pubblicato il 4.11.21
Le bustarelle di Piacentini ·
Milano "Adesso capisco il perché di tutto questo marmo!", ride Gerardo D' Ambrosio. Poi, più serio: "Io non ho mai creduto che la corruzione fosse privilegio delle democrazie. La differenza è che nei regimi totalitari non c' è una magistratura che certe cose, prima o poi, le scopre...". Da un paio di minuti il capo del pool Mani Pulite ha scoperto di essere circondato, fisicamente, letteralmente, da corpi di reato: dai corpi di reato di un caso gigantesco di corruzione ormai prescritto da tempo. Quello messo a segno da Marcello Piacentini, il più grande architetto del Ventennio fascista, Accademico d' Italia, preside della facoltà di Architettura romana, con la costruzione, tra il 1932 e il 1941, del Palazzo di giustizia di Milano. Un capolavoro dello stile littorio costruito con migliaia di tonnellate di marmo. E su quei marmi - quelli che oggi sono la stanza di D' Ambrosio, o del procuratore generale Borrelli - l' accademico Piacentini poneva, implacabile, la sua richiesta di pizzo: dieci per cento. Il doppio di quello che avrebbero preteso i suoi successori in epoca repubblicana. Lo straordinario racconto delle tangenti di Piacentini è contenuto nel libro di un ricercatore friulano, Paolo Nicoloso (Gli architetti di Mussolini, Franco Angeli), denso di sorprese. Tra le quali spicca inevitabilmente il fascicolo intestato a Piacentini dalla polizia politica fascista e scovato da Nicoloso all' Archivio di Stato. Un fascicolo denso di informative sulle lamentele che dagli industriali del marmo di mezza Italia venivano contro "l' oneroso benestare di Piacentini". Dell' abitudine dell' architetto (e direttore dei lavori) di pretendere il 10 per cento del valore delle forniture il regime era, dunque, perfettamente a conoscenza, come anche degli interessi diretti di Piacentini in una delle cave di marmo, insieme al deputato fascista Alberto Redenti. "Il Redenti si è immunizzato", scriveva però la polizia in un rapporto dell' ottobre 1936, "prendendo in studio, malgrado la diminuzione del lavoro, il figlio di un altissimo gerarca e così è tabù". "La voce sulla corruzione di Piacentini", racconta Nicoloso, "circolava da tempo nell' ambiente, così mi è venuta l' idea di andare a controllare se all' Archivio di Stato esistesse un fascicolo a lui intestato. Sono venute a galla la vicenda del Palazzo di giustizia di Milano e quelle relative ad altre due realizzazioni piacentiniane: l' Eur, a Roma, e il palazzo di piazza Missori, a Milano, destinato a sede della Società nazionale delle assicurazioni sociali. Anche in questi casi, la polizia ricevette numerose segnalazioni sulle pretese dell' Accademico, e anche in questi casi non accadde nulla". Perché? La risposta secondo Nicoloso non sta semplicisticamente nel "fascismo" di Piacentini ("che era già un archietto importante ai tempi della Marcia su Roma e si iscrisse al Pnf relativamente tardi, nel 1932") ma in rapporti ben più profondi tra il mondo accademico e i "poteri forti" prima, durante e dopo il fascismo. In particolare il ricercatore friulano ricostruisce i rapporti tra Piacentini e il Grande oriente d' Italia e il suo gran maestro Ettore Ferrari, di cui Piacentini è un protetto e nel cui studio, all' Istituto di Belle Arti, nasce la Scuola di architettura romana, che avrà un ruolo decisivo nella politica urbanistica del Ventennio. Ed è Ettore Ferrari, quando viene esaminata la candidatura del discepolo ad Accademico d' Italia, a sponsorizzare "il mastro muratore Piacentini". Delle spregiudicatezze degli architetti del regime, racconta Nicoloso, la polizia politica si occupò nei dettagli, e sono spregiudicatezze di fronte alle quali alcuni protagonisti di Tangentopoli impallidirebbero: a partire dalla singolare prassi che vedeva Piacentini membro pressocché permanente delle commissioni aggiudicatrici dei lavori, che poi spesso e volentieri finivano allo stesso Piacentini o ai suoi collaboratori e allievi (anche l' appalto per il Palazzaccio milanese, tra gli altri, viene assegnato a Piacentini da una commissione in cui egli stesso siede). Prassi condivisa da un altro grande dell' architettura di quegli anni, Alberto Calzabini, anche lui titolare di un dettagliato dossier della polizia politica. "Ma quello che mi ha più appassionato", dice Nicoloso, "è la sostanziale continuità dei rapporti tra questi architetti e il potere prima e dopo la guerra. Basti pensare che Calzabini, che nel Ventennio aveva ottenuto la cattedra a Napoli "per chiara fama", cioé senza concorso, ed era segretario del Sindacato nazionale architetti, tornerà preside nel dopoguerra. Piacentini, che aveva seguito lo stesso percorso, riuscirà invece a non venire rimosso dopo avere chiesto l' intervento di Giulio Andreotti".
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