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Fascisti immaginari, botte reali
Jacopo Matano, 29 giugno 2007
L’aggressione di un gruppo di neofascisti a Villa Ada a Roma durante un concerto rock: due ragazzi accoltellati, un carabiniere contuso. L’ultimo di una lunga serie di episodi di violenze che, da qualche anno, hanno fatto ripiombare la Capitale in un clima da anni ‘70. In contemporanea con il risveglio dei “cattivi ragazzi”
Un’aggressione fascista in piena regola, se nella violenza ci fossero davvero delle regole. Ieri sera erano in trenta, forse pochi di più, eppure dovevano sembrare tantissimi quando verso l’una si sono accalcati ai cancelli dell’ingresso nord di Villa Ada, dove, nell’isola sul laghetto, era appena terminato il concerto della Banda Bassotti. Fascisti, a volto coperto. Mentre il pubblico defluiva, secondo i testimoni hanno cominciato a tirare petardi (qualcuno parla di bombe carta) inneggiando al duce. Poi lo scontro fisico, le bastonate, le urla. Gli organizzatori della manifestazione “roma incontra il mondo” hanno fatto chiudere i cancelli, mentre alcuni spettatori hanno chiamato le forze dell’ordine. Qualcuno però, purtroppo, è rimasto fuori. All’arrivo dei Carabinieri, nell’apice della confusione, la situazione è degenerata in guerriglia, il risultato è stato di due ragazzi feriti, un agente contuso, due volanti del 112 danneggiate. E tanta, tanta paura.
Unanime e trasversale la condanna dei partiti e delle istituzioni a quella che si è prefigurata, da subito, come un’azione a sfondo politico. Il gruppo romano di Forza Nuova, inizialmente indicato come responsabile, ha smentito il coinvolgimento per bocca del suo portavoce, mentre Gianni Alemanno (An), ha espresso solidarietà alle vittime: “Ho appreso con sconcerto del gravissimo episodio avvenuto la scorsa notte a Villa Ada. Si tratta di un fatto oltremodo preoccupante, che rischia di rinnescare una spirale di violenza tra i giovani”. Il sindaco Veltroni, insieme all’assessore Silvio Di Francia, ha fatto visita ai due feriti, ricoverati all’ospedale Sandro Pertini. “All’improvviso ho sentito un’esplosione, poi si è sparsa la voce che i fascisti volevano entrare. Mi sono ritrovato in un parapiglia, sono caduto in terra e mi hanno picchiato prima con le spranghe, poi hanno tirato fuori i coltelli”, è la testimonianza di Marco di Pillo, il quarantenne ricoverato nel reparto di chirurgia generale dell’ospedale. Marco ha nove ferite di arma da taglio, di cui, come racconta una sua amica, due profonde sulla schiena. A lui è andata bene. Non come a Renato Biagetti, ucciso il 27 agosto scorso mentre usciva da una dance-hall reggae sul litorale di Focene.
Raid che riportano alla mente gli anni ‘70, le irruzioni con le spranghe e le “lame”, cori che inneggiano a Mussolini, ai feriti a terra. Immagini che sembravano sepolte dalla pacificazione costituzionale, dalla fine della prima repubblica. Roba vintage, ci fanno addirittura i film. Ma per i ragazzi che Roma la vivono, che seguono la politica giovanile, che frequentano i centri sociali o semplicemente le feste estive di partito, gli anni di piombo non sono mai finiti: ci sono posti dove andare ed altri dove non mettere piede, quartieri a rischio, serate difficili, tensioni latenti che sfociano in violenza. Nell’ultimo anno, le aggressioni a scopo intimidatorio non si contano. Dall’omicidio di “Renatino” alle svastiche su via Tasso e sulle vetrine dei negozianti ebrei di Viale Libia e Viale Eritrea. Dalle botte in pieno giorno all’univeristà di Roma Tre al pugno in faccia ad una ragazza nel contesto “istituzionale” della consulta provinciale degli studenti. Fino alle botte di venti giorni fa a Tor Vergata, dove un cric in testa e bastonate col passamontagna sono costate venti punti di sutura ad un militante di “sinistra critica” che affiggeva manifesti anti-Bush. Il tutto condito dall’ onnipresente spettacolo delle bravate in motorino, dei raid al grido di “Duce, Duce” davanti alle feste delle sezioni territoriali dei partiti di sinistra. Gesti e saluti così naturali, anche a 60 anni di distanza.
L’universo della “peggio gioventù” della Capitale negli ultimi cinque-sei anni si è espanso a macchia d’olio. Era l’epoca di Francesco Storace alla regione, quando sui muri di Roma cominciavano a campeggiare i segni della “rinascita” fascista. La tregua tra le tifoserie delle curve e la volontà di uscire allo scoperto, di darsi un’identità culturale: vennero le occupazioni “non conformi” e quelle a scopo abitativo (“osa”, che suona a pennello come un’audace esortazione), i ragazzi di Casa Montag prima e Casa Pound poi, il foro 753 (vicino ad Azione Giovani) nello stabile destinato al museo della Shoah, il 2punto11 (2.11, ovvero la seconda e l’undicesima lettera dell’alfabeto: B ed M., iniziali di Benito Mussolini), Casa d’Italia. I fascisti immaginari, quelli del libro di Luciano Lanna e Filippo Rossi, diventavano reali. E invitavano gli autori di quella e delle altre indagini sulla cultura della destra antagonista a confrontarsi con loro. Alcuni chiedevano il Mutuo Sociale e si candidavano con Storace per il suo secondo mandato alle regionali (Gerri, la “testa di ferro”). Il tutto, in contemporanea al restyling politico, culturale e soprattutto grafico della Fiamma Tricolore, che accanto ai manifesti in ricordo dei bei tempi (“sostieni la squadra del cuore”, con l’immagine di una squadraccia del ventennio), negli ultimi due anni è riuscita ad attirare una miriade di giovanissimi intorno all’organizzazione Blocco Studentesco, allo slogan di “la ricreazione è finita”. Oltre, naturalmente, alla sempreverde (o semprenera) Forza Nuova, alle domeniche allo stadio, alla musica degli zetazeroalfa, alle magliette “nel dubbio mena”, o “me ne frego”.
Tra libro e moschetto, se l’intento era quello di far prevalere il primo, l’operazione non sembra del tutto riuscita. Fuori dai convegni con gli ex repubblichini, dalle iniziative editoriali e dai concerti, infatti, la lotta per la conquista del territorio romano si svolge parallelamente con le immancabili violenze. E trenta persone che si ritrovano fuori da un’iniziativa dell’Estate Romana con petardi, bombe carta, caschi, spranghe e coltelli non sono certo “schegge impazzite”. Nei centri sociali “rossi”, ma anche nei collettivi universitari, si parla di “guerra sul territorio”, di “reazioni” necessarie, di bisogno di proteggersi. E quindi ecco le uscite sempre in gruppo, a volte le spedizioni. La dialettica politica si trasforma in faida, nella sfiducia verso le forze dell’ordine e la volontà di “farsi giustizia da soli”. E se il Comune non riesce a denunciare l’esistenza di un’ “emergenza”, le iniziative destinate alla memoria non bastano. Perché esse si scontrano con una “nuova versione” della memoria che nega, rivede, rilegge, e soprattutto si fomenta, trae dall’antagonismo la spinta per crearsi una nuova identità e, sempre più spesso, la determinazione per scendere in strada con le armi in mano. All’ombra di Montecitorio e del Campidoglio, a pochi chilometri dai palazzi della politica, c’è una guerra immaginaria fatta di violenze reali.
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