo conoscevano come l’amico fedele dell’ex tesoriere di Fratelli d’Italia, che lo accompagnava spesso nello struscio tra i negozi del centro.
Il fantasma dei Di Silvio
Negli ultimi mesi nel feudo della destra laziale, per sentire parlare di politica, conviene affacciarsi nell’aula del Tribunale, ascoltando le testimonianze nel processo chiamato “Alba pontina”, istruito dalla Dda di Roma. L’accusa per i membri del clan è pesante, associazione mafiosa. Alcuni imputati sono già stati condannati con rito abbreviato nei mesi scorsi e oggi il dibattimento principale sta diventando una sorta di schermo gigante dove scorre la storia della città. Una presenza asfissiante, fatta di piccole e grandi estorsioni: «Non era necessario usare le armi - ha raccontato un collaboratore - non c'era bisogno perché ormai la gente sapeva che ti sparavano». Bastava il nome per abbassare la testa.
Quando, nel 2015, scattò la prima operazione contro il clan Sinti, accadde qualcosa di mai visto. Un senso di liberazione sembrò attraversare al città. La sera degli arresti - che colpirono anche l’amico fidato di Maietta, “Cha cha” Di Silvio, oggi in carcere - una folla andò in corteo verso la Questura. Dal portone si affacciarono gli agenti della squadra mobile e i due poliziotti che avevano cambiato le sorti della città, il questore Giuseppe De Matteis (oggi a Torino) e chi aveva condotto le indagini, Tommaso Niglio. Vennero simbolicamente abbracciati, quel sistema di potere stava iniziando a sgretolarsi. L’ascesa dei Di Silvio - e la loro potenza - nasceva da una alleanza, profonda, che durava da anni. Visibile a tutti, ma coperta dal silenzio. Dopo aver preso in mano il narcotraffico nel capoluogo, il clan aveva la necessità di entrare in qualche maniera nell’economia visibile. Non avevano, tra i loro uomini, chi era in grado di far girare il denaro, di ripulirlo, di farlo tornare visibile. L’alleanza con la classe imprenditoriale e con alcuni commercialisti li rese forti, in grado di penetrare i salotti buoni della città.
Il suicidio dell’avvocato
Mancavano due giorni al Natale del 2015 quando l’avvocato di Latina Paolo Censi, già presidente della Camera penale, si toglie la vita nel suo studio. La squadra mobile tra le sue carte trova la traccia che porterà ad una svolta nelle indagini sul Latina calcio e su Pasquale Maietta: «Dei fogli di un Block notes strappati, gettati al secchio e sui quali erano riportate diverse parole che, collegate tra loro, evidenziavano l'esistenza di uno scenario inequivocabile», scrivono i magistrati nell’ordinanza di custodia cautelare che, nel 2018, porterà in carcere l’ex tesoriere di Fratelli d’Italia. In particolare due erano i riferimenti che colpirono gli investigatori: “Svizzera” e “Riciclaggio”.
Due anni dopo uno degli uomini di fiducia del clan Sinti di Latina, Renato Pugliese, figlio illegittimo di “Cha cha” Di Silvio, inizia a collaborare. Ricostruisce il potere di quel mondo dove convivevano pezzi di politica, commercialisti scaltri e manovalanza criminale. Ricorda anche quel suicidio del 23 dicembre 2015, dando elementi importantissimi: «Riccardo Agostino (altro membro del clan, anche lui oggi collaboratore di giustizia, ndr) mi diceva che dietro la morte di Censi ci fosse una questione di soldi in Svizzera, circa 50-60 milioni di Maietta». Le successive indagini, con rogatoria in Canton Ticino, sono riuscite a ricostruire il percorso solo di una parte di quel tesoro.
I primi racconti di Pugliese escono sui giornali il 26 aprile dello scorso anno. Tre giorni dopo, nella notte tra il 29 e il 30 aprile sulle chat WhatsApp frequentate anche da ultras del Latina calcio appare un video. È Cha cha Di Silvio, il padre del collaboratore, che gira nudo su un risciò a Milano Marittima, gridando «Come la va onorevole?», riferendosi, evidentemente, a Pasquale Maietta. Il video era stato girato cinque anni prima, secondo le ricostruzioni dei giornali locali, durante una trasferta del Latina. Un messaggio ben chiaro, il segno che il “sistema Latina” si è solo immerso.
La batteria elettorale
Le indagini non si sono fermate alla pista Svizzera. La collaborazione di Pugliese apre scenari inediti. Che arrivano fino al mondo politico di oggi, sfiorando i dirigenti passati dalla destra dura alla Lega di Matteo Salvini.
L’attuale sindaco della città, Damiano Coletta, cardiologo, eletto con una lista civica quando la destra crollò dopo le prime indagini, non ha nessun dubbio. Esiste un “sistema Latina”: «Abbiamo dovuto ricostruire l’intera macchina amministrativa, ricreare le procedure, non è stato facile». Ha provato, da primo cittadino, a chiedere aiuto a Salvini ministro dell’Interno il 29 settembre del 2018. Il leader della Lega stava per arrivare in città, per un comizio in un terra dove il consenso cresceva. Coletta ha chiesto un incontro, formalmente, per consegnare una nota dove raccontava come per il capoluogo pontino non si poteva più parlare solo di infiltrazione della mafia, ma di gruppi autoctoni, «non senza la compiacenza o almeno la colpevole disattenzione della classe politica».
Tutto era pronto, ma due ore prima dalla Prefettura cancellano l’incontro. Salvini arriva in città, ignorando quella richiesta di aiuto, e sul palco fa salire un volto che Damiano Coletta conosceva bene, Orlando Tripodi, oggi capogruppo della Lega in consiglio regionale. Era uno dei suoi avversari nel 2016, esponente dell’estrema destra prima di entrare nel partito di Salvini. Ed è uno dei tanti nomi entrati nel racconto del figlio di “Cha cha”, Renato Pugliese: «La campagna elettorale per Tripodi l’ha fatta Giancarlo Alessandrini con Sabatino Morelli e qualcuno che frequentava la curva», ha raccontato ai magistrati.
Quel gruppo era una sorta di batteria elettorale composta da ultras ed esponenti delle famiglie Sinti, i Morelli. I clan, nel 2016, si erano divisi i candidati della destra come si fa con una piazza di spaccio, racconta Pugliese: «Noi abbiamo fatto la campagna per Noi con Salvini (…) allora avevamo l'incarico dell’attacchinaggio». Il figlio di “Cha cha” operava nella politica insieme a un altro esponente dei clan, Agostino Riccardo, che ha iniziato a collaborare poco dopo. E in aula Riccardo ha aggiunto altri particolari, altri nomi del mondo politico della destra. Partendo dall’elezione di Maietta nel 2013. L’ex tesoriere di FdI alla Camera risultò il primo dei non eletti ed entrò solo per la rinuncia di Fabio Rampelli, presente anche in altri collegi.
Una scelta politica, ha sostenuto il vicepresidente della Camera. Un’imposizione dei clan, ha raccontato Agostino Riccardo: «L’onorevole Rampelli fu minacciato per dimettersi». Il racconto del collaboratore attraversa gli ultimi anni della politica pontina, segnata da una sorta di passaggio del testimone. Prima l’appoggio a Maietta e Fratelli d’Italia, poi l’azione dei Di Silvio si sarebbe spostata sulla Lega: «In queste (elezioni) più recenti avevamo un candidato particolare, Adinolfi, il commercialista. Lo incontrammo nella sede di Noi con Salvini», ha dichiarato in aula il 7 gennaio scorso, citando per la prima volta l’eurodeputato della Lega. E potrebbe essere solo l’inizio di nuove inchieste. Tanti omissis coprono, ancora oggi, molti verbali.
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