pubblicato il 5.01.22
I buchi neri della Uno Bianca ·
Trent'anni fa la strage del Pilastro accende i riflettori sull'incredibile saga assassina dei fratelli Savi. Criminali in divisa che confesseranno oltre 100 rapine e 24 omicidi. Senza chiarire i lati oscuri di una stagione di terrore che ha sconvolto l’Italia
I primi colpi sono sembrati petardi, avanzi del Capodanno festeggiato qualche giorno prima. Subito dopo, il silenzio tornato ad avvolgere l’oscurità della periferia bolognese pareva confermarlo. Ma è stata soltanto una pausa. Pochi secondi ed è esploso tutto: un coro dirompente di mitra, pistole, fucili automatici. Una battaglia che ha infranto la notte e spezzato la vita di tre ragazzi con la divisa dei carabinieri. Gli assassini non hanno lasciato tracce: solo il fantasma carbonizzato della vettura con cui sono fuggiti, una Fiat Uno Bianca. Così, in uno stradone del quartiere Pilastro, quel 4 gennaio di trent’anni fa, l’Italia intera ha capito che la Banda della Uno Bianca era una questione terribilmente seria.
Ci sono voluti altri quattro anni e altre decine di vittime per venire a capo di quel mistero. Alla fine i killer del Pilastro sono stati riconosciuti responsabili di una lista di delitti che non ha pari nelle cronache nazionali, se non nelle saghe dei corleonesi o in quelle dell’eversione armata: almeno 103 assalti, 24 morti, 102 feriti in una lunga stagione di fuoco che va dal giugno 1987 al novembre 1994. Ma le sentenze hanno sancito che non si trattava di mafia, né di terrorismo.
1987-1994: tutti i numeri della banda
103 azioni criminali
91 tra rapine e tentate rapine:
22 banche; 22 caselli
20 distributori di benzina
15 supermercati; 9uffici postali
1 tabaccheria; 2 automobili
24 morti:
6 tra carabinieri ed ex carabinieri
3 pensionati; 2 nomadi; 2 operai extracomunitari
2 guardie giurate; 2 benzinai; 1 poliziotto
1 commerciante; 1 artigiano; 1 dirigente d'azienda
1 fattorino; 1 elettrauto; 1 direttore di banca
11 omicidi non legati a scopo di lucro
102 feriti
1 tentata estorsione
armi preferite:
Beretta FS 98
Beretta AR 70
Una storia semplice
Quella della Uno Bianca è stata archiviata come una storia semplice: i tre fratelli Savi, di cui due poliziotti, e altri tre agenti si sono trasformati in rapinatori. Cinque servitori dello Stato – come si diceva spesso all’epoca - e uno che non è riuscito a diventarlo, perché scartato alla visita medica. Esordiscono derubando un casellante. Poi alzano il tiro e la crudeltà, uccidendo a caso. Il rapporto tra ferocia e bottini si divarica: ammazzano per centomila lire o solo per il gusto di premere il grilletto. Sette anni di piombo tra Bologna e Rimini, con qualche sortita fino a Pesaro, senza mai venire scoperti: un frenetico via vai di sparatorie lungo la via Emilia, che tiene in scacco qualunque indagine. Usando però più volte le stesse armi, come a volere lasciare una firma balistica che sapevano sarebbe stata riconosciuta. Alla fine, altri due agenti integerrimi e risoluti imboccano la pista giusta e in tre settimane il caso è chiuso. I fratelli spietati e i loro complici vengono presi, con le prove complete per incastrarli: arsenali, soldi, travestimenti, persino le videocassette sottratte dalle banche per non farsi scoprire.
Hanno fatto tutto loro. Imprendibili supermen del crimine, protetti dalla doppia vita. E, allo stesso tempo, i primi di cui si sarebbe dovuto sospettare. Perché anche se le investigazioni scientifiche erano agli albori, gli esami del Dna primordiali, le analisi dei cellulari una rarità, però era chiaro il profilo degli assassini: la familiarità con le armi, la capacità di prevedere i controlli delle forze dell’ordine, l’affiatamento straordinario tra i sicari che si coordinavano tra i proiettili senza bisogno di parlare. Quelli della Uno Bianca hanno stravolto la vita di un’intera regione assicurandosi un’impunità eccezionale. Solo dopo l’arresto, si è scoperto che altri sapevano e in parecchi hanno sospettato. Senza mai denunciarli. Hanno taciuto, in una terra estranea all’omertà dove anzi tanti sono morti per essersi opposti ai pistoleri. Sono rimasti in silenzio pur indossando un’uniforme.
Ma è veramente una storia semplice? Loro sono sicuramente responsabili, oltre ogni ragionevole dubbio. Lo hanno confessato, pur cambiando tante volte versione, plasmando dettagli o adattando circostanze, ridimensionando ruoli o ingigantendo competenze. Non il movente, rimasto identico: lo hanno fatto per soldi. E poco importa se abbiano ucciso per pochi spiccioli o anche senza portare via nulla. Se abbiano fatto saltare in aria uffici postali affollati di pensionati uscendo a mani vuote, seminato cadaveri davanti ai supermercati senza prendere il bottino. Se persino per la notte del Pilastro abbiano sostenuto di essere andati in giro con due fucili mitragliatori solamente per cercare un’auto da rubare. I loro reati, come riconosciuto dai processi, sono sempre e solo frutto del desiderio di soldi. Accompagnato da una crudeltà che resta sconvolgente. Ha scritto Libero Gualtieri, il senatore emiliano che allora presiedeva la Commissione Stragi:
Non hanno mai sparato per aprirsi la strada verso l’obiettivo, né per proteggersi la fuga: sparavano per uccidere, sembra che solo questo importasse loro, più ancora del bottino»
Gli omicidi eseguiti e quelli tentati sono stati nella quasi totalità sproporzionati all’economia dell’azione in corso, sono stati commessi sempre per eccesso, indifferenti alla reazione che tanta ferocia avrebbe provocato…
I protagonisti
Roberto Savi
Il primogenito e il leader. Assistente capo della polizia a Bologna, detto “Il Monaco” per i modi riservati, comincia le rapine a 33 anni. Arrestato il 21/11/1994 mentre era in servizio nella Questura di Bologna. Condannato all'ergastolo il 6/3/1996 dopo tre processi in Corte d'Assise (Pesaro, Rimini, Bologna)
Fabio Savi
Unico non poliziotto, inizia i colpi a 27 anni. I testimoni lo chiamano “Il Lungo”, spietato in azione. Arrestato il 24/11/1994, a 22 km dal confine con l'Austria, con la compagna Eva Mikula. Condannato all'ergastolo il 6/3/1996 dopo tre processi in Corte d'Assise (Pesaro, Rimini, Bologna). Si è risposato in carcere nel 2002
Alberto Savi
Il fratello piccolo, detto Luca, agente a Rimini. I media lo chiamano “il tonto”, ma uccide con freddezza. Arrestato il 26/11/1994. Condannato all'ergastolo il 6/3/1996 dopo tre processi in Corte d'Assise (Pesaro, Rimini, Bologna). Ha goduto di diversi permessi
Marino Occhipinti
Agente, a 22 anni segue il suo capo Roberto Savi. Partecipa all’uccisione di una guardia giurata. Arrestato il 29/11/1994, condannato all'ergastolo il 6/3/1996. Il 9/1/2012 viene posto in semilibertà dal Tribunale di Venezia e lavora di giorno presso una cooperativa sociale di Padova. Libero dal 2018
Pietro Gugliotta
L’agente più a lungo con i Savi, senza partecipare a omicidi. Lo accusano di avere ferito a freddo un immigrato. Arrestato il 26/11/1994. Condannato a 28 anni di carcere, tramutati poi in 18, nell'agosto 2008 è stato messo in libertà grazie all'indulto e alla legge Gozzini
Luca Vallicelli
Cinquantasette anni, di Meldola (Forlì). Agente scelto alla Polizia Stradale di Cesena. Partecipò solamente alle prime rapine e patteggiò tre anni e otto mesi
Tra la via Emilia e il West
I protagonisti sono figli di Romagna, cresciuti però nell’ombra di un padre dichiaratamente di estrema destra che li ha educati predicando legge e ordine. Ovvio che cercassero una divisa. Roberto, il primogenito, entra in polizia nel 1976: è un tipo da strada, capopattuglia di turno nei peggiori angoli di Bologna. Preciso e determinato, si fa notare per la scarsa loquacità e lo stile riservato: molti colleghi lo chiamano “il Monaco”. Viene persino mandato a fare lezione alle reclute. Almeno in un caso perde il controllo: si infuria con un fermato e lo umilia, rasandogli i capelli a zero. L’episodio non passa inosservato e viene trasferito nella sala radio della Questura, senza altre punizioni. Anche il più piccolo, Alberto detto “Luca”, si arruola subito e resta vicino casa: è al commissariato di Rimini. I fratelli lo trattano con un’aria protettiva come un «cucciolone»: ha modi poco svegli e insicuri.
Fabio non supera la selezione per la polizia: viene scartato alla visita oculistica. Fa molti lavori, finché nel 1986 deve chiudere la sua carrozzeria a causa di alcune fatture non pagate. «Un’ingiustizia, ce l’avevo con il mondo», racconterà a Franca Leosini per giustificare l’inizio dell’attività criminale. Ha qualcosa del vitellone da Riviera: gli piacciono discoteche, moto e ragazze. Dei suoi compagni di serate però non si sa nulla: come se nella sua esistenza ci siano stati solo i fratelli. In apparenza fanno vite dimesse: si sposano, mettono al mondo figli, non consumano droga, niente lussi esibiti. Nessuna militanza politica, nonostante le voci sulle frequentazioni adolescenziali di Roberto nella sede del Fronte della Gioventù.
La Fiat Regata usata dai Savi con i baffi sulla targa. Spesso nei primi anni coprono la targa anteriore, quasi come una firma
Il loro passatempo preferito è il poligono di tiro. Sin da ragazzini, il padre gli ha messo in mano armi d’ogni calibro, come fossero in un ranch della provincia statunitense: ne hanno una collezione, all’inizio regolarmente denunciata.
Sparano da Dio perché gliel’ho insegnato io»
si vantava il genitore. Questa saga familiare ha il sapore dell’America profonda, di pistole sempre cariche e interminabili trasferte in auto: col primo assalto i Savi entrano in una zona oscura tra la via Emilia e il West. Il problema è definirne i confini.
Quando li hanno arrestati, gli investigatori stavano dando la caccia ai responsabili di una catena di delitti che partiva dal 1990, marcata dalle tracce di due coppie d’armi. Invece Roberto e Fabio Savi riversano una confessione molto più estesa, assumendosi le colpe attribuite fino allora a tre bande differenti che hanno agito da molto prima: quella detta delle Coop, quella che i giornali chiamano della “Regata Fantasma” e quella della “Uno Bianca”. Ancora più sorprendente è che per le prime e persino per l’eccidio del Pilastro, la magistratura aveva già individuato e addirittura mandato a giudizio persone diverse. I loro verbali invece narrano un cammino di violenza che travolge gli inquirenti. E, a leggerlo tutto di fila, continua a lasciare sbalorditi.
Il pedaggio di piombo
Cominciano quasi per gioco. Fabio con la necessità di quattrini, Roberto forse con la voglia di sfida. Il capopattuglia convince i due agenti della sua quadra. Spiegherà Marino Occhipinti: «Se ne andava in giro mostrando delle mazzette di denaro di piccolo taglio, voleva vedere come reagivamo. Partimmo a parlare di rapine così, per scherzo, poi passammo a compierle davvero. Io stavo per sposarmi, avevo bisogno di soldi». Luca Vallicelli è una meteora: esce dal gruppo dopo poco. Si aggiunge però il fratello Fabio. Sono tutti giovani. I Savi hanno 33 e 27 anni. Marino Occhipinti soltanto 22, come il “piccolo” Alberto. Puntano un casello dell’autostrada: un bersaglio senza rischi e molti contanti. Desistono dal primo tentativo; al secondo prendono un milione e trecentomila lire: la paga di un mese in pochi minuti. Siamo a Pesaro, è il 19 giugno 1987. Si descrivono come principianti del crimine.
Abbiamo iniziato con l’idea che nessuno dovesse farsi male»
dirà Fabio. Eppure dopo poche settimane gambizzano un casellante: un proiettile gratuito. Il primo di un’infinità. L’escalation che raccontano è rapidissima. Meno di quattro mesi più tardi pianificano un’estorsione, minacciando il proprietario di un autosalone. È proprio quello che non avrebbe pagato Fabio Savi, scatenando il suo odio. Danno indicazioni chiare per la consegna del denaro - una borsa con 50 milioni, da lasciare in un punto della A-14 non lontano da Cesena - e studiano meticolosamente come controllarla. La vittima però si rivolge alla polizia e si presenta seguita dagli agenti in borghese. I Savi sono appostati su un cavalcavia e scoprono l’auto civetta: potrebbero fuggire, invece aprono il fuoco. Il sovrintendente Antonio Mosca viene trafitto: morirà nel 1989, senza mai riprendersi. Altre otto pallottole feriscono la poliziotta al suo fianco e un suo collega. È un agguato clamoroso, resta impunito per anni.
L’ora della Coop
Con il 1988 c’è un nuovo salto di qualità. Passano ai supermercati: le Coop, il simbolo del benessere distribuito nella “Regione Rossa”. Mirano al colpo grosso: gli incassi della giornata. Il 30 gennaio a Rimini aspettano i vigilantes che devono ritirarlo. Appena le tre guardie si avvicinano alla cassaforte, scatta il tiro incrociato: Giampiero Picello morirà pochi giorni più tardi, un’altra è grave ma riesce a sopravvivere. È l’ora di punta. Il parcheggio è pieno di gente, ma i cecchini non si placano: feriscono coppie con il carrello della spesa, donne, una bambina di nove anni. Il panico è totale. I killer si impossessano solo di un sacco di documenti e assegni, che buttano.
Una carneficina senza profitto.
Il 20 febbraio a Casalecchio di Reno c’è “l’azione” - per usare il lessico di Roberto Savi - più spettacolare. Per prelevare i soldi arrivano un furgone blindato e una vettura di scorta. Il corteo si ferma sulla rampa del garage. Appena si aprono le porte, i due fratelli maggiori lanciano una bomba e avanzano nel fumo scaricando i mitragliatori sulle guardie. Volano pallottole ovunque. Uccidono Carlo Beccari; feriscono Francesco Cataldi, Alberto Giacomelli e Michele Nardella. Possibile che in due abbiano affrontato e abbattuto cinque vigilanti? Ci sono testimoni che descrivono più aggressori. Ci sono traiettorie che non combaciano. Ma la colpa ricade solo sui Savi.
Il 20 aprile a Castelmaggiore, sempre nei dintorni di Bologna, la banda sta preparandosi ad assalire ancora una Coop. Scorgono un’Alfetta dei carabinieri, impegnata in un servizio di prevenzione. Non ci pensano due volte: li sorprendono alle spalle e assassinano i militari Cataldo Stasi e Umberto Erriu. Qui c’è il primo episodio anomalo: un brigadiere dell’Arma depista le indagini. Mette sull’Alfetta alcuni bossoli ed altri identici li fa ritrovare nell’abitazione di un indiziato che lui arresta. Il piano è maldestro e i magistrati lo smascherano: il sottufficiale dichiara di avere agito «per fare carriera». Per molti mesi la gang vola basso e torna ai caselli. Ma il 26 giugno 1989 eccola di nuovo in una Coop bolognese. Stesso stile: una bomba e poi fuoco a volontà, ferendo tre vigilanti. Mentre fuggono, un pensionato gli urla in dialetto: “Sa fet, delinquent!” (“Cosa fate, delinquenti!”). Si bloccano e ammazzano Adolfo Alessandrini con un colpo diretto. È una vera esecuzione, non sarà l’ultima.
Spari nel mucchio
Il 1990 è un anno in cui la brutalità sembra ispirata dal caos, come se non ci fosse più una strategia. È allora che si comincia a parlare di Uno Bianca. È il modello più venduto d’Italia, anche se in realtà non è l’unico impiegato dalla Banda: rubano esclusivamente alcuni tipi di Fiat e Lancia che riescono a mettere in moto infilando una scheda telefonica, di quelle che si usavano per chiamare dalle cabine pubbliche, al posto della chiave. Un sistema semplice ed efficace, che diventerà un altro loro “marchio di fabbrica”. Il 15 gennaio eccoli all’ufficio postale di via Emilia Levante a Bologna: è il giorno di paga delle pensioni, c’è una lunga coda. Piazzano un ordigno troppo potente che devasta ogni cosa: i vetri schizzano come frecce, gli infissi saltano in aria. A terra restano in 45, quasi tutti anziani. Giancarlo Armorati morirà dopo settimane in ospedale.
Stupisce come passino da operazioni in grande stile ad altre improvvisate, da raid militari a mosse balorde. Il 6 ottobre, sempre nel capoluogo, cercano di rapinare il borsello a Gilberto Bonafè: l’uomo resiste e gli infilano due colpi nelle gambe. Stanno risalendo in macchina, quando vedono una persona che grida invocando aiuto e sta annotando la loro targa. Si fermano, vanno da lui e lo ammazzano: Primo Zecchi muore così, a 51 anni.
A dicembre il ritmo diventa frenetico e i moventi perdono logica. Tutto a Bologna e dintorni. La sera del 10 ottobre al campo nomadi di Santa Caterina di Quarto seminano pallottole sulle roulotte: nove feriti. Il 22 nel parcheggio dell’Ipercoop sparano a due lavavetri tunisini. Il 23, domenica mattina, si posizionano davanti a un altro campo nomadi, in via Gobetti, e svuotano il fucile automatico Beretta AR-70. Quando finisce la raffica, Rodolfo Bellinati e Letizia Della Santina hanno smesso di vivere; una donna e due bambini urlano coperti di sangue. Solamente quattro giorni di tregua e irrompono in una stazione di servizio di Castelmaggiore. Si fanno dare l’incasso – un milione e 800 mila lire – e dopo fanno fuoco a caso. Il gestore viene ferito. Un proiettile ammazza Luigi Pasqui, commerciante cinquantenne, che era lì per lavare la macchina. La banda scappa e, come sempre, raggiunge un parcheggio per cambiare auto. Paride Perini, 33 anni, li osserva mentre scendono. E loro non hanno pietà.
La notte più buia
Il 2 gennaio 1991 Driss Akesbi, cittadino marocchino, è in una buia strada di periferia frequentata da prostitute. Si allontana a piedi quando una vettura lo affianca e dal finestrino gli tirano addosso due proiettili. I Savi sosterranno poi che si trattava di una prova di iniziazione per Pietro Gugliotta, un nuovo agente che si era unito alla congrega. Lui lo ha sempre negato. Ma il peggio deve ancora arrivare. Alle 22 del 4 gennaio un’auto dei carabinieri pattuglia i palazzoni del Pilastro, forse la zona meno tranquilla della metropoli. Supera una Uno Bianca, poi rallenta. Ma subito dalla Uno arrivano una serie di pallottole. Il militare alla guida è ferito, cerca però di chiamare la centrale e perde il controllo, finendo contro una fila di cassonetti. La Uno li raggiunge: escono in tre, sparando all’impazzata. Due carabinieri rispondono con mitra e pistola. Il volume di fuoco dei Savi è implacabile: una pioggia di proiettili letteralmente crivella la vettura dell’Arma. Poi il colpo di grazia: i tre carabinieri ragazzini hanno poco più di vent’anni. Si chiamavano Andrea Moneta, Mauro Mitilini, Otello Stefanini.
“Bologna, sfida allo Stato”, titola la prima pagina di Repubblica. «Un fatto talmente grave che stentiamo a crederci», dice il procuratore capo Gino Paolo Latini a Luigi Spezia del nostro giornale. Il presidente Francesco Cossiga lo definisce «un atto di guerra». Gli assassini sono spettri. Non lasciano bossoli: usano un dispositivo che li raccoglie all’uscita dal fucile. La vettura su cui fuggono viene ritrovata in fiamme. C’è soltanto una traccia: macchie di sangue sul sedile posteriore.
Le indagini della direzione distrettuale antimafia prendono la pista della criminalità locale, i “pilastrini”: un gruppo emergente di duri che smercia droga nel quartiere. Una giovanissima testimone li accusa: «Erano lì». La procura si convince che quella notte avessero incontrato un personaggio pesante: Marco Medda, luogotenente di Raffaele Cutolo, in cella assieme al padrino durante le trattative con i servizi segreti per il rilascio del politico democristiano Ciro Cirillo sequestrato dalle Br. Il camorrista è evaso dal carcere grazie a un permesso premio nonostante fosse ergastolano. Di più: Medda è stato operato di nascosto pochi giorni dopo a Milano per una ferita alla gamba. Si ritiene che fosse al Pilastro per rifornirsi di armi, forse da usare nella faida tra clan campani e calabresi in corso in Lombardia che due settimane prima aveva visto cadere l’unico figlio di Don Raffaele. La pattuglia dei carabinieri sarebbe arrivata nel momento dello scambio: l’avrebbero eliminata per proteggere la latitanza del boss. Una ricostruzione riconosciuta quasi integralmente dai giudici di primo e secondo grado. Cancellata poi definitivamente dalla confessione dei Savi.
Ecco le parole di Roberto, senza un filo di emozione:
Il triplice omicidio è stato commesso da me e dai miei fratelli Fabio e Alberto. Quella notte eravamo di passaggio al Pilastro a bordo di una Uno bianca rubata. Io avevo con me il mio Beretta AR-70; Fabio il fucile Sig; Alberto una pistola 357 Magnum. Stavamo andando a rubare macchine. Era una notte di nebbia
Ad un certo punto, in via Casini, all’altezza dei grattacieli, siamo stati sorpassati da una Fiat Uno dell’Arma. Pochi istanti dopo, avendo la sensazione che si fossero insospettiti e ci volessero fermare, ho aperto il finestrino ed ho esploso alcuni colpi con l’AR-70, forse cinque o sei in direzione del lunotto posteriore dei carabinieri. Il mezzo ha accelerato e si è fermato un po’ più avanti. Siamo subito giunti a ridosso e tutti e tre siamo scesi
Io sono stato subito colpito da un proiettile esploso dal milite che occupava il posto anteriore destro. Ho sentito un forte dolore e mi sono piegato in due. Nel frattempo Alberto e Fabio sparavano in direzione dei carabinieri. Poi ho perso conoscenza»
Nel cuore di Bologna
All’indomani del massacro, c’era però un elemento chiarissimo su cui indagare: i due fucili che hanno segnato l’ultima serie di agguati. Il Sig Manurhin e il Beretta AR-70, estremamente simili, sono la versione per il mercato civile delle migliori armi da guerra del momento. E sono molto rare. In Questura pensano di analizzare chi le abbia comprate: in Emilia Romagna ne sono censite solamente venti. Indovinate chi ne possiede ben due? Fabio Savi. Che pochi giorni dopo la strage si presenta in un commissariato a denunciare di averne ceduta una. Una pista lasciata nel cassetto.
Roberto Savi, "il Corto”, come lo descrivono i testimoni delle razzie, si cura da solo e nessuno dei colleghi in ufficio si accorge della ferita. In poche settimane riprende il doppio lavoro. La banda torna ai benzinai. Il 20 aprile 1991 a Borgo Panigale si fanno consegnare la cassa - 510 mila lire - e dopo uccidono il titolare, Claudio Bonfiglioli. Ammazzano pure il suo cane. I soldi restano sull’asfalto, tra il sangue. Dieci giorni più tardi, sotto un cavalcavia di Rimini, una Ritmo dei carabinieri viene tallonata da un’altra auto. All’improvviso i tre militari vengono centrati da una pioggia di pallettoni. I Savi diranno di essere stati loro. Stessa motivazione: temevano che la pattuglia li volesse controllare.
Il 2 maggio la scena cambia. Siamo in via Volturno, nel pieno cuore di Bologna: sette minuti a piedi da Piazza Maggiore, ancora meno dalla Questura. C’è un’armeria, frequentata da tanti delle forze dell’ordine. Un cliente distinto chiede di comprare delle pistole e viene servito dalla titolare, Licia Ansaloni. Altri acquirenti lo vedono, poi escono: fuori c’è un’altra persona e ne tracceranno un identikit molto somigliante a Fabio Savi, che i testimoni hanno già indicato come “il Lungo” della Uno Bianca. L’uomo all’interno aspetta e prova con calma due Beretta 98 FS ultimo tipo. Quando arriva anche l’assistente di Ansaloni, il carabiniere in pensione Pietro Capolongo, uccide entrambi e scappa con la coppia di pistole. D’ora in poi saranno la firma della gang.
Ci servivano armi», ha dichiarato "il Lungo" nell’unica intervista televisiva. Capolongo ha sbarrato la porta e messo le mani sotto il bancone: “Voglio vedere come andate via, stanno arrivando”.
E io gli ho sparato. Poi ho detto alla donna: “Apri la porta”. Lo ha fatto e stavo per uscire. Lei ha urlato: “Tanto ti prendono, ti ho riconosciuto, hai l’accento di Rimini…»
È la sentenza di morte. Nel libro mastro che registra le vendite c’è più volte il nome di Roberto Savi. Incrociato con il possesso del fucile stragista, sarebbe stato un indizio illuminante. Nessuno ci fa caso. La città è sotto shock, c’è un clima cupo di paura e non si parla di altro: la sequenza di omicidi sembra non conoscere fine. Inoltre il Pilastro e l’armeria sono state rivendicate da Falange Armata, una sigla eversiva che cavalca i principali fatti di sangue di quella stagione in ogni parte d’Italia, incluse le bombe di mafia. Non offre mai prove in grado di dimostrare la paternità degli omicidi, ma alimenta un’onda di mistero. Chi fossero gli autori di quelle telefonate e perché le abbiano fatte non è mai stato chiarito.
Riviera di fuoco
Il 19 giugno ’91 ancora un distributore. Con la pistola in tasca, affrontano il gestore: «Dacci i soldi, è una rapina». Graziano Mirri è stupito, sbotta: «Cos’è, uno scherzo?». Gli sparano alla testa e se ne vanno, senza prendere nulla. Sono stakanovisti, paiono incapaci di fermarsi. Quattro settimane ed eccoli all’ufficio postale di San Lorenzo di Riccione. Innescano una bomba. Il direttore Aniello Di Martino non si intimorisce e non apre la porta blindata. Sono costretti a ritirarsi. Pure questa volta c’è una rappresaglia. Cinque giorni dopo, mentre il direttore sta andando al lavoro con il figlio, un sicario solitario ferisce entrambi. Perché? Spavalderia? Temono di venire riconosciuti?
Le rapine proseguono ma l’estate pare lenire la paura. Le spiagge romagnole si affollano di vacanzieri, è la stagione del divertimento. Spopola il remix di un brano di Lucio Dalla: “Amore mio non devi stare in pena, questa vita è una catena, qualche volta fa un po’ male, guarda come son tranquilla io anche se attraverso il bosco con l’aiuto del buon Dio, stando sempre attenta al lupo”. Le belve da cui guardarsi sono altre. Il 18 agosto, alle due di notte, a San Mauro Mare viaggia un’utilitaria con tre operai senegalesi. Lavorano a Lecco, hanno speso la serata a Rimini e cercano un albergo per dormire. La Uno Bianca li ghermisce al volo. Senza fermarsi, le due Beretta prese nell’armeria bolognese vomitano sedici proiettili: Ndiaj Malik e Babon Chejkh non hanno scampo; Madiaw Diaw sopravvive alle ferite. Mentre la banda fugge a tutta velocità, taglia la strada ad alcuni ragazzi di Rimini che inveiscono contro di loro. La Uno Bianca fa inversione e li insegue sparando, ma solo uno dei giovani viene raggiunto di striscio.
È come se calasse il gelo. La notte perde il clima festoso: c’è angoscia, ogni Uno bianca provoca un brivido. La Riviera riminese viene blindata da posti di blocco e rastrellamenti, ma gli assassini sono svaniti nel nulla. L’idea che ci siano in giro killer che sparano nel mucchio, senza un movente che giustifichi i loro omicidi moltiplica il terrore. E non si capisce il perché di tanta crudeltà.
I Savi daranno motivazioni diverse e contraddittorie. Prima dicono che avevano confuso la vettura degli immigrati, targata Lecco, per un’auto civetta dei carabinieri. Negano e negheranno sempre il razzismo: dopo avere rotto con le mogli, al momento della cattura Roberto convive con una ragazza nigeriana e Fabio con una romena. Anche “Il Lungo” respinge ogni pulsione xenofoba, ma a Franca Leosini nel 2001 dichiara: «A Rimini i senegalesi avevano atteggiamenti che non si potevano tollerare. Giravano ubriachi fradici, in mezzo a vie dove passavano i bambini, erano sfruttatori e papponi. Li abbiamo seguiti per un po’ e poi sparato». Ed era lui a dovere fare giustizia? «Mi stavo arrogando quel diritto».
Gli inquirenti si mobilitano, formano una squadra speciale di polizia e carabinieri, cercando di mettere insieme gli elementi sparsi tra troppe procure e troppe caserme. Ci sono parecchi arresti, vengono incolpati innocenti nel tentativo di rispondere alla pressione di una cittadinanza sconvolta. Dopo alcune rapine, il comando dell’Arma di Pesaro si concentra sugli appassionati che frequentano i poligoni di tiro. Un’altra pista ovvia. Raccolgono notizie e vengono a sapere che Fabio Savi in ogni esercitazione recupera i bossoli con scrupolo certosino: un atteggiamento anomalo. Tanto più che aveva due fratelli poliziotti. Tanto più che sul luogo degli ultimi delitti c’erano bossoli che erano stati ricaricati. Erano stati rinvenuti pure il 28 agosto, dopo l’assalto a un ufficio postale nel Pesarese: a Gradara l’auto in fuga dei Savi era stata affiancata da due agenti in borghese. Come al solito, li hanno affrontati e feriti: forse volevano infliggere il colpo di grazia, ma la pistola si è inceppata e sono ripartiti.
Il comando dell’Arma redige una segnalazione completa sui due fratelli. Che si perde nel nulla. L’esistenza stessa del rapporto viene dimenticata. La rivelerà nel 1997 l’ex ministro dell'Interno Roberto Maroni durante il processo: «Me ne parlarono dopo l’arresto dei Savi. La relazione era stata inviata al Viminale: se non ricordo male, era accompagnata da una nota della Questura di Pesaro che la presentava come una vendetta dei carabinieri, perché la polizia aveva arrestato poco prima dei loro militari. E quindi fu archiviata. Venne trasmessa pure al Sisde, ma poiché non si trattava di terrorismo, la questione non era di loro competenza».
La pausa
Nessuno è riuscito a capire perché, ma dalla chiusura del 1991 la Banda entra in sonno e per tutto l’anno successivo rimarrà ferma. Un lungo silenzio. Fabio Savi sostiene di essere diventato padre e che una malattia del figlioletto lo aveva turbato. Inoltre comincia a lavorare come camionista, lunghe trasferte fino all’Europa dell’Est, che frequenta sempre più spesso: caduto il Muro, è la nuova mecca per chi cerca affari facili e divertimento. La moglie lo pianta perché sospetta della “seconda vita” criminale: ne parla pure ad un amico di famiglia, un poliziotto esperto. Che si tiene tutto per sé.
A Budapest Fabio conosce Eva Mikula, sedicenne romena, e la porta in Italia. Comincia pure a trafficare armi: kalashnikov e pistole, a decine. Un commercio senza rischi: Roberto alla frontiera mostra il tesserino di servizio ed evita i controlli. L’ungherese che gliele avrebbe fornite è stato processato e condannato, senza arrivare a una sentenza definitiva: è stato assolto per prescrizione pochi anni fa. Quel business rimane quindi una parentesi oscura, confermata solo dalla quantità di pistole magiare sequestrate nelle loro case. Hanno pure un modello speciale di kalashnikov e migliaia di cartucce. Sono i resti della mercanzia: altri li hanno venduti, ma non si sa a chi.
Le “azioni” riprendono nel 1993, con un’altra evoluzione: si dedicano soprattutto alle banche. Sono ben protette ma loro pianificano ogni passo nel minimo dettaglio: tolgono le cassette dalle telecamere di sorveglianza, indossano parrucche e occhiali vistosi. Il 24 febbraio fila tutto liscio: 50 milioni di lire, molto più delle vecchie prede. Un ragazzo però li fissa mentre cambiano auto: Massimiliano Valenti ha 21 anni e un impiego da fattorino.
Lo obbligano a salire sulla loro vettura, lo uccidono e gettano il corpo in un canale a Zola Predosa. Fabio Savi è gelido nel descrivere l’esecuzione:
Cercò di vedere a tutti i costi il cambio di macchina: con quella nuova dovevamo fare molti chilometri fino a Bologna e portandolo con noi gli avremmo impedito di lanciare l’allarme. Ma a bordo lui continuava a guardarci. Gli ho detto più volte: “Stai a testa bassa”. Niente da fare. Insisteva…»
La vita non conta nulla. Il 7 ottobre vanno in una banca e Fabio minaccia la cassiera. La donna esce di scatto dalla filiale e corre urlando verso l’officina lì accanto. Dall’auto della banda spunta un kalashnikov: uccidono il meccanico Carlo Poli, 41 anni; feriscono la cassiera e un’altra donna.
Ormai è una routine. Che prosegue nel 1994, quando un assalto fortunato gli frutta 300 milioni: il bottino più ricco in assoluto, che non riusciranno neppure a spendere. Il 24 maggio tornano a Pesaro. Aspettano davanti alla Cassa di Risparmio il direttore Ubaldo Paci. Quando apre le porte, un killer solitario gli spara a bruciapelo. Fa per andarsene, poi si gira ed esplode il colpo di grazia. Non cerca soldi; ammazza e basta. La strada è affollata, ci sono i ragazzi che aspettano il bus per andare a scuola. I testimoni sentono che l’uomo dice in una trasmittente: «Missione compiuta». A ottobre l’ultimo sangue. Nell’istituto di credito bolognese si rifiutano di sbloccare la porta blindata. E loro se la prendono con i clienti in attesa: una raffica sulla coda, lasciandone tre feriti a terra.
Il finale
Questa è la storia più semplice. Dopo tanti anni, due poliziotti si mettono di impegno a cercare la soluzione. Luciano Baglioni e Pietro Costanza sono di Rimini, del commissariato dove è di servizio il più piccolo dei Savi. Si muovono con discrezione partendo da uno dei pochi punti certi dell’equazione criminale: quelli della Uno Bianca studiano le banche prima di colpire. Così orbitano in borghese intorno alle filiali, con in tasca l’unica immagine ripresa dalle telecamere. Finché la pazienza non viene premiata: c’è un’auto che passa più volte. L’uomo al volante ricorda quello che stanno cercando. Annotano la targa, la seguono per un tratto. Identificano Fabio Savi, si confrontano con il pubblico ministero Daniele Paci e in pochi giorni chiudono la catena dei sospetti: scattano gli arresti.
Questa è la verità processuale, scolpita nelle sentenze definitive che consacrano il dinamismo e il coraggio di Baglioni e Costanza, a cui poi verrà dedicata una fiction. I fratelli Savi li denigreranno nel corso delle udienze. E Roberto Maroni, in quelle settimane titolare dell'Interno, dichiara alla Corte d’Assise che «probabilmente c’è stata una segnalazione diretta da qualcuno». Quel che conta è che l’incubo è finito. Roberto viene ammanettato in Questura. Mentre lo trasferiscono in cella, dice agli altri agenti: «Avrei potuto ammazzarvi tutti». Fabio scappa con Eva Mikula. Si ferma a pochi chilometri dalla frontiera austriaca, nell’ultimo autogrill prima del confine. «Io mi sono arreso. In un’area di servizio piena di gente. Quando si arriva al capolinea bisogna dire basta». Alberto all’inizio prende le distanze, si finge sbalordito. Al cronista di Repubblica dichiara: «Se è davvero lui il killer, farebbe bene a spararsi un colpo in testa».
La recita resiste qualche giorno, poi lo portano in carcere. Game over. Con una drammatica appendice. Il padre dei Savi, l’uomo che li aveva educati al rispetto dell’ordine e alla pratica della armi, si suicida. Lo fa nell’auto che aveva comprato a rate: una Uno Bianca. L’intera Regione viene liberata dal terrore. Non si aspettava altro: chiudere quella pagina orribile, lodando i bravi poliziotti che hanno riscattato l’onore del corpo.
Processo di Rimini, 6 marzo 1996: il giudice Pierleone Fochessati legge la sentenza di condanna all'ergastolo per i tre fratelli Roberto, Fabio e Alberto Savi per i delitti della Banda della Uno Bianca
Processo di Rimini, 6 marzo 1996. L'applauso dei parenti delle vittime dell'Uno Bianca dopo la lettura della sentenza che commina 3 ergastoli ai fratelli Savi
La memoria del PM
Di quei giorni ricorda tutto. La trasferta di corsa nella notte da Bologna a Rimini per andare a interrogare il capo di killer in divisa. La decisione della procura di assegnare a lui, all’epoca sostituto procuratore, l’intero capitolo delle stragi, dei delitti e delle rapine. E ricorda, soprattutto, la lunga, lunghissima notte in una stanzetta del carcere militare di Peschiera, dove “Il Corto” era richiuso dopo l’arresto e dove, pochi giorni dopo, disse di essere pronto a collaborare.
Ma voglio parlare con quel magistrato che ha fatto il poliziotto»
Quel «magistrato che ha fatto il poliziotto» si chiama Valter Giovannini, e oggi è sostituto procuratore generale in corte d’Appello a Bologna. Sotto le Torri è lui la memoria storica di quei giorni di sangue. E ora, a trent’anni, dall’eccidio del Pilastro, ripercorre quei giorni. «Il primo incontro con Roberto Savi, a Rimini, dopo il suo arresto a Bologna, è indelebile. Parlava a monosillabi, come un automa, e rispondeva ai magistrati di Rimini e Bologna dicendo semplicemente “positivo” o “negativo”. Qualche giorno dopo, a Peschiera, cambiò strategia. E disse tutto. Parlò delle rapine, di chi c’era, della scelta di usare sempre quell’utilitaria». Parlò anche della strage del Pilastro, fece rivelazioni, e il suo unico no fu per la richiesta di essere sottoposto ad una radiografia per accertare la natura di una strana cicatrice che aveva al ventre. Era il segno di una ferita rimediata tre anni prima nella tempesta di fuoco. Un taglio profondo. Roberto fu curato in casa dai fratelli Fabio e Alberto e dalla moglie Anna Maria, che per tutti quegli anni si tenne dentro questo pesante segreto.
«Scandagliammo ogni aspetto di quella notte – dice ora Giovannini –. Perché c’era bisogno di trovare riscontri alle contestazioni dei fatti che potessero reggere in aula. Ricordo che recuperammo addirittura le ricette mediche per l’acquisto dei farmaci che potevano servire a curare una lesione di quel tipo. Controllammo la farmacia sotto casa di Roberto Savi e risultò che in quei giorni c’era stata un’impennata di vendite di quei prodotti». Una piccola cosa, forse, in un mega processo con un centinaio di udienze e 500 testimoni.
I banditi in divisa ne uscirono con gli ergastoli. «Cominciai le indagini senza una tesi precostituita, come si deve fare in una situazione tanto complessa come quella. Andai dove mi conducevano gli accertamenti investigativi. La stragrande maggioranza dei testimoni confermò tutto. E ricordavano tutto. Era una esperienza che li aveva colpiti profondamente. Quelle persone furono un esempio di coraggio civile. Come i tre ragazzi in divisa sacrificati al Pilastro. Ancora oggi provo un sentimento di dolore immenso per un massacro insensato. A distanza di trenta anni, oggi quei ragazzi in divisa sarebbero uomini ancora nel fiore degli anni. È stata una vicenda che mi ha coinvolto umanamente, e che in qualche modo mi fatto diventare “il pubblico ministero delle vittime”»
I dubbi che tornano
Il prossimo 4 gennaio al Pilastro di Bologna torneranno le lacrime e i ricordi, torneranno le madri che non hanno mai smesso di piangere. Ma torneranno, anche, i dubbi su una vicenda ancora molto misteriosa. Erano davvero solo dei “semplici” criminali i fratelli Savi e i loro sodali in divisa? Che senso aveva in quei giorni, in una città ferita dalle stragi, andare a sparare nei campi nomadi o nei centri d’accoglienza? È stata solo “criminalità” fare le prove di fuoco sparando contro i ragazzi venuti dall’altra parte del mondo a tirare su qualche spicciolo ai semafori della città? E che senso aveva usare sempre le stesse armi negli assalti col rischio di farsi riconoscere? E poi quell’auto, sempre la stessa.
Eva Mikula al processo a Pesaro, dietro le sbarre c'è Roberto Savi. Nel 2020 ha scritto una lettera aperta all'allora pm di Rimini Daniele Paci e ai poliziotti Luciano Baglioni e Pietro Costanza. «Viviamo giorni dove i criminali stanno finendo di scontare le loro pene, ed io? - scrive Mikula -. La mia pena è infinita, è a vita; niente protezione, niente anonimato, niente risarcimento. Vivo nel baratro del mio passato, nascondendomi nell’oblio per affrontare e sconfiggere ogni giorno il pregiudizio dell’opinione pubblica, conquistare il mio quotidiano e dare speranza a quella dei miei figli»
Eva Mikula, all’epoca la fidanzata-bambina di Fabio Savi, l’unico “civile” della banda dei poliziotti, quando fu interrogata sulla strage del Pilastro rispose così: «Fabio mi disse che quella notte andavano a negri. Incontrarono invece la pattuglia dei carabinieri, ma lui disse che andava bene lo stesso». Una verità taciuta dal 1991 al giorno degli arresti e degli interrogatori da Eva, che ora rivendica di avere avuto un ruolo importante nelle indagini, collaborando con i magistrati. Mikula, proprio in questi giorni, torna alla carica, asserisce per l’ennesima volta di essere stata sfruttata da giudici e dai media e annuncia l’uscita di un libro online con le sue rivelazioni. Guarda un po’, proprio ai primi di gennaio. Il comitato delle vittime della Uno non vuole nemmeno sentirne parlare.
Sull’ipotesi-terrorismo, invece, Giovannini la pensa così: «È stata una pista battuta per anni, da me e dai miei sei ragazzi del pool Uno bianca distaccati in modo permanente. Non è emerso nulla. C’era ovviamente un retropensiero per le modalità delle azioni e gli obiettivi. Ma nessun riscontro. E nulla è emerso dopo trenta anni dal Pilastro». Certo le suggestioni e i misteri non mancano. Il magistrato, per esempio, ricorda quando subito dopo l’arresto della banda, sui monitor dell’agenzia di stampa Adnkronos a Roma comparve un messaggio che bloccò l’operatività dei computer. Diceva: “Falange armata, noi non c’entriamo nulla con la Uno Bianca”. L’ennesima “rivendicazione” a mezzo a stampa di una misteriosa sigla che si faceva viva però solo a cose già avvenute e divulgate. «L’unico caso “preventivo” della Falange - ricorda Giovannini - riguarda l’uccisione dell’educatore del carcere di Opera Umberto Mormile. Facemmo repertare le ogive della 357 Magnum che lo uccise e le confrontammo con le armi dei banditi bolognesi. Nessuna compatibilità». E la macchina? Quella vetturetta che diventò una terrificante griffe? Giovannini ne parlò con Roberto Savi, e la sua risposta fu disarmante: «Ce ne sono tante, era una macchina anonima. Rubavamo quel modello di auto per non essere riconosciuti».
I movimenti indecifrabili
Lo stesso Giovannini nella relazione introduttiva al processo bolognese la definisce
una vicenda caratterizzata in modo ritmico da totale indecifrabilità, incomprensibilità, totale assenza di giustificazione che non sia una giustificazione da ricercare nei meandri di una mente malata…»
Episodi di così gratuito spargimento di sangue che forse il movente era altro, insondabile, inspiegabile, irrazionale, che però connota quell’associazione di caratteristiche particolari…». E nella requisitoria con cui chiede gli ergastoli sottolinea gli «altissimi livelli di ambiguità sia sotto il profilo degli obiettivi che delle azioni», evidenziando «l’agghiacciante messaggio di morte di paura di terrore…seminando sovente in maniera del tutto gratuita panico e terrore sulla popolazione con azioni apparentemente non sorrette da finalità di lucro…».
La risposta a questi dubbi è nella «furia omicida» dei fratelli Savi, che supera ogni calcolo e li spinge ad agire come serial killer: la ferocia fine a se stessa che si impone nel momento in cui impugnano le armi, sentendosi superiori a tutto. «Mi sono arrogato questo diritto», come ha detto Fabio in televisione. Quando si muovono, però, è solamente per denaro. Daniele Paci, il pm di Rimini che risolse il caso, lo chiama «terrorismo a scopo di lucro». E argomenta: «Il rapinatore che agisce per fini terroristici va distinto dal terrorista che fa rapine. Eva Mikula a un certo punto ha detto che Fabio Savi era dei servizi. Ma la verità è banale: non ci sono state coperture, non ci sono misteri. Erano poliziotti, sapevano fare il lavoro anche quando depistavano le indagini».
Da trent’anni Rosanna Zecchi, la vedova dell’uomo che aveva tentato di fermarli, non ci crede: «Non accettiamo la tesi che lo facevano solo per lucro, va al di là della nostra comprensione». Da trent’anni i familiari dei carabinieri trucidati al Pilastro chiedono di andare oltre la responsabilità dei Savi. Ludovico Mitilini, fratello di uno dei ragazzi in divisa, ha lanciato un appello: «Ci batteremo affinché venga fatta piena luce sulle tante ombre che aleggiano su questa vicenda. Un contributo potrebbe arrivare anche dalla preannunciata informatizzazione e pubblicazione degli atti processuali».
Non esiste un database con i documenti sulla Banda. I dibattimenti hanno valutato le prove su tre elenchi di episodi divisi per competenza territoriale, disperdendo gli atti. Non c’è stato un maxiprocesso ma tre processi a Bologna, Rimini, Pesaro. Nessuna corte ha preso in considerazione l’intera catena di crimini, ma solo i singoli anelli. Le domande di avvocati e pm che cercavano di evidenziare connessioni spesso sono state bocciate dai giudici, proprio perché «non inerenti il capo di imputazione». La saga assassina è stata parcellizzata, frammentata, impedendo la possibilità di andare oltre la dinamica di una determinata azione. Così i fratelli Savi sono stati riconosciuti colpevoli. E lo sono, oltre ogni ragionevole dubbio. Ma perché lo hanno fatto?
Oltre loro
Se allarghiamo la visione, se cerchiamo di guardare quell’inarrestabile sequenza di reati da una distanza diversa, allora dopo trent’anni possiamo osare una lettura diversa. Che provi ad addentrarsi nei buchi neri di questa incredibile saga pistolera. Cercando di dare un senso a una vicenda che appare solo follia. Tentando di rispondere alle domande ripetute troppe volte dai familiari delle vittime, mai appagati dalle conclusioni processuali.
Anzitutto, c’è da considerare l’Italia di allora. Siamo negli anni in cui la Prima Repubblica si spegne. Non è una transizione dolce. Alla fine del 1990 le rivelazioni su Gladio, la rete militare clandestina in funzione anti-comunista, provocano un senso di vertigine. Luciano Violante su l’Unità la cita proprio commentando il Pilastro, ipotizzando che l’eccidio miri a distogliere l’attenzione dall’operazione Stay Behind. Nel 1992 poi cambia tutto. Mani Pulite azzera un’intera classe politica; la crisi economica chiude per sempre fabbriche antiche e cambia il lavoro; la lira subisce picchiate repentine che bruciano i risparmi. Ci sono le stragi. Una forma nuova di terrorismo, messa in campo dalla mafia contando su alleanze nell’ombra ancora non decifrate. Diverse inchieste hanno cercato di chiarire chi abbia suggerito ai corleonesi gli obiettivi, collaborato nella preparazione degli ordigni, depistato la ricerca della verità e poi trattato in nome dello Stato per fermarli. Non abbiamo una verità. Ma sappiamo che qualcosa di anomalo è accaduto e ha contribuito ad accelerare la trasformazione del Paese. Più volte i magistrati in passato hanno parlato di “menti raffinatissime”, di “terzo livello”. In tempi più recenti hanno sostenuto che non c’era solo la mano di Cosa Nostra, ma anche della ndrangheta e di “apparati deviati”.
Se prendiamo una mappa della Penisola, c’è una suggestione immediata. Tra il 1992 e il 1993 bombe esplodono in Sicilia e poi a Firenze, a Milano, a Roma. Ma non a Bologna. Perché? C’è una considerazione drammaticamente ovvia: Bologna aveva già pagato un prezzo altissimo. Il massacro della Stazione, l’Italicus, il treno 904: una via crucis dolorosa, che però aveva sortito effetti opposti ai disegni dei bombaroli. Il tritolo non aveva generato terrore, ma unito la città nella risposta: lo testimoniano la reazione compatta all’eccidio del 2 agosto 1980 e la solidarietà intorno ai vagoni dilaniati alla vigilia del Natale 1984. Chi pianifica la campagna di attentati, che si tratti di un boss o che abbia potuto contare su consiglieri istituzionali, è consapevole di questa realtà: l’esplosivo non serve per sconvolgere Bologna, per piegarla ci vuole altro.
Bologna, 12 novembre 1989: il segretario del Partito Comunista Italiano Achille Occhetto annuncia a sopresa la "svolta della Bolognina", il primo passo che porterà allo scioglimento del Pci e alla nascita del Partito Democratico della Sinistra
Già, ma l’Emilia Romagna è strategica per i destini della nazione. La “Regione Rossa”, modello eccezionale di un comunismo che ha saputo innovarsi e creare benessere diffuso come in nessuna altra parte del mondo. Lì in via Pellegrino Tebaldi il 12 novembre 1989 il segretario del Pci Achille Occhetto dichiara che bisogna «non continuare su vecchie strade, ma inventarne di nuove per unificare le forze di progresso» e apre a cambiare il nome del partito. Cosa che verrà sancita nel congresso del 3 febbraio 1991 a Rimini. Via Tebaldi è a cinque minuti di auto dal luogo dove vengono massacrati i tre carabinieri; il Partito Comunista scompare un mese dopo le raffiche del Pilastro. Rimini è l’altro bersaglio privilegiato dei fratelli Savi. In quelle città non c’è stato bisogno di bombe, perché a seminare il terrore ha provveduto la Uno Bianca.
Cronologie parallele
Fateci caso. La gang assassina rivendica un’escalation che segue cronologicamente la dissoluzione del Pci. L’anno più duro è il 1991, poi c’è una pausa e quindi aumenta il volume di fuoco fino a chiudersi nell’autunno 1994. Nel frattempo l’Italia non è più la stessa. Al governo c’è il centrodestra. E persino in Emilia Romagna il fronte composto da Berlusconi, leghisti e post-fascisti – all’epoca An veniva ancora definita così – è arrivato al maggioritario al 33 per cento. Prima il Movimento sociale non raggiungeva il 4. Prima la sinistra aveva sempre la maggioranza assoluta: ora è sotto il 50 per cento.
Se la Uno Bianca doveva seminare insicurezza, spingendo i cittadini a cercare legge e ordine nella destra emergente, allora ha ottenuto il risultato. Se qualcuno li ha ispirati, pilotati e protetti, allora a quel punto aveva completato la missione. O era stato tolto di mezzo. Perché anche nel mondo degli apparati di Stato arriva un rinnovamento generale. Praticamente l’intero Sisde, il servizio segreto interno, viene travolto dagli scandali con accuse di depistaggi, malversazioni, alto tradimento. Quando al processo di Bologna convocano l’ex capo dell’antiterrorismo del Sisde e gli domandano se conosce Roberto Savi, lui risponde: «L’ho visto soltanto di sfuggita nel carcere romano dove ero detenuto per il caso Pecorelli».
Roberto Maroni, ministro dell’Interno nel 1994, descrive al processo il rapporto dei carabinieri di Pesaro che nel 1991 presentava i sospetti sui Savi. Il rapporto era stato trasmesso al vertice della polizia e al Sisde, ma era stato archiviato senza indagare: la questura di Pesaro lo aveva presentato come “una vendetta dei carabinieri”. Verrà ritrovato solo dopo l’arresto dei Savi. “Sorprendente che non si fosse indagato”. Maroni spiega la decisione di rimuovere i vertici di Sisde “che non avevano il controllo sui loro uomini” e della polizia. Dichiara: “Avevo il sospetto che in generale ci fossero responsabilità e collusioni”
È il primo governo di centrodestra della Repubblica a completare la pulizia. La descrive Roberto Maroni, diventato ministro dell’Interno proprio nel 1994, testimoniando nel dibattimento bolognese: a luglio rimuove i vertici della polizia e dei servizi segreti. «Certamente nel Sisde e poi nel Dipartimento di Pubblica Sicurezza c’era una situazione che non dava garanzie circa il controllo effettivo dei direttori sull’operato dei centri informativi e della struttura. Per il Sisde era stato evidenziato in modo chiaro. Chiesi al direttore Salazar se avesse dossier su partiti politici e lui negò. Allora ordinai una ricerca e trovai venticinque dossier: gli uomini del Sisde non erano controllati dal vertice. La stessa cosa al Dipartimento. Il prefetto Parisi era un grande servitore dello Stato: era capo da nove anni e prima per sette anni aveva guidato il Sisde. Questo aveva creato sul territorio situazioni consolidate di rapporti che non garantivano più l’efficienza massima dell’apparato. Non sono mai arrivato a pensare che consentissero illegalità, ma decisi di cambiare l’aria. Questo ruppe gli equilibri, creò una reazione a catena. Ho ricevuto segnali da tutte le questure: “Finalmente si muove qualcosa…”. Non so se è un caso, ma in poco vennero arrestati i Savi. Però rileggendo le interviste di Gianni De Gennaro - da me voluto come vicecapo polizia e guida della Criminalpol ossia di tutto settore investigativo – che diceva che occorreva intervenire sulla Uno Bianca ed era ora di chiudere, penso che forse il cambiamento ai vertici ha contribuito alla svolta».
De Gennaro in effetti rivoluziona i metodi, schiera detective esperti e tecniche innovative. Per la prima volta nell’estate 1994 si traccia un profilo psicologico dei killer: è azzeccatissimo. Le indagini hanno avuto una spinta? «Credo di sì. A parte le responsabilità dei vertici precedenti, che non so se esistano, io volevo mettere uomini nuovi che non guardassero in faccia a nessuno. C’era quasi la consapevolezza che per la Uno Bianca non fosse estraneo il clima dovuto alla troppo lunga presenza dei vertici».
L’altra confessione
Nell’altalena di versioni e dettagli variabili fatta oscillare dai fratelli Savi, c’è un momento singolare. Un anno dopo la confessione fiume, Roberto e Fabio fanno un’inversione di rotta. Sincronizzati, nonostante siano in carceri diverse, cambiano radicalmente racconto. Sostengono di avere responsabilità in ogni reato, di avere commesso tante rapine, ma di non avere mai ucciso. In quelle parole, le bande tornano così a essere tre. Quella delle Coop, composta da agguerriti catanesi vicini al clan Santapaola, i pendolari del crimine già individuati e mandati a processo prima di venire scagionati da loro. Una di delinquenti romagnoli, più o meno coincidente con la cosiddetta “gang della Regata Fantasma”. E infine la Uno Bianca, che però non era formata solo da loro. A tutte, i Savi hanno fornito armi, auto, travestimenti, rifugi, supporto logistico: una società di servizi a gestione familiare, affidabile e potenziata dalle conoscenze del “Corto” sulle mosse delle forze dell’ordine. Pistole e mitra sono sempre loro; ma nelle sparatorie più sanguinose altri premono il grilletto.
Il capitolo più inquietante, però, riguarda misteriosi «uomini delle istituzioni». Roberto Savi dichiara di essere stato avvicinato di notte, a Bologna, mentre va a incontrare il fratello con una borsa piena di pistole. Sono in due. Gli dicono di sapere che loro c’entrano con l’uccisione dei due carabinieri davanti alla Coop e che hanno provveduto a depistare le indagini. «Sapevano tante cose, sapevano che davamo le armi ai rapinatori. In diverse occasioni mi fecero notare che interi uffici erano stati bloccati per coprirci. Avevano modo di fermare le inchieste, le deviavano». Poi gli intimano di lavorare per loro: «Se vi servono soldi, ve li diamo noi. E vi copriremo. Lo abbiamo già fatto». Questi emissari «della famiglia» – intesa come lo Stato – dall’autunno 1989 li contattano indicando il tipo di bersaglio desiderato: banca, ufficio postale, distributore.
I Savi preparano l’azione, consegnano il necessario e rimangono in contatto radio per coordinare la fuga. Poi riprendono le loro cose e intascano la tariffa: dieci-venti milioni di lire. Temono questi interlocutori: quando Roberto li incontra, Fabio è dietro l’angolo con il colpo in canna «per evitare scherzi». «Minacce dirette non ne hanno pronunciate. In qualche occasione c’è stato il discorso che un incidente può capitare a chiunque…». Ma erano criminali o delle istituzioni? «A quel che ne so, delle istituzioni. Ci hanno dato protezione, ce l’ho ancora».
A Rimini, nel secondo processo, l’ex poliziotto Roberto Savi descrive i rapporti con “gli uomini dello Stato” che lo avrebbero protetto dalle indagini e usato la Banda della Uno Bianca come “un servizio” per compiere reati. Savi dice di essere consapevole che queste persone “creavano un terrore diffuso”. Anche il fratello Fabio conferma queste dichiarazioni. Giudici e avvocati le contestano e non vengono creduti. Poco dopo, anche i due fratelli ritrattano e smentiscono l’esistenza di “uomini dello Stato”
I due spiegano che «quelli lì» gli avevano detto di confessare tutto, anche quello che non avevano commesso, poi avrebbero pensato a sistemare le cose: «Ci hanno chiesto di tenere quella versione per un anno dalla chiusura delle indagini». Roberto centellina le frasi, ma lascia capire che a queste persone il denaro non interessava. Gli importava il clamore degli attacchi: "il terrore diffuso". «Vi sembra possibile che io possa confondere la Uno dei senegalesi con un’auto civetta dei carabinieri?». E ancora:
Perché dovevamo uccidere i benzinai? Come la penso io? Uno prende i soldi e non ammazza… All’armeria noi siamo rimasti fuori, in appoggio. Poi ci hanno lasciato in deposito le due Beretta, che usavano loro. Gli esplosivi venivano da loro. Io non li so maneggiare, mi fanno paura»
Il servizio criminale
Questa nuova storia parla di un service criminale. Come la Banda della Magliana, che affittava pistole a 007 e terroristi, che vendeva informazioni in cambio di protezione. Oggi la saga romana è il paradigma delle trame, la stella polare dei complottisti. Allora però non era di moda: il “Romanzo Criminale” di Giancarlo De Cataldo la renderà famosa a partire dal 2002, con tutta la sequela infinita di film, serie tv, libri. Il Corto e il Lungo come il Freddo e il Libanese? Lo stesso copione romano ripetuto a Bologna? Suggestivo, ma processualmente infondato quanto inesplorato. In letteratura spesso si cerca nelle fiabe l’eco di brandelli di verità; la legge vuole prove.
Il testacoda della Uno Bianca avviene nell’autunno 1995, nel dibattimento di Rimini. I giornali gli dedicano scarsa attenzione. Ormai il caso è stata chiuso dagli ergastoli di Bologna e i Savi ne hanno dette tante. Non offrono nomi, neppure dei catanesi o dei delinquenti romagnoli. Non li sanno o non li vogliono pronunciare: «Non faccio l’informatore. Tanto mi hanno condannato una volta, la seconda non fa differenza», ribadisce l’ex agente Roberto. Precisa soltanto che «quelli delle istituzioni» venivano quasi sempre dalla Toscana e in alcuni casi da Milano. Una volta c’era pure uno che pareva nordafricano. Non ci sono riscontri, anzi troppe cose di questa versione tardiva cozzano con la ricostruzione dei periti. E non c’è neppure lo stimolo di approfondire, per non dare appigli alla volontà revisionista degli assassini. Nemmeno “il Monaco” pare interessato a convincere, concede risposte brevi e scarni dettagli. Persino il loquace Fabio sul punto è di poche parole: «Sa mio fratello».
Agli avvocati delle parti civili la coppia replica con sarcasmo. In aula i fratelli ridono, esibiscono un ghigno sinistro che insulta le vittime superstiti e i parenti dei caduti: «Si comportano come in uno show». Nessuno gli crede, la stampa non gli dà spazio: le frasi dei Savi hanno stufato. Tant’è che dopo poco se le rimangiano. Non fanno appello neppure per gli ergastoli, che diventano subito irrevocabili. Giustizia è stata fatta. Come ha detto Fabio Savi, senza rinunciare ai suoi modi dissacranti:
Dietro la Uno Bianca c’è soltanto la targa, i fanali e il paraurti. Basta. Non c’è nient’altro»
Oggi i tre fratelli sono ancora in cella. Se qualcuno doveva coprirli, non ha voluto o non ha potuto mantenere la promessa. Solo Marino Occhipinti – ergastolano per avere partecipato a un omicidio - ha ottenuto la libertà anticipata nel 2018 e si è rifatto una vita. Per il Tribunale di Sorveglianza “ha rivisitato in modo critico il suo passato e non è socialmente pericoloso”.
Fabio Gugliotta per buona condotta ha scontato solo 14 dei diciotto anni. Alberto è uscito due volte per permessi. Dalla prigione Fabio si è risposato con una donna di Firenze: è nel penitenziario milanese di Bollate dove c’è pure Roberto. Che resta schivo, pur partecipando alle attività consentite e avendo imparato a cucinare bene. L’ex poliziotto ha 66 anni: potrebbe chiedere la semilibertà, ma è molto difficile che fuori trovi un lavoro. Per loro però non c’è stato il carcere duro: sono “normali” assassini, senza aggravanti di mafia o terrorismo.
La conclusione di una storia semplice. Con tanti buchi neri. Esplorati con rigore dall’altro magistrato che ha cercato di fare luce su questa trama: Giovanni Spinosa, titolare delle prime istruttorie sull’infiltrazione mafiosa in Emilia e delle indagini sul Pilastro cancellate dalla confessione dei Savi. Oggi presiede la Corte d’appello di Ancona e ha scritto una controinchiesta minuziosa, pubblicata nel 2012 da Chiarelettere. Non dubita delle responsabilità dei fratelli, cerca però di mostrare i pezzi mancanti del puzzle incrociando dati tecnici e testimonianze. Nemmeno Libero Gualtieri, l’ex partigiano che aveva guidato la Commissione stragi, si era convinto che le sentenze spiegassero tutto. Per lui, la Uno Bianca era «una questione aperta»: «Qualcun altro deve rispondere per la lunga strage che si è consumata in Emilia Romagna».
Speriamo di conoscere la verità vera, perché fino ad ora penso che non l’abbiamo saputa»
A ogni commemorazione, la signora Anna Maria Stefanini ripete la sua invocazione. Non dimentica e non perdona chi ha ammazzato il figlio Otello, uno dei carabinieri del Pilastro: «Uccidere ragazzi che in tre avevano 64 anni è una cosa a cui ancora oggi non posso pensare. Il mio dolore è sempre quello, anzi più il tempo passa più è peggio.
Sono talmente stanca di aver parlato tanto in questi anni, ma non si è concluso niente. Forse perché ci sarebbe da vedere le cose alla radice»
Il dolore di una donna semplice. Che non riesce a credere che la Uno Bianca sia stata una storia semplice.
https://www.repubblica.it/esteri/2020/12/31/news/i_buchi_neri_della_uno_bianca-301048567/?ref=RHTP-BH-I332602496-P4-S4-T1
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