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31.08.22 La violenza che ci sommerge: Noi sappiamo
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2.11.21 Ferrara, aggressione omofoba contro un gruppo di giovani Lgbt. "Mussolini vi brucerebbe tutti"
16.08.21 Aggressione omofoba ad Anzio, 22enne preso a pugni mentre passeggia insieme al fidanzato
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manifestazioni MANIFESTAZIONI E INIZIATIVE ANTIFASCISTE
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30.01.23 Il neofascista Roberto Fiore smentito dall’Interpol: “Viveva con Gilberto Cavallini”
25.01.23 L’ex camerata in affari con Fratelli d’Italia e le bastonate ai carabinieri
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18.11.22 Quel filo che dall’Ordine di Hagal arriva a CasaPound
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16.09.22 L’Europa nuovamente alle prese con l’avanzata dell’estrema destra
15.09.22 Ultradestra, la galassia nera torinese messa in crisi dall’ascesa di Meloni
10.09.22 Sette decenni di collaborazione nazista: Il piccolo sporco segreto dell'America in Ucraina
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Informazione Antifascista 1923
Gennaio-Febbraio - a cura di Giacomo Matteotti ·


pubblicato il 13.06.22
13 giugno 1944 eccidio nazifascista di Forno
·
La strage di Forno è stato un eccidio nazifascista avvenuto nell'omonima frazione del comune di Massa il 13 giugno 1944. Nel corso del massacro, perpetrato da reparti dell'esercito tedesco e dai militi fascisti della Xª MAS al comando di Umberto Bertozzi che si distinse per crudeltà e accanimento, furono uccise sessanta persone. Il fatto fu una spietata rappresaglia per la precedente occupazione del paese e la proclamazione della “Repubblica libera di Forno” da parte di partigiani avvenuta il 9 giugno 1944.[1]
Indice

1 Antefatti
2 Il massacro
3 Monumenti e omaggi
4 Bibliografia


Antefatti

Nei primi giorni di giugno 1944 la Resistenza apuana mal interpretò un messaggio di Radio Londra, che in realtà annunciava l'imminente liberazione di Roma, fraintendendolo come la notizia di uno sbarco alleato in Versilia[2]. Decisi quindi a conquistare posizioni i partigiani della formazione "Luigi Mulargia", guidati da Marcello Garosi "Tito", scesero dalle loro posizioni sulle Alpi Apuane ed il 9 giugno occuparono il paese di Forno, situato nell'alta vallata del Frigido.

I comandi della "Mulargia" s'insediarono nella caserma dei Carabinieri, che dal canto loro non si opposero all'arrivo dei partigiani, mentre il resto della formazione si acquartierò nei locali della filanda. La conquista di Forno, vissuta dalla popolazione locale come una liberazione con tanto di tricolori esposti alle finestre, fu il trampolino poi per una serie di azioni dimostrative a Massa. Queste incursioni spinsero alcuni reparti fascisti di stanza in città a disertare e ad unirsi alla Resistenza. All'entusiasmo iniziale si affiancò ben presto la consapevolezza dell'inconsistenza della notizia dello sbarco alleato in Versilia e di una reazione nazifascista contro Forno. Il CLN toscano aveva così iniziato a far pressione sui partigiani stanziati a Forno affinché si ritirassero sui monti circostanti. Dal canto loro gli uomini della "Mulargia", in vista di una probabile controffensiva nazifascista, avevano preso contatti con un'altra brigata attiva in zona, la "Silvio Ceragioli", che aveva minato un costone roccioso a Canevara, in modo tale da precludere il passaggio sud ad una colonna nemica. Per prevenire eventuali attacchi da Carrara venne poi allestito un presidio armato a Vergheto, un piccolo abitato posto sulle montagne ad ovest di Forno. L'ordine di una ritirata partigiana precauzionale da Forno non venne emanato alla mattina del 13 giugno, giorno di Sant'Antonio, patrono del paese.

Il massacro

All'alba del 13 giugno, una colonna nazifascista composta dagli uomini della 135ª brigata da fortezza tedesca, comandati dal colonello Kurt Almers[2], supportati da elementi della Kriegsmarine, e dai militi della compagnia "O" della Xª MAS guidati dal tenente Umberto Bertozzi, attaccò Forno con una manovra a tenaglia[3]. I tedeschi, forti di una colonna di autoblindo, giunsero da Massa mentre i fascisti avevano lanciato il loro attacco da Colonnata e passando dal valico di Vergheto, dove il presidio partigiano lì presente si era inspiegabilmente assentato. Nonostante le contromisure, rivelatesi poi del tutto inefficaci, le due colonne degli assalitori riuscirono a circondare Forno verso le 6:30 del mattino ingaggiando poi un duro scontro a fuoco con i partigiani che nel frattempo si erano asserragliati nella filanda. Nella battaglia rimasero uccisi nove uomini della "Mulargia" compreso il comandante Garosi il quale, rimasto senza munizioni, preferì suicidarsi pur di non cadere in mani nemiche. Il resto della formazione tentò di sganciarsi ritirandosi precipitosamente sulle montagne. Alle 8:30 del mattino i nazifascisti avevano così ripreso il controllo di Forno. Successivamente avviarono un meticoloso rastrellamento casa per casa durante il quale rimasero uccisi una donna ed un bambino.

Dopo aver radunato gli abitanti del villaggio e lasciato da parte donne e anziani, i nazifascisti imprigionarono nella caserma dei Carabinieri una sessantina di uomini, sospettati di essere partigiani grazie alla delazione di una spia. Nelle ore successive i prigionieri furono condotti a piccoli gruppi fuori Forno, presso la chiesa di Sant'Anna, e qui, lungo il greto del Frigido, vennero giustiziati dai fascisti a raffiche di mitra[2]. Tra le vittime del massacro vi era anche il comandante della stazione dei Reali Carabinieri Ciro Siciliano, che invano aveva cercato di salvare gli abitanti da rappresaglie ed era stato accusato dai fascisti di complicità con i partigiani. A massacro compiuto i nazifascisti bruciarono anche la caserma dei Carabinieri, all'interno della quale perirono altre due persone rimaste chiuse nelle camera di sicurezza.

Cinquantuno civili furono poi avviati nei campi di concentramento in Germania.

Monumenti e omaggi

Sul luogo dell'eccidio, lungo le rive del Frigido, è stata eretta una piccola croce in marmo[4]. A pochi metri, lungo la strada che conduce a Massa. è stato eretto un memoriale per le Vittime[5], i cui resti riposano in un apposito sacrario nel cimitero di Forno[6]. Sul luogo dove Marcello Garosi si uccise per non cadere prigioniero è stato realizzato un memoriale[7], mentre sulla scuola di Forno è stata scoperta una lapide che ricorda Garosi[8],

Marcello Garosi fu insignito con la medaglia d'oro al valor militare alla memoria. Ciro Siciliano venne insignito nel 2005 con la Medaglia d'oro al merito civile,[9] accusato di collaborazionismo con le bande partigiane[10] per aver consegnato ai partigiani la caserma dei carabinieri e avervi fraternizzato.[11]

^ comune.massa.ms.it - "La strage di Forno ed il suo contesto storico" (PDF), su comune.massa.ms.it. URL consultato il 21-04-2014 (archiviato dall'url originale il 22 febbraio 2014).

Bibliografia

R. Fruzzetti - A. Grossi - M. Michelucci, Forno 13 giugno 1944 - Storia di un eccidio, Ceccotti, 1994.
Aldo Cazzullo, Viva l'Italia - Risorgimento e Resistenza: ecco perché dobbiamo essere orgogliosi della nostra nazione, Mondadori Editore, 2010.
Ricciotti Lazzero, La Decima Mas, Rizzoli Editore, 1984.
Gianluca Fulvetti, Francesca Pelini, La politica del massacro:per un atlante delle stragi naziste in Toscana, L'Ancora del Mediterraneo, 2006.
Valeria Galimi, Simone Duranti, Roger Neil Lewis Absalom , Valerio Romitelli, Le stragi nazifasciste in Toscana 1943-45: Guida archivistica alla memoria, gli archivi tedeschi, Carocci, 2003.
Federico Maistrello, La X Mas e l'Ufficio «I». Violenza tra le province di Treviso e Pordenone (1944-1945), ISTRESCO, 2018.
Carlo Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia: 1943-1945, Torino, Einaudi, 2015.

https://it.wikipedia.org/wiki/Strage_di_Forno



La strage di Forno ed il suo contesto storico

(1)
Premessa
Ancora nella primavera del 1944 la “situazione politica generale” delle province di Lucca e Apuania veniva valutata in termini positivi dalle fonti tedesche: in un rapporto relativo al mese di aprile si scriveva che “la maggior parte della popolazione mantiene un atteggiamento tranquillo”, pur disinteressandosi della condotta della guerra(2); in quello di maggio si evidenziava un’intensificazione del movimento partigiano, che tuttavia non aveva “disturbato la pace del lavoro né interrotto l’attività lavorativa”, ma già si notava che “vasti strati della popolazione attendono una prossima invasione delle forze anglo-americane”(3). A partire dal mese di giugno, viceversa, si registra una nuova fase, aperta dalla presa di Roma, dall’avanzata alleata e dall’invasione della Francia: “Sotto la pressione di questi avvenimenti la gente si è già preparata alla prossima occupazione anglo-americana in questa regione [...] La grande maggioranza della popolazione simpatizza palesemente con gli avversari sotto l’effetto del ripiegamento tedesco, dell’irritazione nei riguardi del fascismo e della propaganda inglese. Tale simpatia è totale [...] L’attività delle bande ha assunto a volte l’aspetto di ribellione aperta, con attacchi a mezzi di trasporto dell’esercito tedesco e cose del genere”. Il rapporto faceva riferimento al recente “passaggio ai ribelli” degli appartenenti al distretto militare di Massa (quello avvenuto nel corso dell’occupazione partigiana a Forno, della quale parlerò in seguito), segnalava uno sgretolamento delle unità militari italiani, ed un rafforzamento della lotta alle bande, “condotta con la necessaria durezza” sia in provincia di Lucca che in quella di Apuania, “con l’impiego di un’unità della Wehrmacht e di un battaglione rinforzato delle SS(4).
Nei mesi precedenti, più che la lotta alle bande, le tematiche principali erano state l’evacuazione forzata della popolazione dal fronte di guerra e il reperimento di forza lavoro, e il cinismo con il quale venivano trattate ci mostra che le esigenze dei civili non rientrassero certo fra gli elementi che potessero condizionare le decisioni strategiche dei comandi tedeschi: “l’impegno prevalente dell’Amministrazione è attualmente l’evacuazione della zona costiera”, si può leggere in un rapporto del 14 aprile 1944; “Finora è stata ordinata l’evacuazione di Marina di Pisa e di Viareggio(5)”. E nel rapporto successivo si ribadiva che “l’evacuazione delle zone costiere ha continuato ad essere il cardine dell’attività amministrativa”, e si forniva la cifra di 14.000 evacuati fino ad allora da Viareggio, Marina di Pisa e Gombo. Inoltre si affrontava il problema, cruciale per i tedeschi, della manodopera: nessuno rispondeva alle precettazioni degli uffici del lavoro, tanto che “da tutta la regione dipendente dal Comando che conta 1.450.000 abitanti vengono messe a disposizione per l’impiego della manodopera nel Reich solo 110 persone all’incirca”. Il rapporto proseguiva chiedendo “una carta di riconoscimento per il lavoro” e “una polizia del lavoro efficiente(6)”, al fine di usare metodi costrittivi: in pratica un sistema di polizia generalizzato che considerasse la popolazione civile nel suo complesso esclusivamente una fonte da sfruttare per le esigenze del Reich.
Dalla metà di giugno la lotta alla bande si impone invece come l’elemento decisivo: con l’avanzata alleata verso Nord dopo la presa di Roma, cominciarono a moltiplicarsi gli ordini ed in proclami draconiani di Kesselring sulle misure da adottare per combattere le bande (quello “fondamentale”, che contiene la cosiddetta clausola dell’impunità per i comandanti che nella scelta delle misure antipartigiane eccedessero “la tradizionale moderazione” dei tedeschi è del 17 giugno).
Per quanto riguarda il fronte tirrenico, intorno a tale data affluiscono presso i comandi sempre più frequentemente le relazioni allarmanti delle unità tedesche nella zona, fino a rilevare, in un rapporto del 18 giugno, che “l’approvvigionamento [delle bande] ricco e buono è procurato dalle campagne e anche donne e bambini portano cibo [...] A Roccastrada vi sono solo bambini, donne e vecchi ... il resto è alla macchia. A nord di Roccastrada sono da prevedere nuovi attacchi(7)”. Sono poche frasi, che rappresentano una tragica prefigurazione di quell’identificazione di bambini e donne come supporti logistici dei partigiani, e quindi persone da eliminare, che verrà evidenziata da alcuni dei più atroci massacri tedeschi.

I partigiani
L’avvio della resistenza in questa, come in altre zone, fu piuttosto stentato: piccoli gruppi di antifascisti e sbandati dell’ex esercito si ritrovarono in zone impervie, prendendo contatti con gli antifascisti rimasti nei paesi, e cercando di realizzare un qualche collegamento tra di loro. Un gruppo di uomini, chiamati in seguito “Cacciatori delle Apuane”, si raccolsero nella zona di Ruosina (Seravezza) attorno al sottotenente di aviazione Gino Lombardi(8): questi, del 1920, originario di Querceta, studente dell’Università di Pisa, era sfollato con la famiglia di origine a Ruosina ai primi di settembre. Antifascista per tradizione famigliare (il padre era socialista), proveniva dall’Azione Cattolica, e il suo gruppo si caratterizzava per la varia appartenenza politica dei suoi uomini, tanto da suscitare diffidenze in altri comandanti partigiani delle zone contermini, di più netto orientamento comunista(9). La formazione, originariamente composta di una decina di persone, si rafforzò dopo i vari bandi di chiamata alle armi da parte della Repubblica Sociale Italiana, che fecero crescere il numero di renitenti che si recavano ai monti, ed arrivò a comprendere più di venti elementi.
Le prime azioni furono l’assalto alla casa del fascio di Seravezza il 10 novembre e al palazzo comunale dello stesso paese il 6 dicembre, per impadronirsi di un ciclostile. A fine gennaio si unì alla formazione Lorenzo Bandelloni, un fante della Divisione Sassari rientrato il 23 gennaio dalla Jugoslavia, dove aveva avuto una breve esperienza con i partigiani di Tito(10): mandato dal CLN stazzemese, si occupò del “vettovagliamento degli uomini nascosti sui monti tra il Gabberi e Farnocchia”. Problema delicato quest’ultimo, data la scarsità di risorse alimentari, ma fondamentale perché dai buoni rapporti con i contadini, e più in generale con le popolazioni, dipendeva in ogni modo la possibilità riuscire a mantenere alla clandestinità molti uomini. “Gravi erano i problemi, soprattutto alimentari, per una formazione militare sulle Alpi Apuane”, riporta la relazione della brigata(11). Il primo lancio alleato avvenne alla Foce di Mosceta alla fine di febbraio, ma le difficoltà di approvvigionamento continuarono, tanto che nel mese di aprile i partigiani dovettero rapinare lo spaccio della cooperativa di consumo di Pontestazzemese.
Da marzo si intensificarono i rastrellamenti da parte della Guardia Nazionale Repubblicana, che raggiunsero l’acme nel mese di aprile. La Resistenza era in questo periodo e in queste zone ancora una questione prevalentemente fra Italiani, partigiani combattenti da un lato e fascisti repubblicani dall’altro: anche se questi ultimi avevano l’appoggio tedesco, conducevano comunque in prima persona le operazioni contro i “ribelli”. La formazione di Lombardi il 17 aprile sul monte Gabberi dovette subire un duro rastrellamento di Guardia Nazionale Repubblicana e uomini della X Mas: ancora disorganizzata sul piano militare, cresciuta troppo negli ultimi tempi in relazione alle sue capacità organizzative e di armamento, riuscì a sganciarsi perdendo un uomo, Luigi Mulargia.
Quindi i fascisti occuparono Farnocchia e interrogarono vari uomini, sospettati di collaborare con i partigiani. Il 21 aprile Gino Lombardi e Piero Consani, il suo vicecomandante, furono uccisi in uno scontro a fuoco con i fascisti a Sarzana, dove erano andati, sembra per preparare il trasferimento degli uomini verso l’Alta Lunigiana (si salvò il sottotenente di fanteria Ottorino Balestri, che sarebbe diventato poi comandante di una formazione)(12).
I “Cacciatori delle Apuane” si sciolsero: una parte passò con Marcello Garosi, “Tito”, e Giancarlo Taddei, “Beppe”, studente in medicina di Pisa da tempo in contatto con Garosi. Garosi, nato a Firenze il 27 marzo 1919, di estrazione borghese, sottotenente dei bersaglieri, sposato e con un giovane figlio, dopo l’8 settembre 1943 era sfollato nel comune di Massarossa (Lucca), e fu uno dei primi organizzatori della guerriglia partigiana in Versilia. Di orientamento comunista, in contatto con il Comitato di Liberazione Nazionale di Viareggio, ai primi di maggio del 1944 organizzò una formazione partigiana alla “Casa Bianca” sul monte Prana.
La maggior parte degli uomini dei “Cacciatori delle Apuane” si raccolsero attorno a Lorenzo Bandelloni, che li guidò nella zona di Monte Cavallo, vicino a Seravezza, per mantenere i contatti con il CLN di quel paese, che lo sosteneva con contatti e rifornimenti(13). A lui si unì un gruppo capitanato dal viareggino Guido Vannucci. Sul monte Cavallo ricevevano i lanci tramite Radio Rosa, la radiotelegrafista Vera Vassalle, giovane insegnante viareggina che il 14 settembre 1943 aveva lasciato la sua città, era riuscita a passare la linea del fronte e, addestrata come agente dell’ Office of Strategic Services (OSS) statunitense, era rientrata il 19 gennaio a Viareggio con un
apparecchio radiotrasmittente: “ero l’unico che riusciva ad ottenere i lanci”, ricorderà in seguito Bandelloni(14).
Per impulso del Comitato di Liberazione Nazionale di Viareggio il gruppo di Garosi (circa una ventina di uomini), che era stata intitolato a “Luigi Mulargia” (il patriota sardo caduto in combattimento sul monte Gabberi il 17 aprile), il 6 maggio 1944 si spostò verso la Lunigiana, dove contava di unirsi al gruppo comandato da Domenico Azzari: questi, nativo di Casola, al confine fra Lunigiana e Garfagnana, già radiotelegrafista della marina militare, il 23 ottobre 1943 era stato paracadutato dagli alleati con una radiotrasmittente nella sua zona d’origine, ed insieme al cognato, Sante Marini, detto “Angiolino”, aveva organizzato un gruppo partigiano e un campo di lancio nella zona di Mommio(15).
Il gruppo di garosi, al quale durante lo spostamento si unì un nucleo di uomini stanziato sulla Fania, presso Stazzema, e comandato da Aristodemo Pierotti “Pelle”, non arrivò mai in Lunigiana, a causa di un rastrellamento in corso in quella zona (si veda sotto nel testo); il 10 maggio in uno scontro con una pattuglia della Guardia Nazionale Repubblicana, presso il cimitero di Gorfigliano, una frazione di Minucciano, in Alta Garfagnana, cadde il ventunenne Silvio Ceragioli, ed il 12 maggio, consigliato dal CLN di Minucciano, Garosi condusse i suoi uomini in località Fania, dove il 13 maggio si unì al gruppo di Bandelloni e Vannucci, dando vita ad una nuova formazione, forte di un centinaio di uomini e intitolata sempre a Luigi Mulargia, con Marcello Garosi “Tito” comandante, Guido Vannucci vicecomandante, Giancarlo Taddei commissario politico. “Lorenzo Bandelloni, essendo il migliore conoscitore dei luoghi e degli abitanti della zona, fu addetto agli approvvigionamenti”(16). La formazione si spostò quindi al Campaccio, sopra Altagnana, dove entrò in contatto col Comitato di Liberazione Nazionale di Massa, che vi fece confluire un gruppo di partigiani comandati Alfredo Gianardi “Vico”.
Dopo un attacco il 16 maggio ad Altagnana, nel corso del quale fu ucciso un fascista locale e furono feriti il comandante ed il vicecomandante della formazione, questa si spostò, per sfuggire al successivo rastrellamento, e fissò la sua base agli Alberghi, sopra il paese di Forno, alle pendici del monte Contrario. Qui trovò un gruppo di partigiani di Forno,comandato da Nando Pegollo, che si unì alla “Mulargia”(17). Anche Bandelloni, che operava in pianura con un piccolo gruppo per gli approvvigionamenti, il 4 giugno trasferì i suoi uomini con una marcia di 48 ore nella zona di Forno, alle porte di Massa, per l’annuncio di un rastrellamento fra il Tambura e il Cavallo di Seravezza. Al suo gruppo si era aggregato Ottorino Balestri, un ex ufficiale che, lo abbiamo visto, aveva già collaborato con Gino Lombardi, e si erano uniti molti disertori di un reparto della X MAS di Pietrasanta. Alla “Mulargia” il 4 giugno si unì infine anche la banda di Casette, che prese il nome di distaccamento “Silvio Ceragioli”, in memoria del partigiano della formazione di “Tito” ucciso in combattimento il 10 maggio 1944.
Si era venuto così a creare un gruppo consistente, meglio organizzato rispetto ai primi conati di resistenza armata, e con collegamenti con vari Comitati di Liberazione Nazionale, sia pure di diverso orientamento (Massa, con una prevalenza di cattolici, e Viareggio, dove la forza dominate era quella dei comunisti).
Il 7 giugno un gruppo partigiani della “Mulargia”, con il vicecomandante Guido Vannucci, assalì i magazzini della Todt a Vinca. Vinca era indubbiamente in posizione strategica: la Todt aveva progettato di costruirvi una strada che proseguendo quella che proveniva da Monzone scavalcasse le Apuane, ed erano intensi, “durante la lotta di liberazione, i contatti tra i vari versanti”(18). Sembra che i lavori per la strada e le altre fortificazioni procedessero lentamente per lo scarso impegno degli appaltatori delle opere, e questo avesse creato nei tedeschi committenti il sospetto che il ritardo nelle opere che ne conseguì “fosse imputabile a colpevoli intelligenze fra impresari e maestranze per attuare una occulta premeditata azione di sabotaggio”(19). I partigiani attaccarono l’accantonamento dei militari tedeschi e catturarono cinque uomini, quindi quello dei militari italiani addetti alla vigilanza del magazzino viveri: nel conflitto che ne seguì, rimasero uccisi due sottufficiali italiani ed un soldato tedesco(20). Impadronitisi di numerose armi e viveri, i partigiani avevano costretto i prigionieri a portarle fino ad una località vicino a Forno, e quindi li avevano liberati. Il 9, forti dell’armamento conquistato, avevano quindi occupato Forno(21).

Forno

Fino alla fine di giugno, due furono gli episodi di lotta alle bande che coinvolsero la popolazione civile: gli eccidi di Mommio, in comune di Fivizzano, e quello di Forno, in provincia di Massa(22).
Gli episodi di Mommio e Sassalbo di Fivizzano si inseriscono in una vasta operazione di rastrellamento da parte di reparti tedeschi, coadiuvati da truppe della Guardia Nazionale Repubblicana, della X Mas e di “Mai morti”, provenienti da Massa, La Spezia e Reggio Emilia, in una zona strategica, vicina al valico appenninico del Cerreto e alla statale della Cisa. La resistenza qui era sempre più minacciosa, alimentata dagli aviolanci eseguiti nel vicino campo di Massicciana, rafforzata – negli armamenti e nella reputazione - da azioni importanti (il disarmo del presidio del Cerreto e le frequenti incursioni sulla statale 63 appena fuori Fivizzano) e con ogni probabilità amplificata agli occhi dei tedeschi dalle delazioni dei fascisti locali. La notte fra il 4 e 5 maggio, circa 2mila uomini divisi in tre colonne provenienti da Massa, La Spezia e Reggio Emilia attraverso il Passo del Cerreto, circondano la Valle del Rosaro. Si tratta di tre compagnie dei battaglioni 905 e 906, del Reparto esplorante della “Göring” e di alcune unità fasciste, al comando del colonnello Almers, comandante della 135a Brigata da Fortezza della Wehrmacht. I centri di Mommio e Sassalbo sono stretti con manovra concentrica.
I partigiani di Sassalbo, guidati dal comunista Almo Bertolini, “Oriol”, riescono a sganciare verso il monte La Nuda, risparmiato dal rastrellamento, mentre gli abitanti riescono a sfuggire al rastrellamento, una parte riparando nei boschi del monte Casarola, un’altra parte fuggendo attraverso le valli del Taverone e del Lucido. Pare poi che l’abitato riesca a scampare alla devastazione perché trovato libero da qualsiasi traccia di presenza partigiana. A Mommio, invece, la formazione del Marini è sorpresa dai tedeschi e sgancia troppo tardivamente, lasciando alcuni suoi uomini nelle mani dei tedeschi. Il ritrovamento nelle case di Mommio del materiale di un lancio caduto nella notte precedente viene considerata dai tedeschi una prova della connivenza del paese con la resistenza e decreta la condanna a morte dei suoi abitanti: i civili sono rastrellati, poi in parte deportati nel campo di Marinella, tappa intermedia del viaggio verso la Germania, in parte fucilati nella piazza del paese insieme ai partigiani catturati, in parte uccisi nelle campagne circostanti. 70 case sulle 72 esistenti sono distrutte. Una testimone ricorda che nei giorni precedenti il paese “aveva un’aria di festa, anche i bambini avevano al collo il fazzoletto rosso e giocavano ai partigiani”, e descrive una “piccola repubblica partigiana”(23): insomma il mancato rispetto delle più elementari norme di sicurezza fu pagato a caro prezzo.
Il rastrellamento prosegue ancora per alcuni giorni, mietendo altre vittime fra gli inermi contadini della zona. In particolare a pochi chilometri dal paese, presso la casa cantoniera del valico del Cerreto, vengono fucilati due partigiani e cinque civili. Complessivamente sono 21 le vittime del ciclo operativo, fra partigiani e civili, tutti uomini dai 22 ai 50 anni (tranne un anziano di 68 anni)(24).
Un mese dopo, il 9 giugno, Forno, frazione di Massa, fu occupato dai partigiani della “Mulargia”, nell’aspettativa di un imminente arrivo degli alleati, suscitata anche da una cattiva interpretazione di due radiomessaggi di Radio Londra, annuncianti un aviolancio e, così almeno si credette, uno sbarco alleato fra Viareggio e Marina di Carrara (l’aviolancio effettivamente avvenne, lo sbarco ovviamente no). La voce di uno sbarco imminente non era nuova: già in un rapporto della Militärkommandatur 1015 dell’11 maggio 1944 si scriveva: “Da dichiarazioni di prigionieri siamo venuti a sapere che sarà prossimo uno sbarco a sud di Livorno, presso Viareggio e Forte dei Marmi”(25).
Tuttavia l’andamento generale delle operazioni belliche in quei giorni poteva in effetti giustificare una simile aspettativa: subito dopo la liberazione di Roma, il 6 giugno il fronte si mosse con grande velocità, e i Tedeschi apparivano in seria difficoltà. La loro ritirata sembrava sul punto di trasformarsi in una rotta, mentre non era ancora approntata la linea difensiva che verrà chiamata Linea Gotica, o Linea Verde. Il generale Alexander, comandante in capo delle armate alleate in Italia, inviava un messaggio ai “patrioti dell’Italia occupata” che poteva sembrare il preannuncio della spallata finale all’esercito tedesco: faceva “appello a tutti i patrioti d’Italia d’insorgere compatti contro il comune nemico [...] Ove questi tenti di sottrarsi o attenuare la battaglia di annientamento, faccio appello a voi tutti affinché lo colpiate con le mie truppe che avanzano. Fate tutto quanto è in vostro potere per intralciare i movimenti del nemico, aggravare la confusione [...]
La liberazione d’Italia si sta attuando per la vostra causa; collaborate con me: insieme noi raggiungeremo la vittoria”(26). Nella notte fra l’8 e il 9 giugno venne trasmesso un altro radiomessaggio del generale ai “patrioti [...] che si trovano fra le nostre truppe avanzanti e la linea Pisa-Rimini”, chiamata dai Tedeschi “Linea dei Goti [...] Fate tutto quanto è possibile per distruggere, ritardare, ingannare il nemico con tutti i mezzi da voi adottati [...] L’ordine è di molestare le truppe tedesche e di ostacolarne i trasporti in particolare. Per le zone suddette il comando è: uccidere i Tedeschi, distruggere i loro trasporti in tutte le maniere [...] Istruzione valida per tutti i patrioti, è: uccidete i Tedeschi, distruggete i loro materiali(27)”.
I partigiani della “Mulargia” ritennero imminente l’arrivo degli alleati, ed occuparono Forno, utilizzandolo come avamposto verso la città di Massa. Fissarono il comando nella caserma dei carabinieri, occuparono la Casa del fascio e l’edificio della filanda, lo Stabilimento di Filatura del Cotonificio Ligure, che aveva cessato la produzione nel 1942. Erano circa 200-300, ma poco armati, e, secondo alcune testimonianze, proclamarono “la Repubblica libera di Forno(28)”. Essi non fecero niente per non farsi notare: oltre ad arrestare i fascisti locali, convocarono a Forno il Direttore delle carceri, per chiedergli di liberare alcuni detenuti, ed un noto fascista massese, al quale fu richiesto un contributo finanziario per la resistenza. Attaccarono un camion della X Mas proveniente da La Spezia, si spinsero fino a Massa dove attaccarono una caserma delle brigate nere, il distretto militare e una caserma dell’esercito repubblicano, provocando la diserzione di tutti i militari che vi erano acquartierati, arrestarono alcuni fascisti, sequestrarono il figlio del capo guardia delle carceri di Massa, contrattandone la liberazione con quella di 11 prigionieri politici. A Forno giunsero anche, fin dalla provincia di Lucca, soldati delle forze armate fasciste repubblicane che avevano disertato.
Il CLN di Massa, resosi conto dell’azzardo commesso dalla formazione, ordinò a più riprese l’evacuazione del paese, inviando a Forno suoi esponenti di varie parti politiche, il 10, l’11 ed il 12 giugno. In quest’ultimo giorno tuttavia in paese molti comandanti si riunirono con il pisano Olivero Tilgher, comunista, rappresentante militare del CLN toscano, per confermare Marcello Garosi “Tito” comandante unico delle varie formazioni del massese e della Versilia (e probabilmente decidere il riposizionamento della formazione in Versilia). Gino Briglia, mandato in quel giorno a Forno dal CLN di Massa, non fu fatto entrare, e per parlare con Garosi dovette farlo chiamare fuori della Casa del fascio dove era in corso la riunione(29).
Il 12 mattina Bandelloni fu inviato sul monte Cavallo in attesa di un lancio, e partì con pochi uomini, affidando il grosso della formazione a Ottorino Balestri. Il 13 giugno era la festa di S.Antonio, patrono di Forno, e forse ciò può aver ritardato la ritirata dal paese, che era stata ormai decisa. Ma all’alba di quel giorno truppe della X Mas e tedesche di stanza a La Spezia, probabilmente inviate dallo stesso ufficiale che aveva diretto il rastrellamento di Mommio e Sassalbo(30), attaccarono il paese, cogliendo di sorpresa i partigiani, e conquistandolo dopo alcuni combattimenti, nel corso dei quali trovò la morte anche “Tito”, il comandante della formazione, su un basamento di roccia in località “Pizzo Acuto”, di fronte alla filanda(31). Furono quindi selezionati gli uomini presenti in paese (forse con l’aiuto di una spia che si era infiltrata nei giorni precedenti): 51 di essi, disertori del distretto di Massa, sfollati, abitanti di Forno, furono deportati in Germania.
Gli uomini sospettati di essere partigiani furono invece rinchiusi e fucilati la sera del 13 giugno sulle sponde del fiume Frigido, sotto la chiesetta di S. Anna. 68 furono le vittime: 56 furono fucilate, 2 perirono nel rogo della caserma, 10 negli scontri e nel rastrellamento (fra di esse una donna, colpita all’interno della propria abitazione, ed un bambino di 9 anni)(32).
Fra i giustiziati vi fu anche il comandante della caserma dei carabinieri Ciro Siciliano: nato a Portici nel 1908, aveva sposato Anna Pegollo, appartenente ad una famiglia di antifascisti e sorella del partigiano “Naldo”. Il 9 giugno 1944 il maresciallo aveva accolto amichevolmente i partigiani che stavano occupando a Forno, e proprio nella caserma dei carabinieri questi avevano installato il loro comando. Il 13 giugno 1944, quando i tedeschi e i militi della X Mas fecero irruzione nel paese, Ciro Siciliano, che era in licenza di convalescenza, non era presente: avrebbe potuto quindi salvarsi, ma decise di tornare a Forno, con l’intenzione di intercedere per i suoi uomini e la popolazione civile rastrellata. Accusato di non essersi opposto all’occupazione del paese da parte dei partigiani e di avere fraternizzato con loro, fu messo anch’egli nel gruppo dei prigionieri da fucilare(33).
Durante la giornata del 13 giugno il parroco di Forno, don Vittorio Tonarelli, si adoperò, a rischio della propria vita, per salvare gli abitanti, ed in particolare i bambini dell’asilo, allora situato nell’edificio della filanda, riuscendo anche a far curare da un ufficiale medico della X Mas un bambino rimasto ferito. Non riuscì invece a salvare un partigiano ferito ai margini dell’abitato: mentre il sacerdote gli prestava aiuto, l’uomo fu scorto dai tedeschi, che lo finirono a colpi di mitra.
Deriso e insultato dal comandante dei militi italiani, il tenente della X Mas Umberto Bertozzi, che in quella giornata si distinse per crudeltà e accanimento, più volte minacciato di morte insieme alla sorella, riuscì in quel giorno di terrore a portare a termine con dignità e coraggio la sua opera di mediatore e difensore della comunità(34).
Probabilmente l’imprudente comportamento partigiano fu causato anche da un contrasto interno alla “Mulargia” fra “Tito” da un lato, e vicecomandante e commissario politico dall’altro; ha ipotizzato Roberto Torre la presenza di “impostazioni differenti tra i capi: da una parte Tito, che aveva stabilito personalmente rapporti con il CLN massese, e dall’altra personaggi come Vannucci e Beppe, vice comandante e commissario della “Mulargia”, comunisti legati al CLN viareggino, i quali forse forzarono la mano a Tito. Le continue discussioni nei giorni di Forno, le pressioni su Tito testimoniate da Del Giudice e Briglia da parte del CLN di Viareggio, lo stesso arrivo di Oliviero Tilgher, ma poi, ancor più, dopo Forno e la morte di Tito, la rottura della “Mulargia” tra chi rimase in Apuania con il CLN di Massa, uscendo dalla Brigata Garibaldi, e chi rientrò in Versilia, alle dipendenze del CLN di Viareggio e delle Brigate Garibaldi, sembrano evidenziare contrasti all’interno della formazione, che potrebbero aver posto Tito di fronte ad una situazione compiuta”(35).
Dopo quell’episodio la formazione si sciolse, una parte degli uomini aderì ai “Patrioti Apuani”, formazione autonoma di Massa comandata da Pietro Del Giudcie, un’altra alle formazioni garibaldine dipendenti dal CLN viareggino(36).

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1 Riprendo, con alcune modifiche, quanto già da me scritto in Crimini di guerra nel settore occidentale della linea gotica, in Gianluca Fulvetti e Francesca Pelini, a cura di, La politica del massacro. Per un atlante delle stragi naziste in Toscana, Napoli, l’ancora del mediterraneo, 2006.

2 Rapporto della Militärkommandatur 1015-Lucca, competente per le province di Lucca, Pistoia, Apuania, Livorno, Pisa, del 14 aprile 1944, in Istituto storico della Resistenza in Toscana, Toscana occupata. Rapporti delle Militärkommandaturen 1943-1944, introduzione di Marco Palla, Firenze, Leo S. Olschki, MCMXCVII, p. 363.

3 Ivi, p. 382.

4 Rapporto 15 giugno 1944, ivi, pp. 402-403.

5 Rapporto del 14 aprile 1944 cit., ivi, p. 365.

6 Ivi, p. 384

7 In Tamara Gasparri, La Resistenza in provincia di Siena, 8 settembre 1943 - 3 luglio 1944, Firenze, Leo S.Olschki, MCMLXXVI, p. 271.

8 Vedi gli stralci di una relazione della Brigata Garibaldi “Gino Lombardi. Ufficio Stralcio di Pietrasanta”, riportata in Giannelli, Versilia. La trappola del ’44, Querceta, Versilia oggi, 1992, pp. 24-27, 51, 53-58.

9 Vedi il suo profilo biografico ivi, p. 99.

10 Francesco Bergamini-Giuliano Bimbi, Antifascismo e Resistenza in Versilia, Viareggio, ANPI-Versilia, 1983; Giannelli, Versilia. La trappola, p. 65.

11 Ivi, p. 51.

12 Su tutta la vicenda dei “Cacciatori delle Apuane” si veda anche Roberto Torre, La resistenza nel Comune di Apuania, 1943-1945, Pontremoli, Istituto Storico della Resistenza Apuana (ISRA), 2010, pp. 92-94.

13 Bergamini e Bimbi, Antifascismo cit., p. 89.

14 In Giannelli, Versilia. La trappola cit. p. 101.

15 Su Azzari vedi Maurizio Fiorillo, Uomini alla macchia. Bande partigiane e guerra civile. Lunigiana 1943-1945, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 47-49 e passim.

16 Bergamini e Bimbi, Antifascismo cit., pp. 98-99.

17 Roberto Torre, La Resistenza cit., p. 98. Sul ferimento di Garosi, vi è anche un’altra versione, che lo vorrebbe dovuto ad un colpo partito casualmente dall’arma di un partigiano (ivi, p. 185)

18 Luciano Casella, La Toscana nella guerra di liberazione, Carrara, La Nuova Europa editrice, 1972, p. 323.

19 Memoria scritta di B. A. depositata presso il Seminario Vescovile di Massa, citata ivi, p. 321. L’autore, di Vinca, è di proclamata fede fascista.

20 All’episodio accenna anche, Lutz Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Torino, 1993., n. 131 p. 587. Il soldato tedesco sarebbe stato il magazziniere preso prigioniero e portato dai partigiani davanti alla baracca degli italiani: sarebbe stato ucciso non dai partigiani, ma dal fuoco dei due sottufficiali italiani che si rifiutarono di arrendersi, e furono uccisi dalla reazione dei partigiani (intervista di Giovanni Contini ad Angiolino Federici, 25 settembre 2001, Turano). Secondo Eliseo Federici invece sarebbe stato ucciso per sbaglio da un partigiano, russo, che non si sarebbe accorto che era già prigioniero (intervista di Giovanni Contini, 17 aprile 2000, Vinca). Nelle interviste la figura del tedesco, gentile, un “brav’uomo” che mostrava le foto della famiglia e regalava ai ragazzi il pane con la
marmellata, corrisponde ad un topos, quello del “tedesco buono”, diffuso negli episodi di strage.

21 Cito dal rapporto della G.N.R. di Apuania, in Luciano Casella, La Toscana cit., p. 159.

22 Tranne diversa indicazione, le notizie sulla strage di Mommio sono desunte dalle schede monografiche redatte per la provincia di Massa Carrara da Francesca Pelini, con la collaborazione di Maurizio Fiorillo e Claudio Manfroni, e dalle schede di Carlo Gentile sulle fonti tedesche, redatte per il gruppo toscano di ricerca nell’ambito del PRIN (progetto di ricerca di interesse nazionale) cofinanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica e dalle Università di Pisa, Bari, Napoli e Bologna “Guerra ai civili. Per un atlante delle stragi naziste in Italia” (novembre 1999-novembre 2001), coordinatore nazionale e del gruppo toscano Paolo Pezzino.

23 Cit. in Casella, La Toscana cit., p. 142.

24 Lutz Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, scrive di “un’azione in grande stile” fra il 3 e 5 maggio “nelle Alpi Apuane a occidente di Fivizzano. Sotto la guida del colonnello Almers, comandante della 135a brigata da fortezza, furono impiegati nell’azione 1900 uomini, fra cui ancora
una volta il reparto esploratori della divisione ‘Hermann Göring’ e i battaglioni da fortezza 905 e 906, appoggiati da numerosi reparti italiani (Guardia nazionale repubblicana, Guardia di finanza, X Mas, reclute della divisione San Marco)” (pp. 345-346). Tuttavia la cifra riportata, di 143 morti, appare eccessiva (ma spesso le fonti tedesche esagerano il numero dei “nemici” uccisi in queste operazioni). La stessa cifra appare in un rapporto della Militärkommandatur
1015 dell’11 maggio 1944, in Istituto storico della Resistenza in Toscana, Toscana occupata cit., p. 385. Infine nella sentenza della Corte d’Assise Straordinaria di Massa n. 6 del 15.5.1946, con la quale si condannava il segretario politico del Partito Fascista Repubblicano di Fivizzano per avere attivamente partecipato al rastrellamento, si parla di 19 morti a Mommio (ringrazio Maurizio Fiorillo per avermi passato il testo della sentenza). Il segretario politico del partito di Pontremoli, che pure era stato presente ad alcune fasi del rastrellamento, fu assolto. In ogni caso le due presenze dimostrano una coinvolgimento attivo nel. rastrellamento delle locali organizzazioni del partito ai massimi livelli “politici”.

25 Istituto storico della Resistenza in Toscana, Toscana occupata cit., p. 385.

26 In Pietro Secchia e Filippo Frassati, La Resistenza e gli alleati, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 112.

27 Riportato in Casella, La Toscana cit., pp. 144-145 e, con leggere modifiche di forma, in Emilio Palla, Popolo e partigiani sulla Linea Gotica, Legnano, Edizioni Landoni, 1974, pp. 171-172.

28 Testimonianza di Vittorio Tonarelli, allora parroco di Forno, in Ruggero Fruzzetti, Alberto Grossi, Massimo Michelucci, Forno 13 giugno 1944. La storia di un eccidio, Massa, Ceccotti Editore, 1994, p. 57. Si veda anche la testimonianza di un altro sacerdote in Casella, La Toscana cit., p. 159.

29 Si veda la sua intervista in Ruggero Fruzzetti, Alberto Grossi, Massimo Michelucci, Forno, pp. 78-81.

30 Non è sicura l’affermazione che le truppe fossero quelle del maggiore Reder, avanzata Emidio Mosti, La Resistenza apuana luglio 1943-aprile 1945, Milano, Longanesi, 1973, p. 58, e ripresa anche da Friedrich Andrae, La Wehrmacht in Italia. La guerra delle forze armate tedesche contro la popolazione civile 1943-1945, Roma, Editori Riuniti, 1997 [1995], p. 221, che però indica erroneamente come fonte Casella. Peraltro in alcune testimonianze e in un
memoriale di un maresciallo della X Mas inquisito per quei fatti (riportato in Fruzzetti, Grossi, Michelucci, Forno cit., pp. 127 sgg.) si parla di truppe delle SS, ed un testimone deportato sostiene di essere stato scortato a Genova “a piedi” proprio da Reder (ivi, p. 86), cosa poco credibile.

31 Gli verrà concessa la medaglia d’oro al valor militare alla memoria.

32 Seguo la ricostruzione accurata di Fruzzetti, Grossi, Michelucci, Forno cit.. All’episodio peraltro fanno riferimento tutte le opere citate nelle note precedenti, con l’eccezione di Klinkhammer.

33 Nel 2005 è stato insignito della medaglia d’oro al merito civile alla memoria.

34 Per il suo comportamento, nel 1955 gli fu concessa la medaglia d’argento al merito civile.

35 Roberto Torre, La Resistenza cit., pp. 111-112.

36 Ivi, p. 107..

https://web.archive.org/web/20140222043128/http://www.comune.massa.ms.it/system/files/orazionePezzinoForno.pdf

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