“A ferro e fuoco. L’occupazione italiana della Jugoslavia 1941-‘43”: on-line una mostra dalle voci plurali, per riequilibrare le distorsioni di un tormentato passato
10 Apr 2021
“È una mostra grande per dimensioni... Abbiamo cominciato con la decisione sciagurata di Mussolini di estendere la guerra ai Balcani, attaccando la Grecia, e poi abbiamo cercato di dare un’idea della situazione estremamente complicata che si crea in Jugoslavia dopo lo smembramento del Paese..."
Raoul Pupo, professore di Storia contemporanea all’Università di Trieste, è oggi lo storico di riferimento per comprendere uno dei contesti più travagliati del nostro recente passato: la spirale di violenza nelle terre dell’Alto Adriatico teatro delle due guerre, matassa di difficile sbroglio per chi non fa il suo mestiere.
Non mancano illustri colleghi che hanno indagato lo stesso tema, Pupo ha il merito di aver alzato il velo e di aver portato avanti negli anni un’infaticabile opera di restituzione dei fatti con rigore, riposizionando un ago della bilancia per molto tempo oscillante.
“Un progetto – specifica Pupo – plurale e corale, che mira a divulgare ciò che è già noto agli studiosi e che offre testimonianze a tutto tondo: italiane, slovene, croate, vittime e carnefici. In occasione di tante altre vicende dolorose che hanno riguardato le terre e le genti dell’Adriatico orientale, abbiamo parlato del valore delle memorie, del rispetto delle memorie di tutti, ed anche, come ultimo passo, della “purificazione” della memoria. Questo era un concetto molto caro a don Renzo Boscarol, che da poco ci ha lasciati e che tanto si è speso per la riconciliazione dei popoli italiano, sloveno e croato. Purificazione della memoria vuol dire avere il coraggio di guardare anche alle zone oscure della propria, necessariamente con dolore. Questo è l’ultimo passo, che ho voluto e che abbiamo voluto compiere, anche a suggello di un lunghissimo ciclo di impegni sulla storia e sulle memorie della frontiera adriatica, che non hanno riguardato solo dei nuclei circoscritti di popolazione, ma tutto il Paese, come illustrato in questa mostra”.
Il contesto storico – Istria, autunno 1943, e Venezia Giulia, primavera ed estate 1945: questi i due momenti topici, ma occorre un passo indietro nel tempo per meglio ricostruire un puzzle storico, geografico e sociale dove tante tessere diverse hanno formato per secoli un disegno coerente, scombinato in maniera drammatica nei decenni più recenti. Con chiara asciuttezza ci aiuta il libro “E allora le foibe?” dello studioso Eric Gobetti (tra i contributors ai contenuti della mostra).
I territori dell’Alto Adriatico da Gorizia a Trieste e fino a Fiume e Pola ora appartengono a tre stati, Italia, Slovenia e Croazia, con cuore nella penisola istriana; furono parte dell’Impero romano, della repubblica di Venezia e poi dell’impero asburgico: un dominio culturale, economico, ma non certo nazionale come oggi intendiamo il concetto. Il melting pot – non privo di tensioni, beninteso, ma amalgamato – vedeva l’intersezione del mondo germanico, slavo ed italiano, identificabili e conviventi. La diffusione della lingua italiana (dialetto istro-veneto) non era sinonimo di “italianità” e la nazionalizzazione delle etnie è figlia di ideologie che si sviluppano a partire dalla fine del Settecento e si impongono dalla metà dell’Ottocento. Dunque non italiani, slavi, tedeschi con la netta differenziazione odierna, ma popolazioni ben impastate con vari ingredienti. Gobetti cita l’esempio di Guglielmo Oberdan, il giovane triestino giustiziato nel 1882 per aver attentato alla vita dell’imperatore Francesco Giuseppe: nato Wilhelm Oberdank, aveva nome tedesco, cognome sloveno ed identità italiana.
Sarà il regime fascista a forzare l’italianizzazione di questi territori, innescando una miccia, e la prima crepa si apre alla fine della Prima guerra mondiale, quando l’equilibrio fra genti si rompe e comincia la supremazia di una nazionalità: il regno d’Italia va a comprendere l’Istria fino a Pola e Fiume, dopo l’annessione conseguente all’impresa dannunziana (1919). Chi non si identifica con l’Italia, ad esempio i germanofoni, sceglie di emigrare verso Austria, Germania, Ungheria, mentre sloveni e croati optano per lo stato jugoslavo formatosi ad est.
La radicalizzazione di questa frattura arriva con l’invasione della Jugoslavia da parte della Germania e delle sue nazioni alleate. Il 6 aprile 1941 le truppe tedesche, seguite da quelle italiane e ungheresi, aggrediscono e si spartiscono la Jugoslavia: si svilupperà una guerra di tutti contro tutti, fuoco incrociato. Guerra di liberazione contro l’occupazione, guerra civile fra ustascia croati, cetnici serbi, domobranzi sloveni, partigiani comunisti. E rivoluzione per la fondazione uno stato comunista (che avverrà con Tito), repressione antipartigiana, sterminio antisemita e verso le etnie “fuori posto”.
Di questo periodo di terrore ed orrore, “A ferro e fuoco. L’occupazione italiana della Jugoslavia 1941-‘43” prende in esame le azioni dei soldati italiani in quelle terre, una parte dei quali fu colpevole di violenze non meno di altri invasori; storia scomoda come storia da dimenticare. Ma le dieci sezioni espositive, con immagini, documenti ed interviste, fanno i conti col passato, senza sconti, da quel tragico 6 aprile al non meno drammatico 8 settembre 1943, data dell’armistizio (capitolazione). Gli italiani di stanza non sono semplici spettatori, ma protagonisti di una delle pagine più buie della nostra storia nazionale, con pochissimi lampi di luce. Basti l’esordio della Circolare 3C del 1° marzo 1942, a firma del generale Roatta: Il trattamento da fare ai partigiani non deve essere sintetizzato dalla formula: “dente per dente” bensì da quella “testa per dente”.
Altri Paesi, come la Germania, hanno mostrato, a posteriori, più coraggio nell’illuminare angoli di buio della storia recente. Oggi, dopo ottanta anni, gli autori di A ferro e fuoco vogliono che sia il momento giusto anche per noi.
Il percorso espositivo – “È una mostra – approfondisce Pupo – grande per dimensioni non perché abbiamo voluto accumulare immagini ad effetto, ma perché abbiamo cercato di spiegare. Lo abbiamo fatto anche in tante altre occasioni, magari attirandoci qualche critica, ma sono e siamo convinti che per spiegare un fenomeno bisogna guardarlo a bene a fondo, senza remore, e bisogna anche collocarlo nel suo contesto. Di conseguenza, siamo partiti larghi, anche se in forma necessariamente sintetica: abbiamo cominciato con la decisione sciagurata di Mussolini di estendere la guerra ai Balcani, attaccando la Grecia, e poi abbiamo cercato di dare un’idea della situazione estremamente complicata che si crea in Jugoslavia dopo lo smembramento del Paese. Dentro quella situazione si intersecano conflitti di ogni genere – e qua lo ribadisco, di quella crisi l’Italia fascista porta una responsabilità gravissima – e quei conflitti produssero un’esplosione di violenza di cui le truppe italiane non furono semplici testimoni, ma purtroppo protagoniste.
Le sezioni centrali della mostra sono dedicate proprio alle politiche repressive di parte italiane, con esame degli ordini, comportamenti, conseguenze e percezioni. Qui naturalmente sarebbe stato fin troppo facile costruire una galleria degli orrori: ma non è minimamente questa la nostra attenzione. Ci sono inevitabilmente delle immagini dure, con le quali bisogna fare i conti, ma sono collocate a parte e ben segnalate, in modo che, chi lo preferisce, possa saltarle.
Lo stesso discorso vale per i testi dei pannelli, brevi e descrittivi: sono testi freddi non perché siamo insensibili, ma perché siamo convinti che, di fronte alle fonti che presentiamo, e che sono fonti che purtroppo urlano, gli storici devono parlare sottovoce, altrimenti rischiano di scivolare nella retorica: e la retorica è nemica mortale della verità e nemica della comunicazione onesta.
Le fonti dunque sono moltissime. Molti archivi ci hanno aiutati con le loro collezioni di immagini e li ringrazio tutti. Molto abbiamo usato la documentazione ufficiale e le testimonianze. Abbiamo sicuramente privilegiato le fonti italiane, per due motivi. Il primo, perché ci fanno capire, dietro i fatti, quali furono le logiche repressive, dalle quali emerge un quadro impressionante di “guerra ai civili”, per niente diversa da quella che poi i tedeschi avrebbero combattuto in Italia dopo l’8 settembre. Il secondo, perché i racconti dei soldati italiani, di quello che fanno alla popolazione civile, non possono certo venir accusati di vittimismo o di esagerazioni. Sono una pietra d’inciampo dolorosissima al mito del buon italiano, nel quale per tanto tempo ci siamo cullati. Ma, naturalmente, ci sono anche altre voci, voci di vittime, di fronte alle quali è difficile rimanere indifferenti.
E poi abbiamo fatto un ricorso larghissimo alle interviste con un buon numero fra i maggiori storici della materia. Lo abbiamo fatto per offrire al visitatore una possibilità di approfondimento dei temi proposti, ed anche per far sentire ai visitatori tante voci diverse, perché le ricostruzioni migliori credo siano quelle che emergono da una combinazione di punti di vista, che fanno venir voglia di andare ancora più a fondo”.
Il dietro le quinte dell’operazione è un lavoro di ricerca pluriennale, che risale agli anni Settanta ma, continua Pupo, “i risultati non sono mai usciti dal circolo ristretto degli studiosi, perché l’argomento non era amato, era sostanzialmente un tabù. La coscienza storica collettiva non si ritrovava”. Nella pratica, l’allestimento è «un miracolo per la celerissima realizzazione», si parla di un paio mesi di intensissima organizzazione, concretizzatasi pienamente negli intenti. “Fare una mostra sui crimini italiani sarebbe stata la cosa più facile, ma noi abbiamo scelto di spiegare cosa è stata l’occupazione italiana in uno scenario, quello jugoslavo, complicatissimo. Parliamo di fatti e contestualizzati. E, a fronte della violenza, c’è anche l’altra faccia della medaglia: ci sono le truppe italiane che salvano la popolazione serba nei territori dello stato indipendente croato e che salvano gli ebrei, che non vengono consegnati ai tedeschi, ma portati nell’isola di Arbe”.
Venendo a noi – E dopo la guerra? “Il movimento di liberazione jugoslavo – riprende lo storico – nel ’45 si è ormai trasformato nello Stato, nel regime comunista. E agisce come nelle altre parti della Jugoslavia, quando libera i territori dai nazisti: elimina i nemici del popolo, ovvero tutti coloro che si sono opposti o si potrebbero opporre al regime, dunque in primo luogo i fascisti, poi tutti i rappresentanti del potere italiano, nelle istituzioni, nella politica e nella società e, ancora, coloro che non condividono il progetto annessionista,anche se sono antifascisti, come ad esempio i membri dei comitati di liberazione nazionale».
Un territorio sanguinante, a più riprese. Precisa Pupo che «Dalla tarda dominazione asburgica all’inizio degli anni ’60 si possono individuare due picchi di violenza, una stagione delle fiamme e una stagione delle stragi; la quota di violenza crolla alla fine degli anni ‘50. La stagione delle fiamme va dal maggio ‘15, vigilia dell’entrata in guerra, fino al dopoguerra, ’22; dei soggetti che praticano violenza, i fascisti non sono i primi, ma sono gli ultimi. La stagione delle stragi si innesca dal ‘ 41 e parte dal territorio jugoslavo; stragismo è risoluzione tramite eccidi: un linguaggio che diventa drammaticamente comune fra tutti i contendenti e che non termina col cessare delle ostilità, anzi, raggiunge il parossismo nella primavera del ‘45. La violenza diviene funzionale al consolidamento del nuovo ordine, “violenza di stato”. Rispetto a quella nazista, quella titina non ama l’ostentazione, preferisce il silenzio della sparizione, lasciando i rimasti nell’incertezza”.
Sull’altro lato dell’Adriatico, nell’autunno del 1944, dopo aver appreso che la Jugoslavia sta raccogliendo prove di accusa contro i criminali di guerra italiani, il governo di Roma inizia a costruire a sua volta una controdocumentazione, finalizzata non a valutare la fondatezza delle accuse, ma a provare la reciprocità, reperendo prove dei crimini commessi da parte jugoslava ai danni degli italiani, con riferimento sia alle violenze contro le forze italiane di occupazione nel periodo 1941-43, sia a quelle perpetrate contro civili e militari italiani dopo il 1943 (le foibe). Una sezione della mostra è dedicata proprio a questi fatti, che portano alla compilazione di due dossier, inviati a Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia per ottenere appoggio politico-diplomatico sulla questione. Nel 1946 l’Italia stila una lista di criminali di guerra jugoslavi, con in testa il maresciallo Tito e tutti i suoi più stretti collaboratori, incolpati di sevizie, uccisioni indiscriminate, scempio di cadaveri e, addirittura, cannibalismo.
Le autorità jugoslave, dal canto loro, denunciano 3.798 italiani alla Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra (United Nations War Crimes Commission), la quale ne iscrive 729 nelle sue liste. Dopo l’entrata in vigore del trattato di pace italiano nel 1947, Belgrado chiede direttamente a Roma la consegna di 45 criminali di guerra, tuttavia il governo Badoglio elabora subito una strategia per evitarne l’arresto, basata su quattro punti:
processare i criminali di guerra italiani presso tribunali italiani;
rivendicare il carattere umanitario dell’occupazione italiana;
distinguere la condotta italiana da quella brutale dei tedeschi;
colpevolizzare i partigiani (specie quelli comunisti) per l’imbarbarimento della guerra.
Condivisa anche dai governi italiani di unità nazionale antifascista (1944-1947), tale strategia raccoglie pieno successo e nessun criminale italiano sarà consegnato alla Jugoslavia. Scatta il meccanismo di rimozione. Per la cronaca, nel 2008 il giudice Sergio Dini ha chiesto alla magistratura militare di riaprire i processi contro i criminali di guerra italiani, non più ostacolati dall’art. 165 del codice penale militare di guerra, nel frattempo abolito. Il procuratore militare Antonino Intelisano ha aperto un’inchiesta contro ignoti ma, verificato che tutte le persone nella lista erano decedute, l’ha chiusa nell’ottobre 2010, non emergendo “spunti investigativi” per procedere ad ulteriori accertamenti.
Per arrivare ad oggi, quel trattato di pace del 1947 costituisce il TLT/Territorio Libero di Trieste; Gorizia viene attribuita all’Italia (va specificato che il confine con l’attuale Slovenia taglia in due la città), Pola e l’Istria alla Jugoslavia. Nel 1954 il Memorandum di Londra dissolve il TLT e Trieste passa sotto l’Italia. Il Trattato di Osimo del 1975 ufficializza le rispettive sovranità, italiana e jugoslava. Dopo la disgregazione della Federazione jugoslava (1991) nascono gli Stati indipendenti di Croazia e Slovenia e nuovi confini nazionali. In tale processo, non è mancata la declinazione violenta, che, realisticamente, ci conferma che la storia rimane il più delle volte maestra inascoltata davanti ad una umanità sorda, che conosce, ma non applica gli ammonimenti donati dal passato. Negli auspici degli organizzatori, la mostra rimarrà on-line sine die: per chi sordo o cieco non vuol rimanere.