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Da (www.drammaturgia.it)
Censura teatrale e fascismo (1931-1944)
La storia, l’archivio, l’inventario
A cura di Patrizia Ferrara
Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, 2004, voll. 2, pp. 1114, s.i.p.
ISBN 88-7125-188-1
Recensione
Un’opera preziosa, questa messa a punto da Patrizia Ferrari, per gli studiosi e i ricercatori non superficiali di storia del teatro e dello spettacolo. In due densissimi volumi raccoglie infatti l’elenco di tutti i copioni teatrali e radiofonici, i libretti d’opera, le sceneggiate (ci sono anche sketches isolati, scenette, canzoni e, per la radio, interviste, quiz e testi pubblicitari) sottoposti all’approvazione dell’ufficio censura nel periodo 1931-1944. I manoscritti (o dattiloscritti o bozze di stampa) sono disposti secondo l’ordine alfabetico dei nomi degli autori e, all’interno di ciascun autore, secondo la successione cronologica, sono inoltre accompagnati dall’indicazione dell’anno di richiesta del nulla-osta, dal genere di appartenenza, dall’indicazione dell’eventuale autorizzazione negata, dalle note tipografiche relative all’edizione (qualora esista); seguono poi i nomi di musicisti, riduttori, traduttori, compagnie, luoghi e teatri di rappresentazione, segnatura archivistica e eventuali note di commento. Talvolta invece del nome dell’autore figura registrato quello di chi si è incaricato del deposito essendo spesso difficile risalire da quest’ultimo (che poteva anche essere un ente anonimo, un semplice traduttore, un impresario, un direttore di teatro, un’agenzia, un ente politico ecc.) all’effettivo responsabile della scrittura. L’inconveniente – che implica per il lettore impegnato nella consultazione un supplemento di ricerca – viene in parte superato da un imponente indice dei titoli (pp. 937-1104) che facilita la ricerca. Encomiabile invece un altro aspetto di questa catalogazione relativo agli pseudonimi, frequenti all’epoca, per i quali si è provveduto ad opportune attribuzioni d’identità anche nei casi più difficili.
Il prezioso lavoro della curatrice si è svolto su un corpo di circa 13.000 fascicoli, tenendo conto che, a causa di un allagamento avvenuto nel 1964, circa 5000 incartamenti sono andati distrutti. C’è da tenere presente che ogni opera è spesso accompagnata da notazioni manoscritte dell’ufficio, indicazioni di tagli e modifiche, e soprattutto da carteggi fra gli autori e il censore: un materiale che implica enormi possibilità di ricerca per la storia della drammaturgia, in primo luogo, ma anche per la storia del costume. Come scrive la curatrice, “accanto alle opere dei grandi nomi della storia del teatro e di autori professionisti di medio calibro, sono presenti migliaia di copioni scritti da dilettanti […]. Le opere di tanti ‘piccoli’ autori, di lieve o smaccata propaganda, più o meno banali, più o meno noiose, a volte mai rappresentate, risultano estremamente significative per un utilizzo specifico della fonte archivistica, consentendo studi anche al di là del tema stesso della propaganda e della storia del teatro, studi connessi con la storia sociale del costume, volti ad analizzare la realtà culturale ‘diffusa’ e preponderante nelle diverse categorie socio-economiche della popolazione dell’Italia fascista” (pp. 131-132).
Ma la parte critica più interessante di questo lavoro – peraltro encomiabile da molti punti di vista – è quella dedicata alla ricostruzione del profilo di Leopoldo Zurlo, il Censore per eccellenza del regime, colui che detenne il potere quasi assoluto (dovette spesso cedere, e anche volentieri, alla volontà del Duce e dei suoi gerarchi, di cui fu leale servitore) e che lesse, commentò e classificò tutto il materiale drammaturgico di quegli anni. C’erano in lui più personalità avvinghiate e sovrapposte. Funzionario governativo di formazione ottocentesca (era nato nel 1875 a Campobasso), servitore dello Stato e ligio al governo in carica (qualunque esso fosse), di buona cultura letteraria annebbiata da un costante moralismo cattolico, si piccava tuttavia di coltivare un suo gusto personale che, ora timidamente ora istintivamente, lasciava trapelare quando le superiori ragioni dello Stato non lo tacitavano.
Impiegato devoto, ma anche pedagogo (come giustamente sottolinea la Ferrara), egli è trascinato dal suo accanito lavoro a trasformare la discrezionalità amministrativa in giudizio critico e, in alcuni casi, addirittura in enfasi programmatica. In mezzo alle migliaia di copioni liquidati nel bene e nel male con il distacco del funzionario anonimo, emergono improvvisamente fascicoli in cui le sue note si accendono di intenzioni magistrali. Alcuni testi sono censurati non perché offendano la morale cattolica o il regime fascista, ma perché semplicemente offendono la grammatica, la poetica o la drammaturgia. Da esecutore di un mandato politico Zurlo si trasforma così in maestro di poetica o di estetica, quando non sfiora anche questioni linguistiche e stilistiche. Quasi in improvvisi deliri di onnipotenza il Censore diventa il Profeta di un nuovo teatro che non ci sarà mai, si accalora contro i cattivi scrittori e suggerisce ai mediocri la strada che dovrebbe migliorare la nostra drammaturgia, se non la nostra letteratura.
Il delirio di onnipotenza pedagogica si manifesta però a tratti, per intervalla insaniae, tenuto sotto controllo dalla rigida disciplina fascista, quella che lo fa essere pedissequo esecutore delle ignobili volontà razziste e antisemite così come zelante curatore della sessuofobia del tempo suo, nel nome della quale sostituì parole come “mutandine” con il meno sensuale “reggipetto”. Una collezione delle sue varianti di censore meriterebbe un apposito libretto tanto queste sono aberranti o divertenti. Al confronto del grottesco Censore la vicenda del censurato Roberto Bracco – cui la curatrice fa un breve e significativo riferimento – assume connotati quasi eroici.
Avere riaperto le pagine di questo inglorioso e talvolta ridicolo capitolo della nostra storia dello spettacolo è tuttavia un merito che va al di là dei contenuti della vita e dell’opera di Zurlo (su cui sarà comunque opportuno tornare grazie ai materiali forniti da questi due tomi). La drammaturgia italiana degli anni Trenta e Quaranta, per quanto mediocre, deve essere riletta partendo di qui e mettendo in subordine le opere che ci sono state tramandate dalla stampa o dalle riprese del dopoguerra (che fecero a loro volta una selezione di contenuti e non sempre di qualità) rispetto a quelle che giacciono in questo archivio – censurate o no. Rimergeranno anche scritti minori di autori maggiori che il tempo e le cattive condizioni politiche avevano sepolto, non dotate di un valore monumentale che le potesse riabilitare nel dopoguerra, ma ricche di una loro vivificante fragilità. Andare a vedere per credere, ad esempio, alle voci Brancati Vitaliano, De Filippo Peppino, Fabrizi Aldo, Fellini Federico, Macario Erminio, Pinelli Tullio, Totò, Viviani Raffaele.
Siro Ferrone
materiali storici