pubblicato il 23.12.21
23 dicembre 1984 La strage del Rapido 904 ·
Il contesto
Il 1984 era stato un anno piuttosto "caldo" per la politica e la società italiana. L'anno era iniziato col "decreto di San Valentino" varato dal governo Craxi, relativo al taglio dei punti di contingenza e volto a colpire il meccanismo della "scala mobile". Ne era derivato un duro scontro tra il governo, sostenuto dalla Cisl di Carniti, da un lato, e il Pci di Berlinguer con la Cgil di Lama e i Consigli dei lavoratori autoconvocati, dall'altro. Lo scontro, che metteva in discussione un compromesso sociale di vecchia data, aveva avuto una prima ricaduta nella manifestazione del 24 marzo contro il decreto e un serrato confronto sociale e parlamentare che sfocerà infine in una proposta di referendum abrogativo.
Alle elezioni europee di giugno, svoltesi all'indomani della morte di Berlinguer dopo il comizio di Padova, il Pci era diventato il primo partito del Paese.
Il sistema politico, tuttavia, rimaneva bloccato. Il mese seguente, le conclusioni della relazione Anselmi, al termine dei lavori della Commissione d'inchiesta sulla loggia P2, avevano provocato le dimissioni del ministro socialdemocratico Pietro Longo.
Nelle settimane seguenti, mentre il giudice Casson indagava su quella che sarebbe stata nota come "Gladio" e rinviava a giudizio il colonnello Amos Spiazzi, la magistratura fiorentina approfondiva i rapporti tra neofascisti e servizi segreti in relazione agli attentati ai treni compiuti in Toscana negli anni precedenti [1]. Intanto Michele Sindona era estradato in Italia e venivano arrestati il boss della banda della Magliana Enrico Nicoletti e vari esponenti della camorra.
Ma erano soprattutto le rivelazioni di Tommaso Buscetta – personaggio di primo piano di "Cosa nostra", anch'egli estradato in Italia – a mettere in discussione una serie di equilibri dei quali lo strapotere della mafia era stato parte significativa. Ne derivarono, il 29 settembre, ben 366 mandati di cattura per reati di mafia, cui seguirono altri 127 arresti provocati dalle dichiarazioni del pentito Salvatore Contorno.
"Cosa nostra" reagiva prontamente, il 18 ottobre, con la strage di piazza Scaffa a Palermo.
Intanto, negli stessi giorni, il gen. Musumeci, ex vicedirettore del Sismi, e altri cinque dirigenti dei servizi segreti venivano arrestati con l'accusa di avere depistato le indagini sulla strage di Bologna e di aver favorito la fuga del faccendiere Francesco Pazienza, coinvolto tra l'altro nelle inchiesta sul caso Calvi e sulla Loggia P2. Il 3 novembre a essere arrestato per rapporti con la mafia era invece l'ex sindaco di Palermo, il democristiano Vito Ciancimino [2].
Poche settimane prima, infine, era stato ucciso Tony Chichiarelli, il "falsario di Stato" autore dei falsi comunicati Br durante il sequestro Moro. A marzo era stato protagonista della rapina alla Brink's Securmark, una finanziaria di cui era socio anche Sindona, assieme ad esponenti della Banda della Magliana; prelevati 35 miliardi di lire, i rapinatori avevano lasciato alcuni proiettili e una finta risoluzione delle Brigate Rosse, inviando poi a un quotidiano altri "reperti" riconducibili ai casi Moro e Pecorelli [3].
Pressata da inchieste e arresti, iniziava dunque a venire alla luce quella che l'ex presidente della Commissione Stragi Giovanni Pellegrino definirà "la 'zona grigia' fatta da elementi della P2, dei servizi, da un mondo oscuro degli affari, da criminalità organizzata, siciliana e romana, da personaggi della destra eversiva" [4].
Equilibri consolidati, fondati su patti indicibili, rischiavano di saltare. È in questo contesto, oltre che nel quadro di una situazione sociale e politica molto mossa, che matura la "strage di Natale".
La strage
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È il 23 dicembre 1984, due giorni prima del Natale.
Molti sono i meridionali che hanno parenti al Nord e partono da Napoli per trascorrere le festività con loro; qualcuno, invece, come due giovani fidanzati di Parma, Susanna Cavalli e Pier Francesco Leoni, è salito sul treno a Roma, diretto verso casa [5].
Il treno è il rapido 904, partito da Napoli alle 12.55. Alle 19.08, quando ha lasciato da mezz'ora la stazione di Firenze, una terribile esplosione, partita dal vagone 9 di seconda classe, lo squarcia e ne arresta la corsa. L'effetto è ancora più devastante poiché lo scoppio avviene nella Grande Galleria dell'Appennino, tra le stazioni di Vernio e S. Benedetto Val di Sambro, la stessa zona dove dieci anni prima era avvenuta la strage dell'Italicus. Se il treno che viaggiava in senso contrario fosse entrato anch'esso nella galleria, le conseguenze sarebbero state ancora peggiori, ma un piccolo ritardo e l'intervento di macchinista e ferrovieri evitano un disastro più grave.
Lo squarcio nel treno provocato dall'esplosione è comunque impressionante.
L'intero vagone 9 è completamente devastato.
I morti sono quindici, fra i quali tre bambini e un'intera famiglia, i De Simone; 267 i feriti, di cui alcuni in modo grave.
Un sedicesimo viaggiatore, Gioacchino Taglialatela, padre di una delle vittime, la piccola Federica, perderà la vita di lì a poco a causa delle ferite riportate. Nelle loro testimonianze i superstiti ricordano il boato, il buio pesto, il fumo denso, e un silenzio irreale, ovattato, provocato dal trauma ai timpani, cui seguono il caos, le urla disperate, l'orrore dei corpi straziati [6].
La testimonianza di Enza Napoletano
Antonio Calabrò, che sarà presidente dell'Associazione dei familiari delle vittime, ricorda "le macerie addosso, la bocca piena di sangue, il senso di oppressione al petto"; Lucia Gallo, "la cascata di vetri [che] come proiettili arrivavano da tutte le parti" [7]. "Non avevo più la percezione del corpo – dichiarerà Antonio Celardo, anch'egli poi presidente dell'Associazione – soprattutto non mi sentivo gli arti […]. Poi mi feci coraggio e cominciai a toccarmi. Nonostante una gamba fracassata mi resi conto di essere intero e ancora vivo" [8].
I soccorsi sono immediati ed efficienti. Tuttavia occorre più di un'ora e mezza perché possano raggiungere il luogo dell'esplosione. Il denso fumo all'interno della Galleria dell'Appennino è il maggiore ostacolo che si trovano di fronte i ferrovieri che per primi giungono sul posto.
Molto vivide, a distanza di anni, le testimonianze di alcuni di loro, come il toscano Andrea Marzoppi o Luciano Rescazzi, responsabile della protezione civile presso l'Unione dei comuni.
Testimonianza dei Vigili del Fuoco volontari di Castiglione dei Pepoli
Ricorda un altro soccorritore, Paolo Vandelli, di origine campana ma allora residente nel Bolognese: "Tutto in quella galleria era un muro di fumo e polvere", raggiungere il convoglio non fu facile, mentre i superstiti abbandonavano il treno come potevano [9].
Quello che i soccorritori si trovano di fronte è impressionante. Nella loro memoria, e nella memoria collettiva, rimarrà una bambola, giocattolo di una delle bambine presenti sul treno, anch'essa coperta da bagagli e detriti.
Il sindaco di Bologna Renzo Imbeni ricorda le vittime della strage in presenza delle più alte autorità politiche e istituzionali (Ferrari)
Il sindaco di Bologna Renzo Imbeni ricorda le vittime della strage in presenza delle più alte autorità politiche e istituzionali (Ferrari)
Lo scoppio è stato causato da una carica di esplosivo radiocomandata, posta su una griglia portabagagli, presumibilmente durante la sosta a Firenze. Una viaggiatrice sopravvissuta, Rosaria Gallinaro, parlerà agli inquirenti di un uomo, salito a Santa Maria Novella, intento a sistemare due borsoni sulla griglia portapacchi del corridoio anziché negli scompartimenti, dove pure vi era spazio [10].
Una testimonianza raccolta da Giuliana Covella, quella di Lidia Carreras, ascoltata dagli inquirenti solo a partire dal 2013, riferirà di "un uomo alto, con una ventiquattrore, che andava avanti e indietro alla stazione di Napoli prima che il treno partisse", osservando "con circospezione i finestrini e gli scompartimenti" [11].
Ai funerali delle vittime, che si tengono a Bologna con il discorso del sindaco Renzo Imbeni e la presenza del Presidente della Repubblica Pertini e della Presidente della Camera Nilde Iotti, partecipa una folla enorme.
Le prime reazioni
La strage rievoca nella coscienza collettiva del Paese le pagine più atroci della strategia della tensione.
Le prime notizie giungono come un fulmine a ciel sereno nel clima prenatalizio.
Subito la stampa rileva la coincidenza del luogo della strage con quella dell'Italicus di dieci anni prima.
Per "l'Unità" è un ennesimo "agguato alla democrazia".
"La Repubblica" si domanda "chi protegge gli assassini" e ricollega la strage alle inchieste su strategia della tensione e depistaggi che nei mesi precedenti hanno coinvolto alti esponenti del servizi segreti e lo stesso Licio Gelli.
Intanto giungono varie rivendicazioni. Tra queste, una telefonata all'Ansa "di un uomo con accento siciliano, secondo la quale la strage non doveva essere considerata 'una trama politica' ma un fatto di mafia", e "la bomba non era a tempo, ma telecomandata"; e una al "Corriere della Sera", da parte di uno sconosciuto che il giorno dopo viene incontrato da un funzionario della Digos alla stazione di Firenze: la strage sarebbe partita "dalla mafia, dalla 'ndrangheta e dai politici perché per i loro traffici di droga avevano avuto fastidi dalla polizia". Dell'uomo, però, si perdono le tracce [12].
Nel frattempo inquirenti e commentatori avanzano le prime ipotesi. Secondo il sostituto procuratore di Bologna, Claudio Nunziata, "la pista nera è chiarissima": troppe sono le analogie con l'Italicus.
Per il giornalista Giorgio Bocca, la strage potrebbe esser fatta "risalire a quei poteri occulti, a quei centri di criminalità politica e mafiosa che sono stati messi negli ultimi anni con le spalle al muro".
Nel dibattito che si svolge alla Camera il 27 dicembre, il capogruppo socialista Formica afferma:
Con tempismo costante i seminatori di morte [...] invadono la scena per ricordare pesantemente al Governo [...] agli italiani e agli altri, che l'Italia non può e non deve avanzare in autonoma sovranità, non può e non deve liberarsi dai limiti di una democrazia circoscritta [...]. La fragilità dello Stato ha aperto varchi [...] a poteri paralleli, a criminalità organizzata, ad inquinanti contaminazioni
ma "da almeno due anni" sta avanzando "una riflessione collettiva intorno ai temi corposi della democrazia più alta [...] della presenza internazionale più autonoma e più autorevole".
È questo processo che si vorrebbe bloccare.
Il democristiano Rognoni avanza invece una lettura simile a quella di Bocca: "In un momento in cui lo Stato è duramente impegnato contro la criminalità organizzata, l'improvviso e studiato ritorno di un fronte terroristico [potrebbe] rappresentare un tentativo di alleggerire la pressione della difficile battaglia contro i commerci, i poteri, i delitti della mafia o di alte consorterie occulte" [13].
Di fatto anche negli anni seguenti saranno queste – strage di matrice politica con manovalanza camorristica e mafiosa, oppure strage di mafia anticipatrice di quelle del 1992-93 – le due interpretazioni prevalenti, assieme a quella che vede un intreccio di queste due componenti.
Le indagini
Le indagini si indirizzano subito su una duplice pista: quella napoletana, che ha origine nell'anticipazione della strage che Carmine Esposito – un ex poliziotto di estrema destra, che aveva appena trascorso un breve periodo di detenzione – aveva fatto alcuni giorni prima dell'eccidio alla Questura di Napoli, e che porta verso il clan di Giuseppe Misso, gruppo camorristico il cui leader ha anch'egli posizioni neo-fasciste, e verso Massimo Abbatangelo, parlamentare del Movimento sociale italiano; e quella romana, avviata dall'arresto di Guido Cercola, braccio destro a Roma dell'esponente mafioso Pippo Calò, cui segue il ritrovamento, nella casa dell'affittuario e sodale di Cercola, di due congegni radioelettrici in grado di innescare un'esplosione compatibili con quelli usati per la strage, e poi, in un casale dello stesso Cercola, di due pani di esplosivo Semtex H (di cui uno ridotto di circa un chilo), sei cariche di tritolo (di cui una mancante di 40 grammi) e nove detonatori, anch'essi compatibili con quelli usati per l'attentato.
La figura di Calò è di particolare rilievo: "cassiere della mafia", è al "crocevia di affari che legano mafia siciliana, camorra napoletana, malavita romana [...] e sottobosco dell'estrema destra" [14].
Secondo il giudice Viglietta, che indaga sulla banda della Magliana, – quella di Calò è "un'organizzazione con stretti vincoli con la destra eversiva, ambienti deviati dei servizi segreti e della massoneria", la quale non è priva di "obiettivi politici" [15].
Nelle settimane successive vengono fermati vari membri del clan Misso. Il primo è il giovane Carmine Lombardi, sospettato di aver portato l'esplosivo alla stazione di Napoli, il quale di lì a poco viene ucciso in un agguato. Il secondo è Lucio Luongo, che conduce gli inquirenti all'arsenale del gruppo. Dal canto suo, un altro componente della banda già detenuto, Mario Ferraiuolo, inizia a collaborare, confermando che il clan, oltre all'attività di criminalità comune, si muoveva anche per finalità politiche, e sostenendo che si erano svolte riunioni con Abbatangelo, il quale, ai primi di dicembre del 1984, avrebbe consegnato a Misso armi, detonatori e un pacco chiuso contenente esplosivi, portato a Roma da Luongo una settimana prima di Natale; affermazioni poi confermate da Luongo.
Nell'ottobre 1985 Calò è incriminato come mandante della strage, mentre altri 22 ordini di cattura sono emessi per Misso e i suoi per reati di camorra; tra i ricercati è anche Gerlando Alberti jr, legato alla "famiglia" di Calò ma "trapiantato" nel clan Misso e di fatto elemento di collegamento tra le due realtà. Misso riceve inoltre una comunicazione giudiziaria per la strage del 904, e così di lì a poco Abbatangelo.
Nel gennaio 1986 il Pm Vigna chiede il rinvio a giudizio di Calò, Cercola, e altri tre esponenti del gruppo romano, e di Misso, Abbatangelo e altre tre persone del gruppo napoletano. Per Vigna, la strage sarebbe il frutto di un intreccio di interessi, di mafia, camorra e destra eversiva, e finalizzata a "distogliere l'impegno della società civile dalla lotta contro la mafia", producendo un "blocco del paese sulla via della democrazia". Il Pm ipotizza "una pluralità di valenze" della strage, frutto del legame tra settori di mafia, camorra, destra eversiva e Banda della Magliana, e di una convergenza di interessi tra questi soggetti [16].
I processi e le sentenze
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Il primo passo dell'iter giudiziario sulla strage del 904 è la sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio emessa dal G.I. di Firenze Gironi il 3 novembre 1987, che accoglie le richieste di Vigna sul rinvio a giudizio di Calò, Cardone, Cercola, Di Agostino, Rotolo, Schaudinn, Misso, Galeota, Luongo ed Esposito, cui poi sarà aggiunto Pirozzi. La posizione di Abbatangelo, eletto deputato, viene stralciata.
Il giudice, accettando le ipotesi investigative del Pm, ritiene possibile "che l'attentato sia stato suggerito allo scopo di distogliere l'attenzione degli apparati istituzionali dalla lotta contro le centrali emergenti della criminalità organizzata". Tuttavia "le marcate connotazioni politiche di molti degli imputati, i collegamenti con precisi ambienti della destra eversiva […] possono rendere ipotizzabili anche altri più ambiziosi moventi". Insomma è plausibile che la strage avesse anche "obiettivi politici" e fosse parte di un piano comprendente una serie di gravi attentati. Quanto al gruppo napoletano, in presenza di "numerosi indizi di probabili contatti" tra clan Misso e Calò, il suo ruolo resta da approfondirsi [17].
Intanto, alla vigilia dell'inizio del processo, Schaudinn – ritenuto l'artificiere della strage, e dunque elemento centrale della vicenda – con la complicità di funzionari dell'Ambasciata tedesco-occidentale di Roma, si sottrae agli arresti domiciliari e fugge in Germania.
Nel febbraio 1989 è emessa la sentenza di primo grado.
Vengono condannati all'ergastolo per i reati di strage, attentato per finalità terroristica ed eversiva, banda armata, fabbricazione e detenzione di esplosivi, Calò e Cercola del gruppo romano, e Misso, Galeota e Pirozzi tra i napoletani; per gli stessi reati, ma con le attenuanti, sono condannati anche Di Agostino (28 anni) e Schaudinn (25 anni), pure del gruppo romano.
Per il giudice Sechi, la strage aveva "molteplici finalità":
Indebolire il sistema democratico del nostro Stato; distogliere con false emergenze l'impegno civile, politico e giudiziario e determinare, dunque, quella situazione di incertezza e di disorientamento dei pubblici poteri e di sfiducia in questi da parte dei cittadini che sono i presupposti indispensabili per la crescita [...] del proprio potere (mafioso) [18].
Nel marzo 1990 la Corte d'Appello di Firenze conferma le condanne di Calò, Cercola e Di Agostino, ma assolve Misso, Galeota e Pirozzi dai reati di strage, attentato e banda armata. La Corte, cioè, ritiene credibili le riunioni "politiche" del clan Misso e la consegna di esplosivi al clan da parte di Abbatangelo, ma non giudica questi elementi sufficienti a provare il nesso con la strage.
Circa un anno dopo, la I sezione della Corte di Cassazione – presieduta da Corrado Carnevale – respinge i ricorsi di PM e parti civili, mentre accoglie quelli degli imputati, annullando la sentenza di II grado. Per Carnevale, gli elementi emersi nel processo sono "generici" ed "equivoci", e addirittura sarebbe "arbitrario e assiomatico" definire Calò mafioso. Pochi giorni dopo, invece, la Corte d'Assise di Firenze condanna Abbatangelo all'ergastolo. Si crea così una situazione paradossale, per cui gli imputati del processo principale sono stati assolti, mentre Abbatangelo – il cui ruolo era inserito nella stessa vicenda – è condannato.
Nel novembre 1991 si apre il processo di rinvio in appello, che a sua volta ribalta la decisione della Cassazione. La II Corte d'Assise d'Appello di Firenze, presieduta dal giudice La Cava, nella sentenza del 14 marzo 1992 ribadisce l'ergastolo per Calò e Cercola e la condanna di Schaudinn a 22 anni, e riduce a 24 anni la pena per Di Agostino. Per Misso, Galeota e Pirozzi – già assolti in via definitiva per i reati più gravi – sono confermate le condanne per la detenzione di esplosivi. Il quantitativo di esplosivi in dotazione al gruppo romano, peraltro, fa pensare a "un vasto [...] programma di attentati", per cui la strage del 904 si inserirebbe "in una strategia terroristica di più ampio respiro". Quanto al gruppo napoletano, secondo la Corte la consegna degli esplosivi da Abbatangelo a Misso non basta a provare il nesso con la strage.
Commenta Guido Neppi Modona: la sentenza fa "luce sul perverso intreccio tra mafia e politica, terrorismo neofascista e deviazioni istituzionali che ha insanguinato gli ultimi venti anni di storia italiana". La strage del 904 viene dunque inquadrata in un "programma stragista, in cui il controstato della criminalità mafiosa e dell'eversione nera avevano sperimentato la comunanza di obiettivi e di metodi di lotta politica".
Sulla via del ritorno da Firenze, peraltro, Galeota viene freddato da un killer: è un altro protagonista dei fatti che non potrà più parlare. A lui si aggiungerà, nel gennaio 2005, Guido Cercola, suicida in carcere in circostanze sospette. Quanto ad Abbatangelo, nel febbraio 1994 è assolto in appello dall'accusa di strage, e condannato a sei anni per detenzione di armi ed esplosivo.
La vicenda si riapre nel 2010, allorché, in seguito alle dichiarazioni di alcuni pentiti, la Dia di Napoli riapre l'inchiesta. Nell'aprile 2011 Totò Riina, il "capo dei capi" della mafia, è colpito da un'ordinanza di custodia cautelare come mandante della strage del 904. L'ipotesi investigativa è che la strage servisse a costringere lo Stato a trattare con la mafia;
il fatto che l'esplosivo utilizzato nel 1984 fosse dello stesso tipo di quello impiegato per gli attentati dell'Addaura e di via D'Amelio sembrerebbe confermare il collegamento [19].
Rinviato a giudizio Riina nell'aprile 2013, nel maggio dell'anno successivo si tiene l'udienza preliminare; a novembre inizia presso la Corte d'Assise di Firenze, presieduta da Ettore Nicotra, il nuovo processo.
Durante le udienze, nel gennaio 2015, Giovanni Brusca ribadisce la sua convinzione del coinvolgimento dei vertici di Cosa nostra nella strage: non solo Calò, dunque, ma lo stesso Riina.
Giovanni Brusca: Pippo Calò mi disse di far sparire mine anticarro
Un altro collaboratore di giustizia, Leonardo Messina, conferma che Calò non avrebbe potuto agire in autonomia perché "nessuno, pena la morte, può fare un omicidio di questo livello senza il permesso della commissione provinciale o regionale".
Tuttavia, nell'aprile 2015, la Corte assolve Riina per non aver commesso il fatto. Ancora una volta, l'idea di una strage esclusivamente mafiosa non convince i magistrati. "Non può escludersi – scrivono nelle motivazioni della sentenza – che [nella strage] abbia trovato coagulo un coacervo di interessi convergenti di diversa natura".
Il contributo delle Commissioni d'inchiesta, le ricostruzioni storiografiche
La ricerca storica sulla strage del treno 904 ha stentato a decollare.
Dieci anni dopo l'evento, Roberto Arbitrio, coordinatore dell'osservatorio permanente dell'Eurispes sui fenomeni criminali, presieduto dall'onorevole Giuseppe Ayala, dedica al tema una prima ricerca. Per l'autore, dietro la strage vi sono "connivenze tra estrema destra […] criminalità organizzata di stampo mafioso […] e Massoneria deviata". Arbitrio sottolinea l'"anomalia" dell'attentato, che costituirebbe "la prima bomba di mafia sui treni". Di fatto "l'obiettivo non ha un significato strettamente mafioso".
Dietro l'attentato si può dunque ipotizzare "una struttura complessa, non solo di interesse mafioso". Del resto, le rivelazioni di Buscetta riguardavano non solo questioni di mafia, ma anche retroscena del golpe Borghese, del rapimento Sindona, dell'omicidio Moro. La strage può essere stata dunque "il punto di incontro" tra gli interessi della mafia e quelli di altri soggetti attraverso l'uso del terrorismo stragista.
Della vicenda del rapido 904 si occupa anche la Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi. Nel dicembre 1995 la relazione Pellegrino mette in discussione la lettura della strage come esclusivamente di mafia.
È un giudizio che la Commissione ritiene di dover riconsiderare [...]. Vero è che [...] l'accertata matrice mafiosa dell'episodio parrebbe in qualche misura separare la strage del '904' dalle precedenti e configurarla quasi come una anticipazione degli attentati di Roma, Milano e Firenze che hanno segnato l'estate del 1993 [...]. E tuttavia è la stessa personalità del principale responsabile individuato per la strage del '904', a fornire spunti di rilievo opposto.
È accertato, infatti, il 'ruolo di frontiera' svolto da Calò, per i rapporti stretti fin dagli anni '70 con la Banda della Magliana, personaggi del mondo politico ed economico. Si tratta di "una zona grigia caratterizzata da rapporti incrociati tra mafia, servizi segreti, criminalità politica e comune, il cui ruolo appare ormai innegabile [...] 'un nodo siciliano'" che va ben oltre il contesto dell'isola.
L'iter giudiziario, insomma, non avrebbe portato alla luce quella "rete di complicità" che pure esisteva.
In tal senso la conclusione dei magistrati, che hanno visto nella strage una reazione della mafia alle rivelazioni di Buscetta e alla crisi del patto col potere politico, è "apprezzabile – ma non pienamente appagante".
Il giudizio della Commissione, dunque, lascia aperti molti interrogativi. Pochi mesi dopo un volume a cura dell'Associazioni di familiari vittime per stragi ribadisce che quello del rapido 904 "fu un attentato anomalo. Un attentato in cui più chiaramente di altri si intravede l'ampiezza delle logiche criminali, i collegamenti tra esse, un attentato nel quale al fine eversivo fa da sfondo l'ombra inquietante dell'elemento mafioso; un nemico composito e nascosto, con molte facce e molte presenze dentro e fuori del nostro paese" [20].
Anche la ricostruzione storica proposta nel volume del 2006 conferma la necessità di approfondire ulteriormente l'intreccio di moventi e protagonisti della strage [21]. A sua volta, Rita Di Giovacchino sottolinea il ruolo dell'organizzazione di Calò come "struttura di servizio" a disposizione di massoneria e "apparati dello Stato", evidenziando inoltre come l'artificiere Schaudinn, lungi dall'essere una figura secondaria, fosse "un elemento di spicco di un'organizzazione internazionale", legata ad ambienti neofascisti, protetta da autorità croate, Cia e Mossad, "a metà guado tra mafia e servizi segreti" [22].
Dal canto suo, Stefania Limiti, sulla base tra l'altro delle rivelazioni di un altro pentito, Luigi Giuliano, osserva che il gruppo di Misso – secondo Giuliano "un'organizzazione potentissima", comprendente esponenti politici e militari – era legato all'organizzazione neofascista "La Fenice", già protagonista di vari episodi della strategia della tensione [23].
È interessante notare infine che le stesse più recenti acquisizioni giudiziarie, quelle cioè relative al processo Riina, abbiano confermato l'insufficienza di una lettura che attribuisca l'eccidio esclusivamente alla mafia, alludendo anch'esse a un panorama più articolato e complesso.
La verità storica sulla strage del 904 non può dirsi dunque ancora raggiunta.
Memorie e letture contemporanee
La memoria della strage del 904 non ha avuto un percorso facile. Sebbene l'Associazione tra i familiari delle vittime sia stata costituita poche settimane dopo l'evento, il 17 marzo 1985 – anche grazie alla collaborazione dell'Associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna e del suo presidente di allora, Torquato Secci –, il sostegno delle istituzioni non è stato sempre all'altezza delle aspettative.
La prima commemorazione si tenne nella sede del Consiglio comunale di Napoli, al Maschio Angioino, il 18 dicembre 1985. All'Associazione fu promessa una sede, che tuttavia arriverà solo venti anni dopo.
Per i superstiti si apre il drammatico dilemma tra il dimenticare, il rimuovere una esperienza così dolorosa, e il coltivare la memoria. Alcuni di loro trovano nell'Associazione "una seconda famiglia" [24].
Il secondo anniversario vede la realizzazione di una mostra fotografica, allestita nella stazione di Napoli per circa un mese, e un'altra mostra, più grande, viene realizzata per il ventennale, nel 2004. Quest'ultimo anniversario è particolarmente importante per rilanciare la memoria della strage. In quella occasione, oltre alla commemorazione ufficiale, si svolgono un incontro tra i familiari delle vittime e il sindaco di Napoli, Rosa Russo Jervolino, e un reading del giornalista e scrittore Daniele Biacchessi [25].
Anche in queste iniziative, la strage del 904 viene collegata alle altre stragi che hanno insanguinato il Paese a partire dal 1969. Non a caso, l'Associazione dei familiari partecipa alle commemorazioni della strage dell'Italicus e di quella di Bologna, ed è parte attiva della rete che le varie associazioni, gli archivi e le altre strutture che si occupano della storia e della memoria di quei fatti tragici hanno costituito negli ultimi anni.
Importante anche la commemorazione svoltasi in occasione del trentennale, alla quale hanno preso parte anche il sindaco di Napoli Luigi De Magistris e don Luigi Ciotti, presidente dell'Associazione "Libera".
A Ischia, dove la memoria della piccola Federica Taglialatela è molto curata ed esiste anche una fondazione a lei intitolata, un recital degli allievi della scuola media "Giovanni Scotti" ha ricordato la giovanissima scolara che perse la vita quel 23 dicembre.
In genere, in occasione degli anniversari, la strage viene ricordata con una duplice cerimonia: alla stazione di Napoli e poi alla stazione di San Benedetto Val di Sambro.
Dal 2003, nella stazione del capoluogo campano, una targa ricorda le vittime dell'eccidio, ma la sua collocazione poco felice la rende "una traccia 'invisibile'" [26].Un'altra targa si trova a San Benedetto Val di Sambro.
La stessa memoria collettiva del Paese stenta ad avere coscienza di quanto avvenne quel 23 dicembre.
Dopo lo studio di Roberto Arbitrio per l'Eurispes, solo nel 2006 è stata pubblicata, grazie all'Associazione dei familiari col sostegno della Regione Campania, una prima monografia dedicata alla strage.
Nel 2014 la giornalista Giuliana Covella ha pubblicato un nuovo volume sulla "strage dimenticata", con la prefazione del sindaco De Magistris, le cui presentazioni hanno ravvivato l'attenzione sul 904.
Riguardo ai mass-media, è soprattutto negli ultimi anni che l'attenzione alla vicenda del rapido 904 si è fatta più viva. Nel 2010 il giornalista napoletano Marcello Anselmo realizza un audio-documentario, trasmesso da Radio Tre dal 20 al 24 dicembre di quell'anno. Nel gennaio 2012, per la trasmissione "La storia siamo noi", la Rai manda in onda un documentario sulla strage.
Pochi mesi dopo, una video-intervista a Enza Napoletano realizzata da Eliana Iuorio per Road Tv Italia, torna a dare voce ai superstiti. Del dicembre di quello stesso anno è infine un'altra video-intervista, al presidente dell'Associazione Antonio Celardo, in viaggio verso San Benedetto Val di Sambro per la commemorazione della strage.
Nel dicembre 2015 Rai Storia ha dedicato un nuovo documentario alla vicenda del 904.
Negli stessi giorni Martino Lombezzi, giovane documentarista bolognese, ha ultimato il suo documentario sulla strage, ricco di testimonianze e di molte riprese anche dell'ultimo processo celebrato, quello a Totò Riina.
L'Associazione dei familiari, dal canto suo, continua a promuovere la memoria dell'evento, attraverso attività nelle scuole, iniziative pubbliche e una pagina Facebook costantemente aggiornata.
Attualmente la presidente è Rosaria Manzo. Ha dichiarato uno dei superstiti:
Vedere in carcere chi ha materialmente messo la bomba […] non mi avrebbe dato nessun appagamento. Mi darebbe grande appagamento scoprire la verità sul vero perché è stata organizzata questa strage, sui veri motivi alla base delle varie stragi italiane di quel periodo [27].
È questa, in effetti, la ferita ancora aperta della memoria collettiva del nostro paese.
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